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Autore: Heybi    07/01/2014    0 recensioni
La Nebule corporation, la più grande azienda farmaceutica del secolo scorso, cinquant’anni or sono entrò a far parte delle forze dell’ordine per supportare le truppe dello Stato durante la Guerra che coinvolse tutto il mondo noto e sconvolse la popolazione per oltre vent’anni. In seguito sostituì completamente le forze armate pubbliche, creando quello che ora è l’esercito del paese, composto per la maggioranza da veri e propri dipendenti dell’azienda stessa. Inoltre, Henrik Weber, il presidente della Nebule, durante il periodo di guerra, entrò a far parte del Senato intervenendo direttamente nella politica interna del paese, ottenendo quindi un potere praticamente assoluto sulla vita dei cittadini. Con un decreto legge previse poi la completa legalità nel mercato degli organi umani, da quel momento in poi controllato dalla Nebule corporation, al fine di aumentare gli introiti dello Stato e dell’azienda, rendendo così la Nebule corporation la maggior potenza politico-finanziario-scientifica e militare al mondo.
Jaden Hidehira, dall'altra parte della bilancia, muove le fila di una fantomatica banda terroristica, dagli scopi tutt'altro che chiari.
All'interno di questa cornice si intrecceranno i destini dei protagonisti che verranno legati indissolubilmente dal concatenarsi degli eventi.
Genere: Azione, Introspettivo, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Incompiuta, Violenza
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EDEN

Chapter one: ESCAPE

 



Le fiamme, nel buio di quella notte senza luna, erano visibili a parecchie miglia di distanza e accecavano il cielo invernale già da molte ore addormentato. Il fumo nero e denso che si stagliava alto contro la volta celeste nascondeva, con la sua patina acre e polverosa, ogni stella. Se esisteva un qualche Dio ancora interessato a guardare in basso, verso questa Terra di inetti, nulla gli sarebbe stato rivelato: le fiamme e il fumo ricoprivano ogni cosa, divoravano ogni cosa, accompagnati dal rumore sordo del Laboratorio 12ovest che cadeva a pezzi e dalle urla agghiaccianti di chi ancora vi si trovava dentro.
La neve scricchiolava sotto i piedi svelti di Hyo e il suo respiro affannato dalla corsa disegnava piccole nubi bianche nell'oscurità totale della periferia. Ad ogni passo che la separava dall'incendio, uno la avvicinava alla tanto agognata libertà.
Le chiazze di sangue spiccavano sulla sua divisa bianca allo stesso modo in cui le fiamme si stagliavano vermiglie contro il cielo notturno e gelido di dicembre. I suoi capelli, anch'essi di un rosso acceso e vivido vibravano nell'aria accompagnati dal vento e disegnavano ampie volute nella notte.
Era ormai ampiamente distante dalle fiamme, ma sentiva ancora il fuoco strinarle la pelle e bruciare l'aria alle sue spalle, l'odore acre di zolfo le era rimasto incastrato in gola e pareva soffocarla ancora, sempre di più, metro dopo metro, mozzandole il respiro.
Poche miglia più avanti avrebbe trovato un furgone ad attenderla, nascosto tra le frasche e gli arbusti spogli della campagna invernale. Aveva ancora pochi minuti per raggiungere il luogo designato, poi il suo Caronte avrebbe abbandonato la barca, lasciandola in balia delle anime perdute e da lei stessa devastate.

Si voltò indietro, l'incendio ormai non era che un punto luminoso lontano, nemmeno troppo facile da mettere a fuoco, che rischiarava leggermente il cielo notturno sopra la collina. Nessuno sembrava averla seguita, era al sicuro. Le bastava solo un altro piccolo sforzo e sarebbe stata salva. Le gambe erano intorpidite dalla corsa e faticavano a muoversi veloci sulla neve ghiacciata, i pensieri si ripetevano sempre uguali, come un disco rotto che qualcuno non vuole togliere dal grammofono: «Caidan. Non devo fermarmi. Chissà se Reijin ce l'ha fatta. Caidan. Più veloce, devo correre più veloce. Caidan. Ancora uno sforzo. Reijin dove sei?».

