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Autore: eveyzonk_traduzioni    06/01/2014    2 recensioni
[johnlock angst]
In tutti i passati e presenti e futuri e altre vite: Sherlock ama John, anche quando John non ricambia il suo amore.
Genere: Angst, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: Traduzione | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Potete leggere l'originale, qui.
Per Sara, 
per tutto il divertimento, che sicuramente non verrà guastato da un po' di angst :) 









Sehnsucht.




La medusa non ha un cuore tutto suo. Solo una cavità superficiale di cartilagine e mucchi di nervi sparsi.

Ciò nonostante, basandosi su qualche sorta di strana giustizia sadica e poetica (forse a causa delle Parche che se la ridono), delle meduse artificiali possono essere create da cuori altrui. Cellule cardiache di ratti, silicone e legami sintetici. Tutto messo insieme per creare un piccolo mostro Frankestein che solo una madre potrebbe adorare.
**

In un’altra vita: le ciglia di John si agitano contro la sua guancia, creando invisibili disegni piumati contro la sua pelle. Potrebbe essere scolpito nell’alabastro, per il modo in cui John si scioglie contro di lui; calore e ghiaccio, umano e marmoreo.

In quell’altra vita, culla la mandibola di John nel suo palmo, carezza la noce del suo collo: cosciente dei quindici diversi modi in cui potrebbe strangolarlo in questa posizione. Possibilmente anche sedici, a seconda della collocazione dell’arteria tiroidea di John.

L’intimità corre in brividi lungo i suoi avambracci nudi, striscia sotto la sua pelle come tralci di vite, si tinge dell’odore del dopobarba di John. Si tappa nei suoi pori, imprime il suo marchio con l’henné della memoria-fantasia.


Non è reale, lo sa.
**



Prende il bus delle cinque per Knightsbridge, e si intrattiene guardando i passeggeri vicino a lui piuttosto che pensare all’espressione di John (e alla sua reazione) quando Sherlock si presenterà alla sua porta. Lo prenderà a pugni? Urlerà oscenità? Serrerà la porta per non guardarsi più indietro? Esploderà in un pianto? Dio, spera di no. Sherlock non sa cosa fare con la gente che piange. Forse John si staccherà dallo stipite della porta per attirarlo fra le sue braccia, e forse segretamente, a Sherlock piacerà (Le sogna. Le braccia di John, attorno a lui).

L’area di Knightsbridge in cui si sta dirigendo è un quartiere piuttosto caro, lontano abbastanza dal cuore della città da essere pacifico, ma non così distaccato dalla vera e propria vita mondana. Perché un dipendente da adrenalina come John avesse scelto un posto tanto opaco, specialmente uno così brulicante di telecamere CCTV e guardie, Sherlock non riesce a immaginarlo.

Anche se, dopo tre anni, non c’è niente di John di cui possa essere sicuro, ricorda a se stesso. Anche Mycroft aveva detto così quando Sherlock aveva fatto irruzione nel suo ufficio, il cappotto infilato storto, per domandargli l’indirizzo di John, nessuna domanda concessa. “Le cose non saranno le stesse,” aveva avvertito Mycroft. Sherlock aveva solamente sibilato un “Ovviamente” in risposta e girato i tacchi, sollevando di proposito il lembo del tappeto di velluto uscendo.

Perché lo sa. Sa che sarebbe già una fortuna se tornassero ad essere anche solo un’ombra degli amici che erano un tempo. Qualsiasi cosa in più sarebbe il dispiegarsi di un sogno irrealizzabile e decisamente fuori questione; se John non s’era innamorato di lui prima del salto dal tetto del St Bart’s tre anni fa, difficilmente sarebbe stato propenso ad innamorarsi di lui ora, dopo. Dopo che Sherlock l’avrà preso da parte e spiegato senza mezzi termini cosa ha fatto. Cosa ha dovuto fare. Userà profondi, furtivi sussurri (non importa che è già tutto nel rapporto della polizia) e forse, se fa le cose come si deve, John proverà abbastanza pietà nei suoi confronti da non correre via. E Sherlock prenderà la sua pietà, perché non sa cosa farebbe senza John.
**



Non sa quando è iniziata. La realizzazione che avrebbe potuto amare. Perché quando si è fortemente (e ripetutamente) consci di qualcosa, diventa sempre più difficile dubitare.

Sente se stesso scivolare, indietro a nove anni fa, quando lo recuperarono dalla grondaia. Fatto come mai e con le iridi dilatate. Mentre distruggeva se stesso.

Ha semplicemente assimilato la distruzione, ecco tutto. Trovato una nuova droga. E ora, senza di essa - a stringere e risucchiare le sue vene - può sentire i suoi polmoni contrarsi.

Dio, se solo potesse sniffare. Se solo potesse.
**


Nell’occhio della sua mente, John è seduto sulla poltrona che Sherlock ha personalmente designato come “La poltrona di John”. Si alza lentamente la maglia e lascia che Sherlock si prenda il suo tempo per catalogare in silenzio ogni piccola cicatrice, ogni taglio e livido. Questo è dal caso dei post-it in Sussex, questo da quello dei banditi in Germania: la cicatrice da coltello che gli traversa la schiena, quella volta in cui era quasi caduto nel Tamigi. Quella vicino al suo ombelico, quella volta in cui ci cadde per davvero.

Nell’occhio della sua mente, Sherlock arriva a conoscere il corpo di John bene quanto il suo. Non ha bisogno di guardarlo di nuovo dopo la prima volta; è stampato nella sua mente, le linee frastagliate a lui intime quanto le strade di Londra.

Nell’occhio della sua mente, c’è la luce del sole che si inclina su Baker Street. John è seduto sul divano, e Sherlock è inginocchiato di fronte a lui, incrollabile. La luce riscalda i capelli di Sherlock fino a imbrunirli, dissemina fotoni sul tappeto creando triangoli inclinati. Sfregia con pigre strisce dorate il naso e guance di John. Lui alza la testa e le dita di John toccano il lato della sua faccia, e lo sa.

Lo sa.

Nell’occhio della sua mente, Sherlock dà la caccia a criminali per tutta Londra, e John lo segue senza una domanda. John gli fa i bendaggi, e gli ricorda di mangiare, e fa la spesa. John non domanda dei grazie, e Sherlock non gliene deve.

Nell’occhio della sua mente, l’amore è una possibilità che si trova proprio all’estremo dei suoi polpastrelli.
**


Il tempo (e le persone) non si fermano ad aspettare un ritorno che non è stato neanche promesso, non per tre anni, e non per sedici proiettili.
**

“Salve, posso aiutarla?”

