That Danmit Smell…
Il rumore della doccia
irruppe in quel silenzio tanto naturale quanto straziante, quel
silenzio, quel dannato silenzio, lei se lo ricordava bene.
Ogni volta che lui entrava in
quell’appartamento posizionato tra un piccolo supermercato aperto ventiquattro
ore su ventiquattro e una stradina isolata di campagna, esso entrava con lui.
Assieme a quella folta
cascata di capelli corvini che gli ricadevano sulle spalle poteva avvertire,
quasi inconsciamente, il posarsi di lì a pochi minuti delle sue forti e nivee
braccia sulle sue esili spalle per poi bramarla con
quelle avide labbra.
Era stata fatta prigioniera
dal primo giorno in cui era entrata in quell’appartamento, schiava dei suoi
occhi argentei, schiava di quei lunghi capelli neri come la notte e, a
malincuore, schiava di quel silenzio.
Non aveva desiderato altro
per tutta la sua adolescenza, lui era il divo che tutte le sue amiche avrebbero
voluto avere come compagno.
Non era poi così importante
se ci fosse l’amore.
Quel fastidioso sentimento
che ti fa piangere e gioire per i motivi più assurdi,
quel sentimento che ti vincola a una sola persona per quanto essa sia fredda o
crudele, quel fastidio, lei credeva di non essere la sola a provarlo.
Credeva in ciò che i suoi
stanchi occhi innamorati le facevano vedere, si fidava ciecamente di una speranza che ogni giorno sentiva sgretolarsi di
fronte a quel freddo muro fatto d’incomprensioni e vani desideri.
Non credeva di arrivare a
tanto, per tutta la vita aveva sempre desiderato diventare una promotrice in
una qualche famosa casa discografica e ora che finalmente era arrivata in cima,
lui riapparse.
Sconvolse per l’ennesima
volta al sua vita nel momento giusto, il momento in
cui aveva abbassato la guardia colta dall’entusiasmo.
Grazie alle sue conoscenze ai
vertici della casa discografica per cui lavorava con
la sua band, riuscì a farla assumere come loro manager, o almeno quella era la
copertura.
Niente di ciò che accadeva
sotto quelle coperte color blu acquamarina potevano
considerarsi come “lavoro da manager”.
Eppure lei sperava che quel
dolore che sentiva ogni volta che lui si alzava senza degnarla di uno sguardo,
ogni volta che avvertiva di essere solo una palla al
piede per la vita del ragazzo, ogni volta lei sperava che sparisse.
Ancora adesso, sotto le
fredde gocce della doccia che cadevano senza tregua sui suoi lunghi capelli
castani, lei sperava con tutta se stessa di vedere apparire la sua sagoma
confusa e distorta dal vetro umido della doccia.
S’incantò per qualche secondo
con i suoi profondi occhi marroni su un punto ben
definito, la porta, nella speranza di vederlo un ultima volta.
Non era un’ingenua,
quel messaggio lasciato in segreteria era più eloquente di mille parole,
era dopotutto la conferma di ciò che lei aveva sempre temuto.
Si era stancato di lei.
Le sue parole fredde e
pungenti che la intimavano dall’apparecchio di lasciare la scrivania libera per
l’arrivo di un nuovo manager, era un chiaro e schietto
segnale di andarsene da quell’appartamento.
Aveva trovato qualcun’altra
che avrebbe riempito le sue lenzuola e sfogato i suoi
desideri sessuali, magari qualcuno che aveva lo stesso carattere cinico e
spietato.
Forse aveva trovato un altro
silenzioso e gelido vento.
Un sussulto, un brivido fece irrigidire
la bianca schiena della ragazza al solo pensiero, troppe lacrime sarebbero
volute scendere dalle sue rosee guance, ma non voleva.
Aveva il suo orgoglio
femminile da difendere, lui l’aveva già ridotta in pezzi giorno dopo giorno,
lui che gli aveva rubato il cuore e poi l’aveva accartocciato e gettato in un
angolo, lui
che, nonostante tutto, non riusciva ad odiare.
Poi, udì un tonfo provenire
dalla cucina e un rumore di passi riecheggiò per l’appartamento vuoto quasi a
volerla destare da quell’incubo ammaliatore.
D’altronde, così era sempre
stato.
Dopo quel messaggio non se la
sentiva di venire da sola a portare via la sua roba da quell’appartamento dove
aveva trascorso due anni della sua vita e così le giunse in aiuto un vento
caldo proveniente dal Sud.