Quanti ne aveva uccisi? Le erano bastati quattro minuti per sterminare un intero piano di guardie e inservienti. Giusto il tempo di sistemare le cariche di C4 e riunirsi ai suoi due compagni al piano terra...Uno, le restava solo UN compagno: Reijin.
Poi c'era stato lo scoppio. Schiacciata al suolo, appena fuori dai cancelli, nascosta dall'oscurità, era rimasta frastornata dall'onda d'urto e dall'assordante rumore per qualche minuto. Quando aveva riaperto gli occhi Reijin le stava tenendo la mano, steso al suo fianco.
Avevano dovuto utilizzare strade differenti per raggiungere il veicolo che li avrebbe portati lontano dalla città. Si erano separati senza dirsi una parola, entrambi sporchi di polvere e sangue.
Non avrebbe mai dimenticato il modo in cui lui l'aveva guardata, aveva gli occhi carichi di tensione e rabbia, ma lo sguardo di un bambino che invoca perdono proprio per i sentimenti che sta provando. Lui non avrebbe mai voluto scappare, ne era certa, ma ora era un fuggitivo e lo era solo per colpa sua...Caidan invece era morto, sempre per colpa sua. Era lei il mostro, era lei a dover chiedere perdono. La gente aveva ragione, bisognava stare lontani da quelli come lei, non bisognava mai avvicinarsi a un Potenziato, perché erano come demoni, ti distruggevano la vita e poi non avevano nemmeno i sentimenti necessari per pentirsene. Erano macchine assassine, dedite solo al sangue, obbrobri che mai e poi mai la natura avrebbe potuto creare di proprio pugno. Mostri di Frenkestein, esseri creati in laboratorio che in nessun modo avrebbero potuto capire cosa sia il rimorso.

Sola nell'oscurità del bosco spoglio, rimase ferma, esattamente difronte al veicolo scuro che l'avrebbe accompagnata lontana da quel luogo di paura e morte. Un ragazzo sulla ventina stava seduto sul cofano, fumava una sigaretta di infima qualità e fissava il vuoto davanti a sé. Di Reijin non c'era traccia.
Hyo trattenne il fiato e si accovacciò sul suolo umido del sottobosco, affondò la testa tra le ginocchia e rimase immobile. Le fischiavano le orecchie e nella testa le rimbombava il battito accelerato del cuore: ce l'aveva fatta, la libertà era lì, davanti a lei e la era venuta a prendere sotto forma di un ragazzo biondo e dipendente dalla nicotina.
Era vestito in modo piuttosto trasandato, probabilmente, se fosse andato in giro conciato così per i quartieri centrali della città, sarebbe stato arrestato con l'accusa di essere un mendicante...ma cosa importava ora? Lui era lì e stava aspettando lei, pronto a salvarla da tutto quell'odio e quei massacri.
Il rumore di un ramo spezzato la ridestò dai suoi pensieri e un brivido le percorse la schiena, mettendola in allerta. In un attimo fu in piedi, pronta ad attaccare il nemico. Qualcuno l'aveva seguita ed ora era a pochi passi da lei. Era stata così sciocca da non accorgersene prima e lo aveva accompagnato senza rendersene conto fino al luogo dell'incontro. Che stupida. Mantenne la guardia e con il fiato corto continuò a ficcare gli occhi nell'oscurità senza volto della notte, in cerca del suo avversario. Nessun rumore però tornava a farsi sentire e la campagna era piombata nuovamente nel silenzio più assoluto. – Che fosse un animale?–. Poi un fruscio leggero di vesti le indicò la direzione in cui guardare e le diede la certezza che no, non si trattava di un animale, ma che qualcuno era lì a farle compagnia. Poteva quasi sentire il suo respiro alle proprie spalle, ma non fece in tempo a voltarsi che una mano dalle dita gelide l’aveva già afferrata per un braccio.
Non aveva armi con sé, nemmeno un misero pugnale, niente di niente. Avrebbe dovuto battersi a mani nude, contro un nemico quasi sicuramente armato fino ai denti: non aveva speranze. Poteva solo correre fino al furgone e sperare con tutta se stessa che il suo autista fosse abbastanza abile da guidare a tutta velocità sulle strade innevate.
Il sangue le salì fulmineo alla testa, offuscandole la vista, il terrore si impadronì di lei con un abbraccio ancora più gelido e tenebroso della notte, poi uno strano luccichio la fece rinvenire dal panico che l'aveva stretta nella sua morsa: Reijin era lì davanti a lei e le sorrideva tranquillo, tenendo le mani sulle sue spalle.
Avrebbe voluto colpirlo con tutta la forza che gli era rimasta in corpo, urlargli in faccia che era un idiota per la paura che le aveva fatto prendere, eppure si limitò a guardarlo cupa, sollevata che ce l'avesse fatta. Erano liberi ed erano insieme. Finalmente.
Si presero per mano, cercando di scacciare via i fantasmi che, con sguardi tetri, ricordavano loro cosa avevano appena fatto. Con pochi decisi passi uscirono dal folto del bosco mostrandosi al giovane autista che li stava aspettando.