Sherlock ha memorizzato nella sua mente la faccia di John, ogni espressione è meticolosamente catalogata. (Sa ogni cambiamento nei muscoli, ogni profondo strato di pelle, il modo in cui la sua mascella si contrae quando è frustrato. Sa la sua temperatura normale, il modo in cui il suo naso si fa rosso quando fa freddo, i segnali che sta per starnutire o sbadigliare. Ha appuntato, esaminato e preso in disparte ogni singolo elemento: niente lasciato scoperto. Perfettamente leggibile.)

Sherlock batte ciglio, perché l’espressione di non riconoscimento di John deve essere uno scherzo, deve esserlo. Uno scherzo per vendicarsi? John non poteva sapere che stava arrivando. (Lui non potrebbe essere così crudele).

Cerca tracce e segni di un bluff, ma non ce ne sono. Legge la verità, nel sorriso modesto, nella postura accomodante, nel bastone di metallo che porta con sé. E legge “scenografia umana” nel modo in cui lo sguardo di John gli passa attraverso come se non l’avesse mai visto prima nella sua vita.
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Il pesce rosso può ricordare per tre mesi; la lumaca, un mese; il piccione, diversi anni.
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L’ape può ricordare l’odore di un fiore per la sua intera vita.
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Sherlock gli dice oh - pardon - cercavo qualcun altro, e se John fosse stato una persona più intelligente, ciò l’avrebbe confuso; nessuno aveva abitato in quella casa prima di lui. Sherlock lo vede negli strati del prato, nel calcestruzzo immacolato, negli infissi mai rimpiazzati della finestra alla sua destra, nella grondaia ancora dritta alla sua sinistra. E’ il primo ad occupare la casa. Ma non è solo.

Anche avendo una fessura così piccola sulla (nuova) vita di John, Sherlock non può evitare di notare. E’ travolgente cosa si può vedere, in un nudo minuto nel tempo.
Annidati proprio vicino all’entrata: una scarpiera ombrata contenente un paio di pantofole femminili e dei tacchi, ben tenuti. Formano un comodo duo affianco agli stivali Loake di John. Ci sono lievi graffi e leggere tracce di sporco secco dove sono state collocate precedentemente - innumerevoli volte. Non una mera visita, allora. Due ombrelli sul tappetino interno - leggermente umidi. Sono stati usati di recente, entrambi. Un set di cappotti, nascosti dietro una cabina mezza chiusa da una porta armadio.
Del tutto priva di polvere, non priva di utilizzo. Un uomo e una donna.

Sherlock non lascia che la cosa lo trapassi, che si fonda dentro sé in buie fenditure.
Si raddrizza, invece. Affoga. In qualche modo, alza i suoi piedi, accenna un allegro arrivederci e si avvia a passo leggero sul lastrico bianco accecante che va verso la strada.

Guarda la porta chiudersi fermamente contro lui, il battente rimbalzare due volte contro il legno. Origlia gli ovattati mormorii di voci curiose - una più acuta, risposta da quella di John. Uno strattone e un tirare a sé, un mix di melodie e armonie. Nessun parlare sull’altro - intimo, semplice. Si sente un voyeur; la consapevolezza gli sporca metaforicamente la camicia bianca e gli fa coprire la bocca con una mano sudata.

Se ne va prima di sentire altro, scivolando via nel modo delicato in cui fanno gli animali feriti.
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Nonostante il suo magniloquente vocabolario, la pressione sul lato sinistro della sua gabbia toracica si rifiuta di avere un nome. Affonda, diventa troppo pesante, come il peso di Atlante nidificatosi in cima alle sue ossa.
**


“Hai delle domande.” Un’affermazione. Sherlock sa che non sono delle scuse. L’ovattato battere di un ombrello sul tappeto felpato dietro di lui gli dice che, nonostante il tono spietato, suo fratello è altrettanto teso. Un attributo del quale l’uomo non si sarebbe mai potuto liberare.

Sherlock non è sicuro di cosa gli si possa attribuire.

Lascia le parole sospese nell’aria, a condensarsi ogni secondo - come nuvole pregne che drappeggiano un compiacente, grigio e liscio orizzonte. Le lascia fluttuare letargiche negli spazi tra l’una e l’altra, riempiendo le pause di silenzio con le orme di tutto ciò che non è stato detto, che non sarà detto. Le lascia ingrossare finché non scoppiano; una vista oscena, sfruttare il silenzio. Le lascia gonfiare fino a quando non le può più contenere.

“Ovviamente. Come e perché?” Le dita afferrano la base del suo violino con forza, recuperandolo languidamente dal pavimento dove se ne stava sprecato. Sa indossare il finto disinteresse come una seconda pelle, incollare e spellare gli strati e le patine sottili.

Ciò nonostante, una fine, traditrice rottura della sua voce alla fine del ‘perché’ fa cadere la copertura, senza alcun dubbio.

“Non c’era niente da fare. E’ stato proprio come ho detto - un incidente.”

Una pausa. Sherlock arriccia le dita dei piedi contro il falso velluto, l’unico segno del fatto che ha ascoltato. Respira, lentamente, girando la testa per fissare irritato il soffitto bianco smorto; lascia penzolare le sue braccia dal divano con noncuranza. Con lo sguardo forma dei buchi nel soffitto, immaginando siano le suole di un paio di tacchi femminili, il crescendo della voce di lei rimbalza contro la caverna della sua testa, un ritmo costante, come uno yo-yo che sale e scende, con un tremolo e alto vibrato. Spietato, pervasivo.
“Amnesia retrograda. La diagnosi originale era perfettamente giusta, e senza alcun dubbio, non può essere sbagliata; sai, di certo, che non ha aveva mai avuto cattive esperienze con forti barbiturici, prima.  Mi sono assicurato che si siano presi cura del medico responsabile della ricetta di quei farmaci. Una...sfortunata serie di eventi, da entrambe le parti.”

Non c’era stato bisogno di un diciassettesimo proiettile, allora. (Lo considera, incurante.) (John aveva sempre odiato le medicine liquide. Diceva che gli sembrava di bere morte in plastica (“E poi dici che sono io il melodrammatico.” “Lo sei, idiota.”))

Non dice niente, lascia che il rumore statico e il ronzio del suo portatile (abbandonato con disinvoltura: tavolino da caffè) parlino per lui, li lascia stiracchiarsi per l’aria muta, in onde tangibili di una pallida incandescenza, lascia che affondino e diventino  snelle corde setose di suoni. Cerca Mycroft tra quelle corde di violino, lo spia attraverso la vista delle corde e l’ostile stratosfera, vede tutto ciò che non è, che non può essere detto.