Un suo
vecchio compagno d’università, un tipo stravagante e a tratti intrattabile ma
con un cuore leale e sincero.
Era un ragazzo testardo che
adorava il nero ed ogni sua sfumatura, un tipo sicuro
di sé che non riusciva a mandar giù il frenetico e costante piagnisteo dei
figli dei suoi vicini di casa eppure per i suoi due fratelli era sempre
disposto a fare carte false pur di non farli soffrire.
A tratti
maschilista ed inquietante per il
suo cupo vestire che induceva la gente a credere che fosse un poco di buono,
eppure così premuroso e disponibile ad aiutare il prossimo.
Era così abbagliata da quel
silenzio che a tratti riusciva ad avvertire quel calore e
quella confortevole presenza che aveva sempre avuto al suo fianco.
O almeno così credeva.
Dal salone lui fissava la bianca porta del bagno con sguardo triste, quasi
assorto a tratti da quel candore così perfetto e…crudele.
Crudele come lo era stato lui
con la seconda cosa che riteneva più importante dopo la sua famiglia, lei.
Un piccolo angelo incappato
nelle grinfie di un diavolo spietato, ma prima ancora in quelle di cinico e
crudele marionettista come lui che l’aveva manipolata fin adesso.
Non era l’altruismo il suo
obbiettivo primario, no, aspettava solo in agguato in momento in cui i profondi
occhi marroni della ragazza sarebbero incappati nella
ragnatela di bugie ed egoismo che lui stesso aveva tessuto con cura maniacale
da quel giorno.
Il giorno in cui lui fece
volare via il suo angelo che cadde al suolo avvolta da
una ventata d’aria gelida, senza vita.
Ora era tutto pronto, tutto
perfetto, lei sarebbe di nuovo tornata da lui e non ci
sarebbe più stato quel cantante da quattro soldi a mettergli di nuovo i bastoni
tra le ruote.
Avrebbero ricominciato una
nuova vita insieme, finalmente i sorrisi di lei
sarebbero stati rivolti solo a lui e lui soltanto.
Era l’inizio di un nuovo
idillio, eppure non riusciva ancora a spiegarsi quel lancinante dolore al petto
che provava nel vederla lì, con gli occhi spenti e la testa probabilmente
rivolta verso il basso incurante dello scorrere imperterrito dell’acqua.
Ma era da schiocchi mentire a
se stessi, lui sapeva bene il motivo per cui provava
un simile dolore.
Era uno schiocco, uno
schiocco consapevole, però, che il suo piano durato due anni sarebbe andato a monte nel momento in cui avrebbe accettato quella verità.
La verità che l’amava troppo
per gioire della sua disperazione.
D’altronde era anche troppo
orgoglioso e impacciato per provare anche solo a strapparle un sorriso, non
riusciva a trovare le parole adatte e aveva paura di usare quelle sbagliate come in passato aveva spesso fatto con la sua
famiglia.
Però, quasi incosciamente, girò la testa in direzione del
divano dove vi era appoggiata sopra una borsa color nera con una lunga cinghia che
ricadeva pigramente sul bracciolo del divano.
Lui si avvicinò ad essa ed aprì dolcemente la zip, estraendo una vecchia
chitarra color mogano chiaro e dai pomelli dorati.
Sorrise ripensando a quanto
fosse in realtà pateticamente nostalgico, di come ancora
non si voleva separare dalla vecchia chitarra che gli aveva donato il padre
quando era ancora un marmocchio e di come, ancora oggi, usava le note delle sue
canzoni per esprimere ciò che a parole non era mai stato in grado di fare.
Per tutto l’appartamento una
dolce e frenetica musica si propagò senza sosta facendo alzare la testa alla
ragazza, da troppe ore oramai sotto la doccia, facendole distogliere lo sguardo
dalle piastrelle color beige della doccia.
I suoi occhi, completamente
aperti per la sorpresa, si chiusero nuovamente lasciando spazio a ciò che sul
viso sembrava fosse un accenno a un piccolo sorriso.
Chiude gli occhi la ragazza
in modo da poter assaporare quell’arpeggio, ecco ora sente le note penetrargli
fin dentro le ossa…mi,re,si e ancora fino a sentire la
voce roca e profonda di lui.
“Si fa presto a cantare che il tempo
sistema le cose
Si fa un pò meno presto a convincersi
che sia così”
Il cuore della ragazza
sussultò per l’ennesima volta quella mattina, respirò profondamente per cercare
di dare un freno al palpitare impazzito che sentiva all’interno del suo petto.