Più della polvere sui loro volti stanchi, più del sangue sulle loro vesti lacere, quello che catturò Sin, raggelandolo, furono i loro occhi: brillavano di uno strano scintillio e, cosa peggiore, erano gialli, tremendamente gialli, come solo quelli del Demonio potrebbero essere, oppure quelli di un Potenziato.
Si maledisse per aver accettato quell'incarico e continuando a fissare quei loschi figuri, sbuffò fuori l'ultimo tiro di sigaretta, prima di lanciare a terra il mozzicone e muovere alcuni esitanti passi verso i suoi nuovi terrificanti compagni di viaggio.

Aspettava in quel luogo da una ventina di minuti e nemmeno i ripetuti sorsi di Vodka lo riuscivano a riscaldare dal freddo attanagliante, in compenso però l'alcol cominciava a dargli alla testa.
– Non si beve in servizio – pensava, e con vigore buttava giù un altro lungo sorso, accompagnandolo ad alcuni tiri dell'ennesima sigaretta.
Una volta era stato un taxista e bere prima di mettersi alla guida gli sarebbe costato il posto di lavoro e molto probabilmente qualche mese di carcere, ma ora lavorava per un privato. Certo i suoi "passeggeri" la maggior parte delle volte erano quello che si sarebbe potuto definire "carico eccezionale" e molto spesso rischiava la vita per assecondare gli ordini di quel pazzo eccentrico e megalomane del suo capo, ma almeno la paga era buona e nessuno gli diceva nulla se beveva in servizio. Tutto sommato non era male come lavoro per un ex-detenuto alcolizzato.
O almeno così aveva pensato finché non si era trovato davanti quei due soggetti tutt'altro che raccomandabili che avevano l'aria di essere due fuggiaschi, scappati da chissà quale macello. Senza contare che indossavano le divise bianche degli Agenti Esecutivi dell'Esercito e che su di esse spiccavano vistose macchie di sangue rappreso.
«E' un lavoretto semplice» Aveva detto Jaden, il suo capo. «Devi solo aspettarli dove ti ho detto e poi scortarli sino alla casa a Nord-Est del confine. Se non arrivano entro le 03.00 a.m. puoi andartene...Sono due bravi ragazzi, vedrai, ti piaceranno! »
Quel bastardo non aveva detto altro riguardo all'incarico. Due bravi ragazzi? Ti piaceranno? Qui non si trattava più di rischiare la vita! Questi due, per quanto ne sapeva, potevano anche strappargli un braccio e divertirsi mentre lo obbligavano a mangiarselo. Sembravano appena usciti da un film horror di serie B ed erano due Potenziati tra l'altro. – Il karma ti punirà per questo Jaden! – pensava Sin, cercando di mantenere la calma e un atteggiamento quanto meno composto.
Si avvicinò lento e titubante verso quelle due figure poco rassicuranti e con una mano cercò la fiaschetta di Vodka nelle tasche della giacca. Un goccetto lo avrebbe aiutato a non perdersi d'animo, ma quando si portò la boccetta alle labbra la delusione gli si dipinse in volto: Finita. La Vodka era finita, proprio ora che gli serviva di più.
– E' proprio vero, gli amici ti abbandonano sempre nel momento del bisogno – così pensando si piazzò davanti a Hyo e Reijin cercando di sostenere il loro sguardo agghiacciante più della notte invernale e spinse in fuori il petto per darsi un'aria da duro, ma con suo estremo rammarico la voce gli uscì che era un soffio appena udibile, spezzata dalla paura che gli faceva tremare le ginocchia.
«Non dovevate essere in tre? » Distolse lo sguardo, disgustato dalla propria codardia e con le dita violacee per colpa del freddo si portò un'altra sigaretta alla bocca.
«V109XY è deceduto in battaglia».
La voce acuta e fanciullesca di Reijin che tanto stonava con la sua fisionomia nervosa e spettrale spezzò per un attimo il gelo e il timore di Sin che alzò nuovamente lo sguardo sui due, ma Hyo, al contrario, abbassò gli occhi a fissare la neve ghiacciata, abbandonando le braccia lungo i fianchi: «Caidan, si chiamava Caidan».