Tiene i suoi occhi spalancati, trapana l’intonaco del muro con susseguirsi di nomenclature chimiche: adamantina, borneolo, cadaverina, perossidasi, carbossilasi, ossigenasi, bisfosfato. Bombarda le finestre con familiari sillabe ad incastro, particelle alfa su una lamina d’oro.

“Il modulo NHS originale annota che ha avuto problemi a dormire. Sottolineava che non erano correlati ad un trauma. Solo problemi ad addormentarsi.”

Vuole chiedergli di lei, della donna. Ma invece - “Da quanto?”  

“Due anni.”

Contrae le dita che mantengono il suo violino, pizzicando le corde debolmente; rilassa la presa, lascia che il tiepido legno scivoli contro i calli non curati dei suoi polpastrelli.

L’orologio ticchetta. Niente sembra muoversi, i respiri stropicciati dei presenti nell’appartamento battono due metronomi diversi, per sempre fuori contatto l’uno con l’altro: sincope irreversibile di un veloce dare-prendere, uno spingere-tirare senza equilibrio. Incatenati al ritmo dei loro sordi rullanti; vedere l’altro, ma non poter approcciare, due pianeti che passano in orbita.

Un pesante sospiro, impaziente e carico di aspettative. Sherlock non risponde, i suoi deboli respiri sfiorano i riccioli sulla sua fronte.

L’orologio ticchetta ancora. Desidera si possa fermare.

Piedi coperti da scarpe di pelle si spostano verso la porta; lui non si muove, continua a fissare acutamente ai proiettili nel muro. Tiene i suoi occhi spalancati, mentre il rumore dei pneumatici si allontana in distanza.

Tiene gli occhi spalancati, fino a quando non è sicuro che non lo tradiscano.
**

E’ arrabbiato. E’ arrabbiato perché è John che l’ha lasciato qui, ed è colpa di John se c’è l’eco nel suo petto come in quello di uno scheletro.

Spara altri sei proiettili nel muro, cancellando la faccina sorridente perché così impara.
**



Pensaci molto attentamente. Non metterò a posto alcun casino. -MH
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Tre anni e sedici proiettili (diciassette cuori).

Ne valeva la pena?
**

E’ arrabbiato perché ha paura di cosa ci sarà una volta che la rabbia sarà scomparsa, perché vuole odiare John ma si ritrova a mancare di credibilità quando lo dice all’uomo nello specchio.

E’ terrorizzato da cosa succederà quando sarà solo, la nebbia protettiva del risentimento vaporizzata perché non può odiare John, non per sempre.
**

Il peggio arriva quando lo incontra per strada. Anche se, la parola giusta è: scontrarsi. John rantola quando cade, ed è il suono più adorabile che Sherlock abbia sentito in mesi.

La prima cosa su cui si fermano gli occhi di Sherlock sono le sue dita. Nessun anello. Un’ondata di sollievo lo punge.

“Mi dispiace,” riesce a boccheggiare, aiutando John ad alzarsi. Tiene la sua faccia nascosta dal cappuccio, dovendosi camuffare per evitare i pochi membri della stampa che ancora lo ricordano (dice a se stesso che quella è l’unica ragione). Il posto dove la sua mano tocca il braccio di John: brucia. Scotta come ferro bollente, come mercurio in ebollizione versato sui suoi polpastrelli, ma non riesce a distaccarsi. Sa che ricorderà il tessuto sotto le sue dita, sa che infesterà i suoi pensieri oziosi. La sensazione della pelle in movimento sotto la spessa copertura di quei polimeri di stoffa, sapere che John è vivo e che questo è il quanto più vicino gli possa essere.

“Non fa niente,” dice John, ma Sherlock lo nota a malapena. Legge domesticità nella pressione del ferro da stiro sui suoi abiti, nelle buste della Tesco piene di latte e carne che sta portando (abbastanza per due), nel punto dietro il suo orecchio (nessun residuo di crema da barba), nella mancanza di borse sotto gli occhi (rassicurato).

Le mani si sono congelate in ghiaccioli, carne umana e sangue e ossa bloccate come acciaio: si convince a muoversi, a smettere di fissarlo (“Non possiamo fissare entrambi.”) ma è bloccato nella cassaforte che è la sua pelle. Legge in contatto con sua sorella nelle linee della sua fronte, un lavoro stabile nel suo giubbotto (una nuova linea, arrivata nei negozi solo il mese scorso), spazzolino elettrico (se lo può permettere: sicurezza finanziaria) nella pressione delle sue labbra.

Legge felicità e non ha bisogno di me nel libro aperto che è John Watson.

Dio, le sue labbra. Pochi centimetri più in là, potrebbe semplicemente baciarlo, avvicinarsi e chiudere gli occhi. Se solo—

Lo spostamento perplesso delle mani di John lo riportano alla realtà. Annuisce una volta, non è sicuro di come riesce a convogliare abbastanza voce per grugnire “addio,” e forzarsi a camminare via, lentamente, con calma, con un equilibrio che non sente d’avere. Può sentire lo sguardo di John su di lui fino a quando non volta l’angolo (dice a se stesso che John continuerebbe a fissare dov’è scomparso, ma non è altro che un desiderio vano).

E poi— si permette di correre.

Va giù al Tamigi, un po’ più in là di Brentford. Le persone guardano (certo che guardano; è quello che le persone fanno) ma lui non presta loro attenzione. Il familiare scalpiccio dei suoi piedi sostituisce le parole che si ripetono nella sua testa, che non può continuare a illudersi dicendosi che questo non è come finisce tutto, che è tutto ciò che gli resta. La sensazione della pietra irremovibile sotto i piedi è tutto ciò che deve registrare, rimpiazzando il ronzio persistente con una grata eclissi di niente.

Non sa da cosa stia correndo o dove. Non correva così lontano e all’improvviso dai tempi dell’Università (da Victor).

Quando fa ritorno a Baker Street, sono le undici di sera e non c’è nessuno in giro.
Di questo, ne è grato.
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Il profumo dello shampoo di John resta con lui per settimane.

Il suo perplesso mezzo lamentio: mesi. Sherlock manipola il suono in perverse fantasie riguardanti il bloccare John con le sue mani, forzare la lingua nella sua bocca, strusciarsi lascivo contro il suo fianco più piccolo, lasciare che la lana grezza del maglione grigio strofini contro l’interno delle sue cosce.