Non avrebbe mai creduto che
una semplice canzone avrebbe messo a nudo la sua
verità più nascosta simile perlopiù ad un ancora di salvezza.
Già…
Il tempo era l’unico
salvagente a cui poteva aggrapparsi vista la situazione, confidava nella
speranza che tutti quei anni passati a rincorrere quel
divo impossibile fossero solo un brutto incubo.
“Io non se è proprio amore
Faccio ancora confusione
So che sei la più brava a non andarsene
via”
Un sorriso amaro si dipinse
sul volto di lei mentre continuava a fissare quel muro
davanti a sé, poi s’inginocchiò al suolo della doccia e appoggiò la fronte
sulla parete.
I singhiozzi cominciarono a
riecheggiare in quell’abitacolo freddo mentre le gocce, seppur calde,
sembravano perforarle la pelle nuda e liscia.
Quanto avrebbe voluto che
quelle parole fossero state veritiere anche per lui, eppure era conscia che
quel maledetto diavolo dagli occhi argentei l’aveva già dimenticata e
cancellata dalla sua vita come un vecchio appuntamento scritto a matita su un’ agenda chiamata “vita”.
Quanto, ancora adesso, desiderava ardentemente correre nel
suo camerino e pregarlo in ginocchio di riprenderla con lui.
“Forse ti ricordi ero
roba tua
Non va più via l’odore del sesso che hai
addosso
Si attacca qui all’amore che posso
Che io posso”
Ma non poteva, sapeva che se l’avrebbe incontrato
avrebbe avvertito sulla sua pelle un odore diverso dal suo, l’odore di un’altra
donna, di un’altra amante, di un’altra manager.
Spesso si era domandata in
quei momenti di angoscia e solitudine, in
quell’appartamento deserto, come faceva lui a cancellare quell’odore d’intimità
e complicità delle donne che precedentemente si era portato a letto.
Al contrario, quell’odore di
sesso e arroganza
si era impresso sulla pelle della giovane ragazza come un marchio di fuoco che
le aveva lasciato solo una orribile cicatrice e uno straziante dolore.
E il ragazzo con la chitarra lo sapeva bene.
Poteva avvertire chiaramente
i singhiozzi di lei anche aldilà delle fredde mura che
dividevano il bagno dal piccolo salone.
La sua voce roca smise di
cantare, incapace di trattenere l’ira, ma solo le sue esili
dita, quasi inconsciamente, continuavano a suonare quella melodia fatta
di vane speranze e malinconia.
Quanto avrebbe voluto
lanciare, in un impeto d’ira, la chitarra sul divano e correre da lei per
cingerla in un abbraccio assaporando, dopo tanto tempo, le sue labbra.
Già, perché anche lui aveva
il marchio di lei sulla sua pelle.
“E ci siamo mischiati la pelle, le
anime, le ossa
Ed appena
finito ognuno ha ripreso le sue”
A udire quelle strofe il
cuore della ragazza si fermò per qualche secondo e il suo volto era ora rivolto
verso immagine distorta
e confusa della porta del bagno, intravista dalla vetrata umida
ed opaca della doccia.
Le lacrime di prima si
fermarono per far posto ad altre nuove ma dal sapore
di antichi ricordi, ricordi lontani, ricordi che lei ha gettato via per
inseguire “l’altro”.
Il dolore per il rigetto l’aveva
talmente tanto accecata che non si era resa conto di quanto fosse stato
doloroso per lui accettare di aiutarla a traslocare.
Lui che l’aveva amata ai
tempi dell’università come non aveva mai fatto con nessuna.
Lui, che aveva lasciato con la
banale scusa che era troppo infantile ed irresponsabile per una futura donna in
carriera come lei.
“Stronzate.”
“Tu che dentro sei perfetta
Mentre io mi
vado stretto
Tu che sei la più brava a rimanere
mania”
Ma d’altronde, anche lui lo sapeva fin da principio che
quella storia sarebbe finita ancor prima di cominciare.
Sapeva che, agli occhi di lei, sarebbe sempre arrivato secondo, se non
addirittura ultimo, contro quel divo dallo sguardo gelido e maturo nonostante
fosse più giovane di lui.
Sapeva che lui era solo un
rimpiazzo momentaneo, un trampolino di lancio per lei.
Lo sapeva ,
eppure non poteva farci niente
La prima volta che
s’incontrarono fu nei corridoi di quell’università oramai lontana anni luce.
Lui camminava senza una meta,
distratto dalla musica del suo ipod, e un piccolo
tornado dai capelli castani, raccolti in due piccole cipolle ai lati della
testa, lo travolse.