Cadde di nuovo il silenzio e simultaneamente la neve, lenta e sottile, ricominciò a scendere danzando sulle loro teste e su quel tetro paesaggio di campagna, quasi a voler ricoprire con il suo leggero e impalpabile manto quelle parole, quasi a voler cancellare con la sua danza macabra tutta quell'intera notte di morte, nascondendo sotto i suoi fiocchi, spettralmente candidi, tutti i corpi, tutto il sangue e tutto il fuoco che a poche miglia di distanza ancora agitavano l'intera città e lì, tra quelle frasche spoglie e congelate, agitavano ancora i loro cuori stanchi.

Una volta salita sul furgone, Hyo si acciambellò sui sedili posteriori, come una gatta ormai sazia che cerca solo un angolino in cui dormire in pace. Il massacro a cui aveva assistito e di cui era la causa continuava a ripresentarsi davanti ai suoi occhi, mentre fuori la neve attutiva ogni rumore. Lei si concentrò fortemente sul respiro dei suoi compagni di viaggio per scacciare le immagini di morte dalla sua mente, ma nemmeno nel sonno poté far riposare il cuore.
I fantasmi dei morti vennero a trovarla, per primo quello di Caidan.

Le istruzioni per la fuga erano semplici e Hyo le riceveva passo a passo tramite un piccolo auricolare che aveva introdotto di nascosto nelle camerate del laboratorio.
Avevano quattro minuti per piazzare dodici cariche di C4 ciascuno e per allontanarsi dall’edificio, poi le cariche sarebbero esplose. Ognuno di loro doveva occuparsi di un piano del Laboratorio e fu relativamente semplice decidere come dividersi: Caidan era il più lento e il meno agile, a lui sarebbe spettato il piano terra, dove tra l’altro si sarebbero dovuti ritrovare tutti e tre una volta piazzate tutte le cariche.
Nonostante le semplici istruzioni erano tesi e poco convinti sul da farsi, Jaden quando aveva contattato Hyo, non le aveva parlato di esplosivi e stragi, non erano pronti a niente del genere, ma ormai non avevano scelta.
L’inespressiva voce di Jaden parlava veloce nell’orecchio di Hyo, togliendole ogni esitazione: «Ho registrato il nostro incontro, se ti tiri indietro mi basterà farlo arrivare al direttore generale della Nebule corporation… Sappiamo entrambi cosa succede a un Potenziato che tradisce l’Esercito, vero? Non vuoi che accada niente di male a te o ai tuoi compagni, giusto?».
Le mani della ragazza tremavano per la rabbia e lei, accovacciata nel magazzino, davanti a tre casse di C4, voleva urlare dalla disperazione, ma avrebbe significato essere scoperti. – Stronzo infame! – Pensò, mentre si fissava addosso l’esplosivo ed invitava gli altri a fare lo stesso.
«Vorresti insultarmi, vero Hyo? Be’, in ogni caso non potrei sentirti, quindi vedi di mantenere la calma e fai quello che ti dico»
Jaden aveva ragione, doveva mantenersi lucida e ragionare, eppure le mani non smettevano di tremare.
Quando si divisero per recarsi ognuno al piano assegnatogli, Hyo sudava freddo e continuava a tremare, tremava quando si era lanciata contro la prima guardia e tremava ogni volta che la voce di Jaden, dall’altra parte dell’auricolare, le ricordava quanto tempo mancasse all’esplosione.
Le ci vollero due minuti e quarantasette secondi per piazzare tutte le cariche, stando al conto alla rovescia che Jaden gli snocciolava minuziosamente nelle orecchie. Ancora poco più di un minuto e tutte le cariche sarebbero esplose, o meglio, Jaden le avrebbe fatte esplodere, un solo click su di un tasto e tutto sarebbe stato polvere.