Possederlo.
**

E’ rimasto con una vasta gamma di maglioni sporchi, un vecchio bastone sotto il divano, e più che sufficienti ricordi da durare una vita. La valle del vuoto disprezzo si dissolve nel suo stomaco, lasciando i sali della sua esistenza nel letto del fiume, freddo ed esposto al cielo. Si sente esposto, perché non è mai stato così trasparente, la rabbia vacante era un miglior scudo che niente. E ora non ha neanche quella.
**

La volta dopo, è una vecchia signora che vende giornali fuori il Caffè che John frequenta.

Legge amore nella fedina di fidanzamento al suo dito.

Sherlock se ne va bruscamente, abbandonando la catasta su un tavolo vicino. Zoppica via, per rimanere nel personaggio, ma il suono della risata di John (al barista, non a lui, ricorda a se stesso) si schianta contro un angolo della mente e sa che non scomparirà.

Vuole correre.
**

Il pesce angelo dei Caraibi trova un compagno per la vita.
**

Pensa di chiamare (non importa che non conosce il nuovo numero di John), pensa a cosa staranno facendo quando lui li interromperà. Starando facendo sesso? Lei avrà le sue gambe poggiante sulle sue spalle, lui pulsante dentro lei, e le sue braccia lisce saranno strette attorno al suo collo? Starà toccando la sua cicatrice? Piazzando le sue labbra su di essa, baciandola leggermente? (Digrigna i denti.) La sua mano sinistra starà tremando mentre stringe le spalle di lei? Forse le starà sussurrando dolci sciocchezze fra i capelli, il loro bozzolo caldo l’unica casa che conosce. (Si morde l’interno della guancia.) Forse lei starà intrecciando le sue mani con quelle di lui, le loro fedine d’oro tintinnare l’una contro l’altra, un sorriso contro le labbra screpolate, le gli canticchia un Ti amo. E lui le sussurra la stessa cosa in risposta.

Sherlock starebbe chiamando, e John non risponderebbe. Si spingerebbe verso le sue labbra, chiudendo gli occhi contro l’inesistente squillare del telefono. Le direbbe che può aspettare, e non richiamerebbe mai più.

In un’altra vita: John sarebbe stato qui, invece. Sherlock lo starebbe divorando. Succhiando la lingua nella sua bocca, estraendo sangue come delle lamette. Lo starebbe marchiando, lascerebbe cicatrici incancellabili - morderebbe il punto morbido sul suo collo, dove il bavero non arriva - ostenterebbe il suo possesso al mondo. Sarah lo vedrebbe. I suoi colleghi lo vedrebbero. Lei lo vedrebbe, Mycroft lo vedrebbe, tutti lo vedrebbero. E l’avrebbero saputo. Avrebbe ucciso John, lentamente, per poi ricostruirlo a sua immagine, il mondo rimpicciolitosi ad un coltello e alle pietre da affilare che sono le sue clavicole. Lo avrebbe avvolto in ferro e catene, per non farlo mai andare via. Canterebbe, ‘John, John, John’, e in quell’altra vita, John non se sarebbe mai andato. Steso, docile, e Sherlock a bruciarlo, bocca aperta e gemiti.
Un irregolare squarcio rosso nella sua visione: ora Sherlock è nella realtà, ansima.

Non è giusto. Non è giusto.
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Perché non abbastanza folle da negarlo. Che vuole questo, un intangibile qualcosa a cui difficilmente può dare un nome.

Non può accettare che questa realtà è tutto ciò che ha, che potrà mai avere. La mancanza scava le sue ossa, ne succhia fuori il midollo, lo lascia a mani vuote con un rimbombante guscio di se stesso.
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Non ha provato a rimpiazzare la sezione di libreria di John. Dice a se stesso che i testi con le orecchie per segnalibro, annotati in una grafia illeggibile, saranno utili. Potrebbero esserlo. Un giorno.
**


Da qualche parte molto tempo fa: Sherlock non parla. Da uno sguardo al soggiorno, ci entra. Si siede nella poltrona morbida vicino al divano, e non dice una parola, sistemandosi su un fianco. Accende il portatile e fissa cocciutamente lo schermo mentre prende vita con un leggero ronzio, dimentico della scena che si dispiega davanti a lui.

“Dovrei andare—”

“No, Josephine, va bene—resta—” Un fruscio di maglioni, e la riluttante protesta di John spunta da qualche parte dietro di lui. Le scale, quindi.

“Ti chiamo.”

Il distante chiudersi di porte, e Sherlock è vendicativo, lieto che i passi di John suonino malvagi quanto la brutta sensazione di aggrovigliamento che c’è nel suo petto. John marcia di fronte a lui con una precisione militare, ma Sherlock lo ignora, continua a battere a computer risposte per suoi potenziali clienti.

“Non potevi semplicemente lasciare la stanza?” Il suo fiato gli arriva come uno schiaffo e un pugno tutto insieme, impacchettato con una forza controllata.

Sherlock contrae il suo indice, cliccando su un altro programma. Tutto questo lo colpisce come un calcio nello stomaco, ma sia dannato se lo dimostra. Si trasformerebbe in pietra piuttosto che dimostrarlo.

“Solo...è la quarta volta questa settimana, capisci. Guarda, io…” John prende una pausa, sedendosi pesantemente sulla sedia affianco. “Possiamo scrivere un orario? Mi fai sapere quando non sarai in casa?”

Sherlock non si disturba neanche a fare un’occhiata incredula, semplicemente passa oltre con un click. Un sospiro stanco di John gli dice che sta cercando di non arrabbiarsi, giustificando mentalmente la cosa con un altro ‘Sherlock non capisce i comportamenti umani’—e in qualche modo, questo lo ferisce possibilmente anche di più.

“Non starò fra i piedi,” dice, finalmente. Non guarda in alto, anche quando sente lo sguardo sbalordito di John su di lui, viscerale.

“Guarda, io,” John si stropiccia gli occhi con una mano, “capisco che i sentimenti non siano il tuo campo. Che probabilmente non li capisci. Ma è qualcosa che il resto di noi fa”

Ma lo faccio, vuole sbottare Sherlock, riprendendosi prima che la confessione possa sfuggirgli. Lo faccio, lo faccio, lo faccio. Vuole immergersi sotto la piattaforma continentale, incunearsi sotto le zone di subduzione e non uscire ma più, vuole centinaia e migliaia di chili di terra a schiacciarlo senza pietà, così da non dover ricordare cos’è per John e, cosa più importante, cosa non è. Così che tutto ciò che resta di lui - particelle di polvere e antimateria - non sarà mai trovato e preso in giro per quanto il suo cuore abbia rielaborato il suo intero universo attorno a John Watson, quando John Watson non ha chiaramente fatto lo stesso.

“Voglio solo, sai, tempo per me stesso.”