A tratti gli pareva di
sentire ancora il rumore delle corde della chitarra che portava sulla schiena
infrangersi contro il suolo, ancora ignaro di cosa fosse successo.
Ma quando alzò gli occhi pronto ad infrangere la sua ira sul il povero
malcapitato, incontrò due timidi ed imbarazzati occhi castani che lo fissavano
con fare preoccupato.
Fu un vero e proprio colpo di
fulmine.
“Forse ti ricordi sono
roba tua
Non va più via l’odore del sesso che hai
addosso
Si attacca qui all’amore che posso
Che io posso”
Ma la musica, che fino a quel
momento aveva cullato tutta la casa, si arrestò improvvisamente
quando il ragazzo avvertì qualcosa di freddo e bagnato sul suo viso.
Alzò lo sguardo per trovarla
lì, sulle sue ginocchia che lo fissava con quel suo
sguardo triste e i capelli, ancora bagnati, che gli ricadevano sulle spalle.
Nonostante avesse addosso i vestiti, quell’immagine così bella e sensuale
mandò in tilt per un momento gli ormoni del giovane, incapace di reagire di
fronte a tale bellezza.
-“TenTen…”-
Si limitò a sussurrare lui,
mentre lei, fino ad allora rimasta in silenzio, gli
baciò la fronte per poi scendere delicatamente fino ad arrivare a un soffio
dalle sue labbra.
Era stanca di inseguire un
sogno impossibile, stanca di cercare di essere quella
che non era quando poteva esserlo semplicemente stando con lui.
Lui che non l’aveva mai
abbandonata, anche quando era stato abbandonato da
lei.
Lui che, nonostante tutto,
non aveva mai smesso di amare.
-“Kankuro…”-
Disse, impaziente di
assaporare, dopo tanto tempo, le sue labbra.
Ma lui, quando la vide
avvicinarsi, volse la testa dalla parte opposta per non incrociare lo sguardo sorpreso e
triste di lei.
Entrambi non pronunciarono parola e la stanza venne coperta di nuovo da
quel silenzio, quel dannato silenzio che non aveva fatto altro che farli
soffrire entrambi.
Quel silenzio, che nessuno
dei due sembrava aver completamente cancellato dalla sua vita.
E non solo.
Il ragazzo avvertì di nuovo
qualcosa bagnargli il viso, qualcosa di caldo questa volta.
Alzò lo sguardo e quando
incrociò gli occhi di lei, ebbe un tuffo al cuore nel
vederli bagnati ancora una volta dalle lacrime.
Sennonché, questa volta, il
colpevole era lui.
La ragazza abbozzò un triste
e straziante sorriso quando incrociò gli occhi neri di lui e disse
semplicemente:
-“A quanto pare sia tu che
Neji siete bravi ad ammaliarmi per poi gettarmi in un
angolo…”-
Poi prese la sua borsa rosa e
corse fuori da quell’appartamento, incurante della
porta che sbattè dietro di se.
Il chitarrista, dopo averla
vista andarsene, gettò lo strumento in un angolo del divano e si mise le mani
tra il viso, nel tentativo di reprimere la sua rabbia.
Non era vero, non l’aveva
ammaliata per poi gettarla come aveva fatto ”l’altro”, non era nemmeno sua intenzione ammaliarla.
Ma allora, perché l’aveva respinta?
Non era la ferita ancora
fresca o la paura di essere per l’ennesima volta un rimpiazzo, questi erano
piccoli particolari che avrebbe potuto tranquillamente trascurare.
Eppure, uno non poteva ignorarlo.
Sulla pelle
di lei avvertiva ancora l’odore di quell’uomo, quell’odore maledetto che
si era impossessato del corpo di lei ed aveva annullato quell’odore di fresca
pesca della pelle di lei che ricordava con tanta nostalgia.
Quel dannato odore, non
riusciva a sopportarlo.
Delle lacrime quasi
invisibili rigarono il volto coperto di lui mentre il
silenzio continuava ad opprimerlo come una prigione.
Neji aveva vinto di nuovo.
“No va più via
nemmeno se
Non va più via”
(“L’odore del sesso” - Ligabue)
Angolino dell’autrice:
Addirittura quarta, quasi non me l’aspettavo essendo il
primo concorso a cui partecipo, sono abbastanza soddisfatta XD!
Ringrazio i giudici imparziali Talpina
e Kurenai e tutti quelli che recensiranno/leggeranno la fic!