Corse a perdifiato per i corridoi, verso le scale che conducevano al piano terra. Scivolava sul sangue delle sue stesse vittime e faticava a reggersi in piedi, nauseata dallo stesso orrore di cui era artefice. Una mano la afferrò alla caviglia: un’inserviente del personale medico la fissava agonizzante e non accennava a voler lasciare la presa, con un filo di voce disse qualche parola incomprensibile, strozzato dal sangue che gli risaliva la gola, uscendo a fiotti dalla sue labbra, tra attacchi di tosse convulsa.
«Mostro!» Ecco cosa erano sembrate le sue parole a Hyo. Con un calcio ben assestato fu di nuovo libera e riprese la sua folle corsa. Il bianco che regnava sovrano nell’ambiente l’accecava e nella testa continuavano a vorticare le parole incomprensibili di quell’uomo, parole che passo dopo passo si facevano sempre più chiare: –Mostro! Mostro! Mostro! – .
A grandi passi si precipitò giù dalle scale e appena voltato l’angolo, subito dopo aver messo il primo piede nel corridoio principale del piano terra, successe: Caidan aveva piazzato tutte le sue cariche di esplosivo ed ora stava lottando con un altro Potenziato, più anziano di lui, che con sguardo furente lo teneva inchiodato al muro. Aveva uno sguardo terribile, gli occhi iniettati di sangue e un rivolo di bava scendeva dalle sue labbra fino al mento, per poi penzolare nel vuoto. Era stato accecato dalla Furia: Hyo aveva solo sentito parlare di quella forza mostruosa e spaventosa. Prendeva possesso del corpo di un Potenziato nel caso in cui esso si fosse lasciato dominare dalla battaglia, dal desiderio di uccidere, dando libero sfogo alla propria pazzia omicida. Se si finiva in quello stato non c’era scampo, l’unico modo per uscirne era morire, farsi ammazzare. Erano casi piuttosto rari, eppure eccone uno, attaccato a Caidan, pronto ad ammazzarlo senza nessun ritegno.
Hyo, paralizzata dal terrore, non mosse un solo passo, trattenne il respiro e con tutte le sue forze cercò di mantenere la calma, provando a pensare ad un modo per salvare la situazione.
Il tempo parve rallentare davanti ai suoi occhi, fu questione di un attimo, un battito di ciglia soltanto e la testa di Caidan iniziò a roteare in aria, lasciando il suo giovane corpo afflosciato al suolo in una pozza di sangue rosso cupo, lo stesso sangue che imbrattò le pareti e il viso di Hyo. Lei rimase immobile, non un fiato, le mani avevano smesso di tremare, restava solo lì, a fissare la testa mozzata dell’amico, che ora rotolava a terra, fissava i suoi occhi ormai vitrei e la sua bocca piegata in una smorfia di dolore.
Quando si riscosse Reijin aveva ucciso l’assassino di Caidan e la stava trascinando fuori dall’edificio, oltre i cancelli.
Fecero appena in tempo ad uscire dal perimetro, un attimo dopo le bombe esplosero con tutto il loro fragore, sollevando polvere e sangue, distruggendo tutto quello che restava di Caidan e di quel posto.
Caidan era morto, lei era lì quando era successo e non aveva fatto nulla. Avrebbe potuto, ma era rimasta immobile, terrorizzata da quel Potenziato preso dalla Furia. Aveva avuto paura e per questo Caidan non c’era più. Quell’inserviente aveva ragione, lei era un mostro.
Alcune sottili lacrime bagnarono le sue guance nel sonno, mentre i sogni riportavano alla memoria tutto il dolore e l’agonia di quella gente, suoi e di Caidan.