“Al contrario, capisco perfettamente.” Ancora non guarda in alto, neanche quando John si arrende e con un sospiro sconfitto cammina via.
**

In un altra lontana galassia: John si spinge contro la schiena di Sherlock, la lingua striscia disperata contro un altrettanto disperato e martoriato orecchio. Lascia i suoi segreti scritti nell’incavo del collo di Sherlock, e i suoi vasi sanguigni vagare e trascinarsi sul suo corpo, e Sherlock non lava mai via i segni, scoprendoli come un trofeo da far vedere al mondo.
**


Pensa di contattare John, di rivelargli tutto ciò che ha dimenticato. Di sedersi con lui nel suo soggiorno, di fingersi felicemente sorpreso quando la sua fidanzata appare con tè e biscotti, di rispolverare le storie e le avventure che hanno vissuto insieme (del picchiare cadaveri e delle teste nel frigo e di avere a che fare con Anderson). Di dire ‘sì, davvero’ quando John gli chiede, ‘davvero?’; lo attrae, lo tenta, questa possibilità, gli balla attorno, un miraggio nel deserto per un viaggiatore solo.

Pensa—no, lo sa— John crederebbe, come la maggior parte delle persone fa (se stesso incluso), che era stato un folle a stare con Sherlock. Di esserlo, se lo fa ancora.

Ed è precisamente questo il problema: anche se gli spiegasse il loro passato in dettaglio (così chiaramente da lasciarglielo vedere), non cambierebbe nulla. Non negoziabile, ecco com’è, la loro separazione: un punto fisso nel tempo. Sherlock direbbe a John della donna in rosa, e John lo fisserebbe in risposta, a bocca aperta, terrificato. E gli traforerebbe il petto, gli farebbe esalare fumo dalla pelle martoriata, e si sarebbe scusato per poi uscire fuori da quella casa, fuori dalla vita di John, mentre John lo chiamava bugiardo, perché tutto quello che diceva era per lui impossibile.

No, è meglio così, perché le cose dette ad alta voce lo spaventano più vividamente che le cose sconosciute e non dette.
**


Lestrade non gli chiede di John, e Sherlock non ne parla. La verità fluttua fra loro, affollando l’ossigeno della stanza; condividono quella consapevolezza riluttante come il segreto sporco di un ex amante. Troppo spaventati per affrontare l’argomento, e fingendo allo stesso tempo che tutto vada per il meglio: un limbo. L'elefante metaforico nella stanza. Quando l'ispettore alza gli occhi ed esita dal parlare, Sherlock lo zittisce con uno sguardo tagliente. E' la prima volta che si trova su una scena del crimine da quando ha fatto ritorno a Londra, e l'alone di vecchi fantasmi infesta il suo naso, soffoca i suoi sensi.
E' ovunque. Sotterrato nelle spesse fibre del suo giaccone, delineato sulle sue labbra.
Disseminato nelle sue vere e proprie molecole. Sa che quel marchio non lo lascerà mai, anche se si raschierà forte, formando brutali linee rosse sulle sue braccia magre come contorti fiumiciattoli.
Alza la sua voce il doppio, la rende due volte più profonda, cerca di riempire il vuoto; parla due volte più veloce, si incarta nelle parole la metà delle volte. Allarga il suo cappotto abbastanza per due, due persone, non perde una battuta (non c'è nessun 'fantastico' da aspettare), si inietta una beffarda sicurezza che non si sente addosso. Rende la sua presenza abbastanza potente da riempire lo spazio da solo.
Gli occhi di Lestrade sono spalancati dalla preoccupazione, alza la voce quando fa per interrompere. Ma lui raddoppia l'acidità nei suoi insulti (osservazioni, in realtà; "non l'avresti realizzato neanche se ti stesse penzolando in faccia-oh aspetta."), triplica la sua teatralità.
Risolve il caso in soli dieci minuti, correndo verso l'uscio e borbottando per la sua semplicità, se il pennello è fatto di setole di cinghiale: arresta la moglie, e mandami un messaggio quando hai un vero caso, il tutto prima che possano fermarlo.
La corsa in taxi verso Baker Street è silenziosa, perché non ha bisogno della pietà di nessuno.
(quello è stato...stupefacente
lo pensi davvero?)
**

Il suo cliente successivo lascia intendere più volte di star cercando un nuovo coinquilino, e istantaneamente, Sherlock sa che è un piano di Mycroft. Lancia senza troppe cerimonie l'uomo fuori dall'appartamento, gettando le sue borse dalla finestra e colpendo i bidoni di Mrs Hudson. La botta è spettacolare - gratificante, davvero. Il caso era rudimentale, una scusa francamente trasparente. Sa che Mycroft avrebbe potuto fare francamente di meglio se si fosse impegnato; ma no, voleva che il suo intento fosse chiaro.



Vaffanculo. –SH.
**

Aspetta l'eco di passi sul pianerottolo.

Aspetta e aspetta. Finge d'essere annoiato, in ansia per un nuovo caso. Si stiracchia sontuosamente sul divano, si seppellisce in libri su scheletri animali, ordina del cinese. Colleziona teste nel frigo come e dove gli piace, mette il silenzioso alla tv merdosa e salta alla fine dei romanzi dopo il terzo capitolo. Spilla delle dita al muro, decolora vene di maiale e fuma dallo stomaco di un canarino.

Ma perlopiù, aspetta.
**

La letale medusa Cubozoa Chironex Fleckeri è quasi trasparente e impossibile da vedere se non quando è troppo, troppo tardi.
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Suona il violino alle quattro del mattino, perché forse questa volta John sbotterà fuori dalla sua stanza per domandargli di fare silenzio per la gloria di tutto ciò che è santo.


**
In un universo lontano, un posto senza nome: Sherlock fa arretrare John fino a cozzare contro il piano cucina, lascia che i suoi palmi esplorino i lembi del suo miglior completo. Si tende a baciare il suo collo, e, con John illuminato nella luce tiepida, può vedere ogni dettaglio. I peli fini del braccio di John alzarsi, resi visibili dalle maniche della sua camicia alzate, e Sherlock che li alliscia con le sue dita, elettrizzato di poterlo fare.

Lascia una scia con la sua lingua sul collo di John, percorsi a zig-zag di mio, mio, mio. E' infantile, la possessività: vuole penetrare nella pelle di John, ricalibrare le sue cellule in modo che rispondano solo agli stimoli delle sue molecole, così che l'unico a cui debba far riferimento - l'unico che potrà mai avere questo - sia lui.