Dentro l’abitacolo del furgone Reijin fissava Hyo, sdraiata sui sedili posteriori. Così addormentata sarebbe potuta sembrare una ragazza qualunque che, stanca per una serata passata a divertirsi con alcuni amici, si lascia accompagnare a casa da loro, cullandosi in un dolce sonno senza sogni. Le macchie vermiglie sui suoi abiti però tradivano le apparenze e ricordavano ad ogni sguardo che quella non era altro che un’assassina, una macchina da guerra fuggita dall’ennesimo massacro.
Anche lui come Hyo aveva ucciso, sterminato, il personale del Laboratorio 12ovest, per poi darsi alla fuga, alla ricerca di una libertà che personalmente non lo attirava nemmeno troppo, ma che pareva essere l’unica ragione di vita dell’amica e che proprio per questo inseguiva.
Sentiva ancora l’odore di sangue delle sue vittime ficcarglisi in gola e togliergli il respiro.
Una volta che lui e Hyo si erano divisi, mentre da solo correva giù dalla collina, superando la periferia di Chermak puntando verso le immense campagne innevate che circondavano la città, continuava a sentire quel terribile odore e le urla di chi aveva ucciso. La loro eco gli rimbombava in testa e gli impediva di respirare con regolarità. I loro occhi imploranti tornavano ora a fargli visita e nemmeno a miglia di distanza dal laboratorio gli davano pace.
Erano i suoi compagni, le persone con cui da sempre aveva vissuto, che con lui condividevano ogni ricordo e lui li aveva uccisi tutti, uno dopo l’altro, senza nessuna pietà, mozzando le loro teste e trafiggendo i loro toraci, macchiandosi le mani del loro sangue.
Un senso di oppressione gli strinse il petto e lo stomaco, un conato di vomito si fece largo risalendo dall’intestino e Reijin con forza lo ricacciò indietro disgustato. Era forse questo il rimorso? Era così che si sentiva una persona comune dopo aver ucciso? Impossibile, quelli come lui non provavano sentimenti.
Abbassò il finestrino e sporse la testa fuori, lasciandosi investire dall’aria gelida che si faceva potente contro il furgone che a tutta velocità scorreva per le strade secondarie, aggirando abilmente i posti di blocco e le Pattuglie di Sorveglianza Stradale.
L’alba ormai rischiarava debolmente l’orizzonte e illuminò con la sua tenue luce, il volto di Sin, seduto al volante.
Aveva gli occhi di un azzurro intenso che sembravano racchiudere tutta la potenza del mare in tempesta e tutta la strabiliante fermezza del cielo estivo.
Reijin invidiò quegli occhi con tutto se stesso, gli occhi di chi ha ancora una scelta, di chi è nato libero e continua a combattere per la propria libertà. Non avevano niente a che spartire con i suoi, di quel giallo diabolico che sempre gli avrebbe ricordato chi era.
Poteva esserci qualcosa di buono ad attendere uno come lui? Puzzava di sangue e zolfo e mai nessuno era stato capace di sostenere il suo sguardo senza essere attraversato da brividi di terrore.
Avrebbe voluto cavarseli quegli occhi, senza di loro nessuno avrebbe mai saputo chi era davvero, senza di loro mai più avrebbe dovuto sostenere la propria immagine allo specchio. L’immagine di un traditore, di un genocida, di uno scherzo della natura: nato da un padre Potenziato e da una madre comune, non aveva mai conosciuto nient’altro all’infuori dell’esercito e del sorriso di Hyo. Aveva sempre vissuto all’interno del Laboratorio e mai aveva conosciuto altra casa all’infuori di esso. Ed ora lo aveva distrutto, tradendo la sua stessa famiglia, il suo stesso esercito. Non c’era un altro posto al mondo dove lui sarebbe potuto andare. Cosa se ne sarebbe fatto della libertà senza una casa in cui fare ritorno?
Affondò la testa nello schienale del sedile del passeggero e chiuse gli occhi stringendo con forza le palpebre. Le forze lo stavano abbandonando e a poco a poco scivolò in un sonno buio e senza sogni.

Hyo si svegliò che il sole era già alto in cielo, Reijin le scuoteva leggermente una spalla sorridendo: erano arrivati.
Il sapore salato delle lacrime appena versate le arrivò in gola e ridestò qualche ricordo cancellato, qualcosa che risaliva a molti anni prima, prima di essere stata prelevata e potenziata dall’Esercito Bianco, prima di diventare un Agente Esecutivo. Qualcosa che risaliva a quando ancora non era un mostro e sapeva ancora piangere.

Il cielo, dopo la notte di neve, era ora terso e il sole scaldava leggermente e piacevolmente la pelle, illuminando il paesaggio innevato, creando dei fantastici brilli che facevano sembrare tutta quella neve costellata di stelle.
Sopra quella spessa coltre di neve, al di sotto di quel cielo di un azzurro vivido, davanti a quel sole pallido e debolmente caldo, anche il panorama del confine, devastato da anni di guerre e rivolte, arido e desolato, sembrava un posto magnifico.
Sin si diresse spedito verso una delle costruzioni a ridosso del bosco. Era un palazzo a più piani che una volta, probabilmente, era stato rosa confetto, ma che ora virava terribilmente al grigio. L’intonaco era scrostato e lasciava alla vista parecchi tralicci e tubature, ampi buchi aprivano squarci nelle pareti e le finestre erano tenute chiuse da grosse travi in legno su cui si potevano distinguere chiaramente i primi segni del marciume e vari fori lasciati da qualche vecchia sparatoria.
Entrarono cauti, con la paura che ad un solo passo falso l’intero edificio sarebbe crollato sulle loro teste. L’odore era pungente e ricordava spaventosamente quello di una cantina umida e ammuffita.
Sembrava incredibile che il posto fosse abitato da alcune famiglie della zona e davanti agli occhi di chi era abituato a vivere in città, tra lo sfarzo e il consumismo più sfrenato, i poveri bambini vestiti di stracci che giocavano nel cortile interno, parvero una specie di quadro medievale mal riuscito e poco incoraggiante.
Salirono sino al terzo piano, Sin lì guidò superando le scale a ridosso del muro, mantenendo un’espressione concentrata, ma tradendo di tanto in tanto il suo atteggiamento sicuro a causa di uno strano pallore sul viso, che non era chiaro se derivasse dall’odore terribile o dalla paura di rimanere schiacciato da qualche calcinaccio.
Una volta entrati nel loro appartamento si resero conto che l’interno era tutt’altro che misero come sembrava trasparire dall’esterno. Alle finestre, seppur senza vetri, erano appese sontuose tende di velluto scuro, che avrebbero dovuto ripararli dal freddo, i pavimenti erano ricoperti da tappeti e tre letti erano pronti per essere utilizzati, guarniti da morbide lenzuola pulite e profumate. Nel bagno, anche se in realtà era poco più che un rigagnolo quello che scendeva dalla doccia, funzionava l’acqua calda e nell’armadio erano sistemati alcuni abiti puliti che sarebbero serviti a sostituire le troppo vistose divise dell’esercito di Hyo e Reijin.
Certo, l’ambiente era piccolo e quella puzza di muffa non accennava ad andarsene, ma era comunque molto meglio di quanto si aspettassero. Con sua sorpresa Reijin constatò che anche la credenza era colma e che ad occhio e croce, con quello che c’era dentro, avrebbero potuto resistere senza bisogno di approvvigionamenti anche due settimane consecutive. Sin sarebbe restato in quel luogo con loro fino al momento in cui Jaden non avesse fatto sapere loro che il pericolo era scampato, a quel punto li avrebbe accompagnati da lui.

Lo aspettavano almeno due settimane in compagnia di quei tizi. Ancora non era riuscito a capire cosa fosse successo la notte scorsa, ma ora dopo ora le idee si facevano chiare e lasciavano poco spazio ai dubbi: erano due disertori. Quel pensiero gli dava i brividi, se lo avessero trovato in loro compagnia la tortura era solo il male minore rispetto a tutto ciò che lo aspettava.

La Nebule corporation, la più grande azienda farmaceutica del secolo scorso, cinquant’anni or sono entrò a far parte delle forze dell’ordine per supportare le truppe dello Stato durante la Guerra che coinvolse tutto il mondo noto e sconvolse la popolazione per oltre vent’anni. In seguito sostituì completamente le forze armate pubbliche, creando quello che ora è l’esercito del paese, composto per la maggioranza da veri e propri dipendenti dell’azienda stessa. Inoltre, Henrik Weber, il presidente della Nebule, durante il periodo di guerra, entrò a far parte del Senato intervenendo direttamente nella politica interna del paese, ottenendo quindi un potere praticamente assoluto sulla vita dei cittadini. Varò poi un decreto legge che previse la completa legalità nel mercato degli organi umani, da quel momento in poi controllato dalla Nebule corporation, al fine di aumentare gli introiti dello Stato e dell’azienda, rendendo così la Nebule corporation la maggior potenza politico-finanziario-scientifica e militare al mondo.

Un brivido percorse la schiena di Sin, lo avrebbero scoperto, gli avrebbero strappato ogni organo e lo avrebbero riutilizzato per chissà quale esperimento, mantenendolo in vita attraverso qualche strana macchina. Affondò la testa tra le mani, lasciandosi prendere dallo sconforto. Chi diavolo glielo aveva fatto fare? Avrebbe dovuto lasciare Jaden da solo a sbrigare le sue losche faccende. Che cosa cavolo aveva in mente?