In quest'altro universo: è la vigilia del matrimonio di John, e John non si presenta. La notte non finisce mai e passano il resto delle loro vite nel millisecondo prima che l'orologio scocchi la mezzanotte, un eterno asintoto, illuminati e circondati dalle cose che hanno confessato e fatto. Sherlock lo ferma con uno sguardo di argento vivo, gli occhi quasi spaventosamente duri, e John si fa semplicemente più avanti, intreccia le dita corte nel capelli alla base del suo collo. Sherlock non è anni luce lontano, e John non è quasi sposato; John è eternamente attento al modo in cui morde il collo di Sherlock, gli fa annebbiare la testa con piccoli pizzichi e parole che tiene imbavagliate in fondo, dietro le sue corde vocali.
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In questo posto lontano, John conosce il nome di Sherlock, e lo sussurra come una preghiera.
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Tempo dopo, mentre è in piedi affianco ai rimanenti di un triplo omicidio in Surrey, Lestrade si avvicina a lui, si rischiara la voce rudemente, e Sherlock fa finta di non sentire nulla, continuando cocciutamente a studiare le gambe congelate del cadavere davanti a lui.

"Era la cosa migliore da fare, al momento." Sherlock non si muove, continua a perlustrare la calza strappata della vittima.
"Non sapevamo che saresti ritornato. Dio, era un tale relitto quando l'hai lasciato, e..." la mano del detective si strugge fra i capelli argentati, e per un momento Sherlock è vendicativo e felice: la miseria ha compagnia. Il senso di colpa.

"Tutti noi. Lo eravamo tutti noi. Relitti, intendo." Sherlock chiude gli occhi e recita l'alfabeto greco.
"E, che Dio ci aiuti, ci sembrava la cosa più gentile da fare, lasciarlo in quello stato. Se noi non potevamo dimenticare, che almeno lo facesse lui."

Sherlock è silenzioso per un altro istante, poi indica un punto sul cranio della donna "Fango - pioggia. Era in New Brighton prima di morire. Rintraccia i treni che ha preso e troverai l'assassino."

Striscia via senza un suono, nella luce dei neon della polizia, accerchiato dal caos delle sirene, e prende un taxi sulla strada principale.
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Anche tempo dopo, Lestrade approccia a lui, spostando il peso da un piede all'altro. La sua voce è bassa ma tremante. Esita, chiaramente pesando le sue parole.

"Non è stata una nostra scelta, sai. Di non dirglielo. Sua sorella ha deciso di-"

La schiena di Sherlock si irrigidisce, la sua intera spina dorsale dritta e ferma come se Lestrade l'avesse appena frustrato sulla carne "Zitto."
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Potrebbe urlarlo dal tetto e non farebbe alcuna differenza. Gli uccelli si nutrirebbero delle vuote carcasse delle sue parole, prendendole dalle sue mani mentre le dissolve nel vento, e non farebbe una differenza.
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Sherlock ringhia con più cattiveria la volta dopo che vede Anderson, il quale semplicemente lo guarda con pietà negli occhi.
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Sarebbe stato un conforto, sapere d'essere l'unico a stringere quei ricordi.

Di essere l'unico sulla Terra a ricordare l'odore di John dopo una doccia calda,  umido e ammollito dal vapore e con gli occhi assonnati. Quando lascia il suo spazzolino nel bagno, il modo in cui dorme accucciato sul suo fianco sinistro, il modo in cui ammucchia le sue cose sull'angolo più vicino del comodino. Il tagliente botto della voce di John quando urla arrabbiato il nome di Sherlock, il modo in cui inspira quando Sherlock fa qualcosa di intelligente (positivo o meno), che ama quei thriller anni '80 che Sherlock odia, quanto ci mette ad alzarsi al mattino. Il suo odore che non proviene da nessun prodotto o dopobarba o shampoo economico.

Sarebbe stato un conforto sapere che c'è ancora qualcosa di sacro in quello che c'è stato fra di loro, seppur flebile.
Che tutto ciò che sa di John appartiene ancora solo a lui.

Invece, è rimasto con ronzii e rumori a tuonare nelle sue orecchie, e l'imperdonabile prurito nel sapere che deve condividere quelle cose con lei, che non sono davvero di sua proprietà. Che non l'unico ad aver imparato le curve delle dita dei piedi di John e il modo in cui cammina quando scende dal piano di sopra verso la sua stanza, la sua tazza preferita, il modo in cui sfoglia le pagine del libro che sta leggendo mentre le gira.


Si sveglia di botto con le dita tremanti come una pistola nei capelli e l'eco della voce di John che cantilena il suo nome in maniera così singolare che gli fa pensare di avere ancora una chance.

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Sherlock immagina di conoscere abbastanza John da scrivergli una cartolina, 'congratulazioni per il tuo fidanzamento', e mandargliela, perché è questo che fanno le persone.



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In un passato lontano che sarebbe dovuto accadere: Sherlock è seduto al tavolo della cucina, la testa inclinata verso la luce della lampada. Un fazzoletto umido di sangue, l’orologio sulle cinque e mezza e il pulsare sordo del suo naso appena rotto sono i suoi unici compagni. John entra, e Sherlock difficilmente osa guardare verso l’alto, ma lo fa lo stesso, perché s'è trattenuto troppo e per troppo tempo. Le sue guance sono macchiate di scuro con tracce di lacrime, e i suoi pugni si aprono e chiudono involontariamente, a strozzare un nemico invisibile. Sta in piedi di fronte a Sherlock e inclina la sua testa e Sherlock affoga; la profondità è come un'insonnia che non può evitare anche se vorrebbe, metri e metri di acqua nera lo tirano in basso, i giochi di luce sulla superficie sono così lontani.

La sensazione di labbra sulle sue lo riscuote alla realtà, e ora prende vagamente coscienza della sensazione d'affogare, ma in un altro senso. John lo tira a sé e avvolge la sua testa fra le sue mani, come se stesse studiando il modo in cui la luce illumina i riccioli di Sherlock, evitando accuratamente i suoi occhi.

La punta della sua lingua emerge per inumidire le sue labbra, e Sherlock è perso.
"Non potrò - non vorrò - perdonarti," dice con calma John, la voce mite e tranquilla, "se mi lasci di nuovo. Non si discute."

Mai, Sherlock non lo dice, tiene la promessa chiusa a chiave fra le sue labbra con i per-sempre e altri giuramenti che non osa e non può dire. Invece, tira John verso lui, la possibilità inebriante di poter sentire John al suo tocco torreggia come lo spesso odore dell'ozono. Dopo tre anni, non c'è niente di John di cui possa essere sicuro.

Più tardi in quello stesso posto, realizza il terrificante (dispiacevole, veramente) scempio che ha fatto John della sua maglietta.
E forse—di lui.