Nelle ore precedenti era rimasto tranquillo solo quando entrambi i suoi nuovi amici si erano addormentati durante il viaggio. Mentre sfrecciava tra le strade secondarie, concentrato solo sulla guida per non farsi prendere dal panico, si era accorto solo dopo vari minuti che i suoi silenziosi compagni erano crollati in un profondo sonno ristoratore e spesso si ritrovava a osservarli con sguardo indagatore, mentre quelli lasciavano i loro corpi inermi completamente nelle sue mani. Più di una volta si era sorpreso a pensare di abbandonarli in qualche stradina di campagna, o peggio, di ucciderli nel sonno per poi scappare, ma veniva fermato dal pensiero di Jaden furente e dall’idea che se quei due non fossero realmente morti lo sarebbero andato a cercare pure in capo al mondo per vendicarsi. Non aveva scelta, doveva accompagnarli fino al confine e passare con loro le prossime due settimane.
Ora si trovava in quella minuscola e fatiscente casupola e non riusciva a restare tranquillo, seduto su quello che sarebbe stato il suo giaciglio di lì fino ai prossimi quattordici giorni, ad ogni minimo rumore sobbalzava, aspettandosi di vedere chissà cosa, ma trovava sempre e solo quei due visi spauriti di chi si è lasciato tutto alle spalle.

Oppresso dal silenzio che in nessun modo voleva rompersi, Sin accese il piccolo televisore che troneggiava su una mensolina difronte ai letti: a occhio e croce doveva risalire al ventennio passato, ma a quanto pareva funzionava ancora. Quello che però veniva mandato in onda da tutti i canali nazionali non era altro che un terribile servizio sulla distruzione del Laboratorio 12ovest della Nebule corporation. Sin trasalì, osservando a bocca aperta quelle immagini di distruzione.
Dell’edificio non restava nulla, solo alcune pareti, carbonizzate dall’esplosione, si ergevano ancora, esitanti, su di un ammasso di detriti e corpi bruciati. Il cielo plumbeo, ancora annerito dal fumo nero, sovrastava quello che restava di un complesso che una volta accoglieva fino a milleduecento persone. Gli Agenti Esecutivi, inviati da altri complessi laboratoriali, erano intenti a spostare macerie e a cercare superstiti, i loro occhi gialli fissavano le telecamere senza nessun segno di dolore o paura, svolgevano semplicemente il loro compito, lasciandosi guidare dagli ordini dei generali. Era l’inferno.
Con gli occhi carichi di stupore misto a terrore Sin volse lo sguardo verso Hyo e Reijin, cercando conferma nel loro sguardo di quello che si era rivelato con nitidezza stupefacente al suo cervello: loro erano la causa di tutto ciò.
Per un attimo si sentì svenire, sentì le forze che lo abbandonavano e una morsa stringergli lo stomaco, poi Hyo spinse il tasto di spegnimento del televisore e con gli occhi bassi si avviò verso il bagno, decisa a lavare via tutto lo sporco e il dolore che aveva addosso.
Lui e Reijin restarono soli, muti a fissarsi, l’uno con gli occhi pieni di panico, l’altro con un espressione impenetrabilmente tetra, poi Reijin abbassò lo sguardo. Era la conferma: sì, erano stati loro, loro avevano distrutto il Laboratorio, loro avevano ucciso tutta quella gente. Aveva ragione, erano due disertori, ma anche due assassini fuggiti da un genocidio.
Si lasciò cadere sul letto, osservando le macchie di umidità sul soffitto che ricamavano strani disegni sull’intonaco: parevano essere bocche urlanti, teste mozzate. Le più macabre torture si andavano formando davanti ai suoi occhi, rendendo quelle macchie scure inquietanti come mai avrebbero potuto essere. Il panico lasciò il posto all’isterismo e poco a poco quello che all’inizio si manifestò come un riso sommesso, si tramutò in un’agghiacciante risata isterica che scuoteva Sin fin dalle viscere, facendolo barcollare, nel buio, sull’orlo della schizofrenia.
Era solo con due pazzi assassini e la colpa era di Jaden. Pregò il suo spirito di tornare a tormentare il suo capo, nel caso i due fuggiaschi lo avessero ammazzato.
  
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