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In un passato lontano: sono le dieci e mezza quando finalmente zoppica fuori dalla sua stanza, gli effetti dei tranquillanti di Irene si stanno dissolvendo in un lento, pulsante dolore, e la nebbia degli anestetici sta penetrando al loro posto.
John è seduto al tavolo della cucina, ha pulito fra le robacce attorno al suo laptop. Sherlock va da lui, piano e d’istinto, un falcone che torna dal suo addestratore. John guarda in alto quando lo vede approcciare, i suoi occhi si aprono allarmati quando Sherlock sembra perdere l'equilibrio, si alza e cammina velocemente per offrirgli il suo supporto con il braccio.

"Non dovresti essere in piedi," lo rimprovera, "mancano un paio d'ore prima che le droghe si dissolvano."

Lo so, vuole dire Sherlock, ma la sua bocca sembra impastata con della plastica densa, e tutto ciò che riesce a esprimere è un ovattato mmph. John capisce senza parole e la sua bocca si stiracchia in un conosciuto mezzo sorriso, mentre dirige Sherlock verso il soggiorno. John lo capisce così bene che distrugge i legamenti di Sherlock, allunga dolorosamente i nervi fino a che non scattano nella maniera brutale che accomuna gli umani.

Mani forti, pensa, confuso, Immagino come sia morire a causa loro. Mani forti, aggrovigliate al suo collo e strette violentemente per un motivo o per l’altro, perché non c'è altro legame come quello fra una vittima e il suo killer: è un mutuale scambio di psiche, uno modella l'altro e nessuno scappa illeso. Entrambi lasciano la propria vita irrimediabilmente all'altro, con niente nel proprio futuro se non visioni di quel passato. Uno non c'è, senza l'altro, a testimone del momento più ferale e viscerale, bloccati in un inevitabile, fatale tango. La dichiarazione di un giuramento.

John ne sarebbe stato disturbato, lo sa, a sapere che Sherlock desidera questo genere di incomparabile intimità. Il genere di cosa incompatibile con dolci cene a lume di candela e baci della buonanotte alla porta; il genere di cosa vista come una forma irregolare in una moltitudine di perfetti quadrati, che si fa forza fra la folla, che domanda d'essere vista per la sua dissonanza. Il genere di cosa che gli vuole far scrivere il suo possesso sulle sue braccia così che nessun altro possa, il genere di cosa che gli fa voler incatenare John e mantenerlo al guinzaglio così da non farlo mai essere un metro più avanti dalla sua presa.



Il telefono di John vibra da qualche parte lì vicino, e Sherlock viene riportato alla realtà: è tardo pomeriggio, e non è in pericolo (non è Lestrade, al telefono), è un fine settimana (non la clinica o Sarah). Non è venerdì o un weekend (non nessun altro compagno). Fidanzata. La voce che sente sposta il suo asse bruscamente, i pezzi di ciò che vede si dibattono davanti ai suoi occhi, tornando al loro posto quando realizza che è caduto di peso contro le spalle di John. Oh.

Le mani di John lo calano sul divano, e coprono Sherlock con una coperta da errante, piazzandolo vicino al bracciolo. Se Sherlock chiude bene gli occhi, può immaginare che quelle mani lo stiano facendo stendere per un altro motivo, pervase da qualcosa che non è interamente una gentile preoccupazione platonica.

"Prova a non farti male," Sherlock grugnisce semplicemente in risposta, perché la sua mente sta girando troppo veloce per processare parole coerenti, portando fango al mulino della sua mente invece che acqua pulita.

Non importa cosa potrebbe dire Sherlock, e quanto possano ridere insieme sulle scene del crimine, John non vorrà essere uno scapolo incallito per il resto della sua vita. Un giorno se ne andrà, nella molle maniera in cui le persone lo fanno: silenziosamente e senza troppe storie. E Sherlock sarà abbandonato con nulla, forse anche di meno di quanto avesse all'inizio. Viene John e ordina il suo mondo in pulite scatole rettangolari e crea una nicchia da zoppo-dottore-dell'esercito per se stesso dentro la psiche di Sherlock, con una specifica serratura per la retina dell'occhio e una chiave, poi se ne va. S'era fatto la pietra maestra della vita di Sherlock: aveva progettato Sherlock per l’inevitabile caduta, per farlo collassare nel modo in cui collassano i vecchi edifici.
E Sherlock sentirà solo una sensazione di mancanza, quando la palla demolitrice lo colpirà, forte come se gli venisse a mancare un arto, e affogato dal desiderio per qualcosa che non ha mai avuto.


Gli manca già John, e John non se n'è ancora andato.


"Dormi," John fa per andarsene (fidanzata), e Sherlock si aggrappa al suo braccio. Se non si muove ora, non avrà un'altra chance. Lo sa, anche se ricorda di non essere il suo ragazzo.
"Sherlock?—"



Vuole tirare giù John, infrangere le sue labbra contro le sue stesse, fargli vedere cosa ha da offrire, mostrarlo ai suoi occhi; signori e signore, ragazzi di tutte le età, l'atto centrale. Vuole essere esibizionista, alzare le maniche della sua camicia e mostrare tutte le sue crude biancastre cicatrici, vuole che John sia terrorizzato e lo vuole scioccare con un forte lampo bianco e la sanguinosa realtà dei suoi desideri. Vuole costringere i suoi occhi a guardare, vuole vedere John raggelarsi, la spina dorsale tendersi deliziosamente nel modo in cui Sherlock desidera, vuole vedere gli occhi di John passare dal correre via (non gay) al lottare (ti conosco al 100%), e vuole che John scelga di lottare, quando poi gli dice, semplicemente, Ti amo.

Lottare per lui. Per loro. Lottare come se lui fosse la sua Regina e il suo Paese. Sherlock si chiede se John si prendesse un secondo proiettile alla spalla, solo per lui.


Il telefono di John vibra ancora, e la presa di Sherlock si indebolisce dalla sorpresa, momentaneamente distratto. John lo spinge delicatamente sul divano, e Sherlock riconosce di non aver mai invidiato tanto il cervello di John, abile nel catalogare le azioni di Sherlock in nient'altro se non disorientamento temporaneo.
"Riposa un po'."

Si volta a rispondere al messaggio, e il momento dopo scompare, come se non ci fosse mai stato (forse è davvero così). E' Sherlock è lasciato con la certezza che le persone hanno quando si tuffano nell'acqua di testa, quando marciano in una tana di leoni affamati, e quando sbagliano a mettere un piede su un filo.

Sente i secondi erodere costantemente, come candelotti di TNT accesi da entrambi i lati. Riposerebbe la testa sul grembo di John, immaginando anche il fantasma delle sue mani forti fra i suoi capelli. Schiacciato dall’inevitabilità, fa finta di dormire solo perché John non si muova, spaventato dallo svegliarlo, se si spegnesse l’orologio dormirebbe anche per davvero.
Se servisse a tenere John per un momento di più accanto a sé.

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Lo ama.


Ama, nella maniera in cui le persone amano quando uccidono gli amanti del proprio coniuge, quando guidano giù per un burrone angosciati, quando passano giorni interi chiusi in un stanze buie a scrivere poesie senza lustro. E' — è assolutamente prosaico, e si disprezza per questo.

Ma lo farebbe. Ucciderebbe, se significasse riavere John per sé, anche senza essere una coppia, e si rinchiuderebbe, se significasse che John non avrebbe avuto nessun altro.
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Non è quello che sarebbe dovuto succedere. E’ fuori dal copione, inesplorato e imprevisto. Dovevano invecchiare, e crescere per conto loro nel modo in cui gli amici platonici fanno, dopo che le loro vite s’erano intersecate, anche se solo per un breve interludio. Gironzolare per vie separate — in qualche modo, ora, lo stanno facendo — il ricordo della loro conoscenza spinto nelle parti posteriori delle loro menti, dopo varie priorità, ma mai dimenticati. Questo non è quello che sarebbe dovuto accadere.

Ma è quello che è successo, nella calma e ovvia realtà delle cose che succedono. Sherlock è lasciato a volersi depurare dal tutte le vivide sfumature di cui l'esistenza di John Watson l'ha tinto, e dallo spiacevole ricordo del fatto che il sangue non si lava mai via completamente.
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Mrs Hudson lo guarda con occhi tristi quando lascia l'appartamento per andare al St Bart's ma lui non può semplicemente dirle di andare a quel paese. Fa finta di non vedere e torna così tardi che lei è già addormentata.
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Pulisce l'appartamento, quando non ha nessun caso, quando il silenzio rombante diventa il cacciatore e lui la preda. Pulisce, impulsiva marionetta dai fili di diamanti, finché non c'è nient'altro sul pavimento e tutti i libri di John sono chiusi a chiave nella seconda stanza da letto.

Pensa l'avrebbe soddisfatto, avere tutti i ricordi fuori dai piedi, ma realizza quanto sia diventato vuoto l'appartamento.
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Tempo fa, voleva domandare cosa fossero, loro due, ma non lo fece: pensò che la risposta l'avrebbe distrutto, mentre era ancora ormeggiato nella speranza che le persone hanno quando dicono 'in qualche modo'.

Ora, desidera d'avere ancora quel lusso.
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Molly non dice una parola, gli passa semplicemente il suo nuovo numero di telefono e ritorna a fissare nel suo microscopio.
"Che significa?"
"Nel caso, se ti servisse. Un amico, intendo. Perché, beh. Se ne hai bisogno."

Sa a cosa sta alludendo; che senza John al suo fianco, il grande Sherlock Holmes è solo. Che è una coordinata y senza una x: perso. Lui contorce la sua pietà in un cattivo ghigno dalle labbra viola, alzando il suo mento così che lei possa vedere i suoi occhi stanchi e le sue guance emaciate (Continua a dimenticare di comprare del cibo e dorme solo quando collassa.)

"Non ne ho bisogno"
Lei sorride, labbra strette, e annuisce "Non pensavo lo stesso."
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La medusa Turritopsis Nutricola non dovrà mai consumarsi, scomparire e sfiorire, perché è immortale, mentre le meschine vite umane (e il resto delle cose che comportano) non lo sono.
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Sa del matrimonio tramite una copia del giornale settimanale del paese di nascita di John, lasciato appositamente alla sua porta da un elegante postino in limousine nera. Lo brucia lentamente, accarezzando le pieghe dell’inchiostro con l’attizzatoio, e applica un quinto cerotto al suo braccio.
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Sono abbastanza certo di non averti autorizzato un database investigativo su Mrs Mary Morstan-Watson -MH
Pensa ai fatti tuoi. -SH
Lo sto facendo. -MH
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Ha uno stipetto di ritagli di foto, cartelle compilate e cartelle di informazioni su di lei. Delinea il suo albero genealogico, i suoi voti scolastici, la sua infanzia. Le sue cotte passate, i suoi frequenti luoghi di ritrovo. Scrive i suoi difetti e tutti i modi in cui non è lui, e quando ha finito, la chiude a chiave con il bastone di John.
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Perde sei chili e mezzo in un mese, e non riesce ad importarsene.
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Sherlock lo vede al teatro in centro, mentre sta correndo per uno dei suoi casi. E' vestito con un completo nero e una giacca, la testa è girata nella direzione di Sherlock, e Sherlock rompe mentalmente il bastone al quale si sta aggrappando perché sa che non gli serve.

Il brivido di avere l'attenzione di John lo pervade per intero, tagliando facilmente dalle sue costole fino alla base della sua spina dorsale, stilettando con nonchalance il suo cuore nel processo, e facendolo infrangere quando si accorge che John non sta guardando lui, ma il negozio che ha dietro.


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A volte Sherlock lo vede nella Tesco a comprare il latte, e deve ricordarsi che deve portare a casa solo le sue buste. Quel pesante carrello per la spesa che John sta portando non è per lui, e non è la sua carta che John sta mantenendo.
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In tutti i passati e presenti e futuri e altre vite: Sherlock ama John, anche quando John non ricambia il suo amore.
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La medusa non ha un cuore tutto suo. Solo una vuota cavità di cartilagine e mucchi di nervi sparsi. Sente che le cose ci sono, e poi non le sente più: semplice. Questo, combinato alla sua mancanza di un cervello, significa che non prova dolore.


Eppure gli umani sì; gli umani lo sentono così forte che li paralizza anche quando non è fisico. E se gli umani continuano a sentirlo, deve significare che il dolore deve avere qualche vantaggio nell'evoluzione che ha permesso loro di andare avanti e resistere per centinaia e migliaia di anni contro la natura e le sue stranezze. Deve servire a qualcosa, forse per i riflessi e le reazioni nell'uccidere i nemici, per attivare l'adrenalina e saltare sulle prede. Per svegliarsi e correre prima che tutto sia finito. Per agire.


Eppure.






Fine.

 
Sehnsucht, in tedesco, è, in parte, un'inconsolabile e profondo desiderio che raggiunge il fondo del vero proprio essere di una persona. Esprime il concetto che una realtà imperfetta non può mai essere paragonata al fantasma del completamento che viene ricercato.

[x] e su Wikipedia, il doloroso struggimento che si prova nel non potere raggiungere l'oggetto del desiderio

 


 
  
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