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Autore: trittico    08/01/2014    0 recensioni
Una giornata di duro lavoro, si volge in una bella veleggiata.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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ONDE

 

Ci sono avvenimenti che, seppur di apparenza infima, possono in una condizione particolare, diventare la miccia di un rivolgimento di grande entità. Il classico granellino, che iniziando il suo viaggio nel pendio gravitazionale provocato da un accidente qualunque,avvolto e trascinato dalla misteriosa forza innata nella materia, scivola verso il basso, e nel suo moto, trascina con se nella folle corsa altri granellini, che a loro volta coinvolgendo altri fratelli, esponenzialmente formano una valanga di grande energia. Così quel giorno di mezza estate sulla tangenziale lastricata di macchine arroventate e maleodoranti, Alberto stava, grondante di sudore, nella sua auto con l’unica climatizzazione nell’abitacolo che i finestrini aperti potevano offrire ma che sfortunatamente funzionano solo in movimento. E lì, di movimento, non ce ne era molto, tanto più che la giornata doveva essere ancora lunga e il giro dei clienti molto esteso. “Questo è solo l’inizio, cavolo!” , pensò abbattuto Alberto. Quando una piccola goccia di sudore, trovando la strada tra le pieghe della pelle, dalla fronte spaziosa arrivò fin nel suo occhio destro. La goccia che fa traboccare il vaso, il granellino aveva provocato la valanga!

Una inquietudine irrefrenabile salì dal profondo del suo essere e gli turbò, con la sua frenesia, la mente e il cuore. “No, non ci sto. Cosa sto facendo intrappolato in questo inferno... un bel girone perbacco! Cosa avrò mai fatto in questa o altre vite per meritarmi un simile supplizio? Si, va beh... il dovere... gli impegni presi, ma in questo istante vorrei stare proprio da tutt’altra parte!” Questo pensava tra sé e sé, mentre stava facendosi strada in lui, prima timidamente, poi sempre più potente, un pensiero impossibile. Di quelli che appena balenano nella mente appaiono di facile attuazione, poi ad un più serio sguardo, si caricano di tutte le implicazioni dipendenti da essi, tali da farli ritornare nel regno dell’impossibile.

Ma questa non era la volta in cui Alberto sarebbe stato schiacciato dalla rassegnazione.

Aiutato dal fatto che, in fin dei conti, si trattava di lavori posticipabili ad altro momento e giri per uffici che non avevano carattere d’urgenza. Risolse, con piglio risoluto, di andare a farsi una sveleggiata al lago. “Si, con i piedi ammollo, prima che questo calore mi faccia bollire il cervello!”. Prese la pipa sul sedile affianco, con due dita sollevò l’accendino, con la paura che gli scoppiasse tra le mani per quanto era caldo, rabbrividì pensando a quanto si stavano agitando quelle molecole di gas mosse da quel calore eccessivo, spingendo tutte insieme sulle pareti del serbatoio. “ Basta, non voglio scoppiare anche io... al lago!”

Ormai Alberto aveva preso la sua decisione e sapeva che la sua giornata, dall'inizio così gravoso, si sarebbe tramutata in breve in una delizia. Non ci avrebbe rinunciato per cose, se non inutili, almeno non così importanti come la sua incolumità sia fisica che psichica.

Occupò il tempo per arrivare allo svincolo per l’inversione di marcia, facendo alcune telefonate, in modo da potersi godere quella giornata senza troppi rimorsi, avvisò anche la sua dolce metà, ricevendo da quell’anima candida un “buon divertimento, e stai attento,che ti voglio integro, non mangiucchiato dai pesci!”. La rassicurò, non voleva fare lo scavezzacollo, avrebbe navigato per rilassarsi, con vele poco cazzate, ambiva solo passare una giornata all’insegna della pace meditativa, non certo alla guerra. Avrebbe consacrato il suo tempo alla bella Minerva, Marte poteva farsi un bel pisolino, già gli aveva dedicato troppo tempo quella mattina.

La nuova direzione di marcia aveva portato subito i suoi benefici, la strada libera, il vento finalmente nei capelli, Alberto cambiò il dischetto di musica nello stereo, con uno di musica classica, “è tempo di dolci note”, pensò con allegria, pregustando l’acqua fresca , che avrebbe avvolto il suo corpo. La strada era tanta , ma il pensiero dell’ambita meta avrebbe accorciato la distanza, era ora che Crono facesse la sua parte, ripagandolo dei lunghi momenti dilatati a dismisura, densi di imbarazzi, apprensioni e timori.

E così fu, in quello che gli sembrò un volo, arrivò sul promontorio da dove con lo sguardo poteva spaziare sullo specchio d’acqua, punticchiato di vele bianche e placide nella bonaccia. Il vento si sarebbe alzato da li a poco, lo sapeva bene, vento termico, quello che nasce con regolarità dalla differenza di riscaldamento, da parte del sole, della terra e dell’acqua. In quell’ultimo tratto di strada, il vecchio Nume si stava riprendendo i suoi spazi con gli interessi, bagnanti che attraversavano lentamente la strada ciondolandosi sulle loro ciabattine, ciclisti dalla pedalata pigra e con un concetto di “tenere la destra” molto relativo, stavano creando in lui uno stato di impazienza comune in tutti quelli che si avvicinano ad un momento tanto desiderato,” calma, calma, tanto poi si arriva.... e tu spostati!” il cuore gli batteva forte ora che era quasi arrivato.

Poi finalmente, parcheggiata l’auto si avviò lesto verso il bar del club, salutò calorosamente il custode, scambiando con lui qualche frase di rito, acquistò due bottiglie di acqua, non voleva come a volte era capitato, bere per disperazione qualche boccata di lago. Non che gli avesse fatto mai male, ma non aveva le bollicine! Poi si avviò in direzione della sua amata.

La trovò sul suo carrellino provvisto di ruote, sigillata nel suo impolverato impermeabile azzurro. Con gesto impaziente sciolse i lacci che lo tenevano al suo posto, e il bel fulvo del mogano antico riempì i suoi occhi e scese fin nel cuore. “quanto sei bella , con le tue rotondità e i tuoi colori, che linea!” in effetti, per chi ama le barche, vedere quelle linee, pulite, piene, affusolate,con un sapore un po retrò, è una visione paradisiaca, come il vedere le belle forme di un corpo grazioso di donna.

La salutò con un colpetto sul naso e cominciò il rito della vestizione. Prima di tutto bisognava vuotarla di tutto quello che era stivato all’interno, salvagenti, attrezzatura, bottiglie vuote che facevano da posacenere durante la navigazione, il rispetto per il lago era grande in lui, anche una cicca di sigaretta non doveva contaminare quell’ente così rispettabile.

Poi la portò dove era un tubo per il lavaggio, quella era una operazione che un po lo intristiva, ma necessaria, doveva scacciare tutti i ragni che vi avevano fatto le loro tele, poverini, ma non voleva rivivere quella uscita in cui una bella tarantola rossiccia, se ne andava a spasso per la barca, non potendola buttare fuori bordo per il suo spiccato senso di umanità.

Assolta quell’incombenza, in attesa che scolasse tutta l’acqua, andò negli spogliatoi per cambiarsi e prendere le vele nell’armadietto. Loro, il vero motore della barca, ali create per accogliere e sfruttare il vento. Un po vetuste anche loro, ma di ottima fattura, capaci di tramutare in spinta anche brezzette di poca entità.

Travestito anche lui da bagnante ma non di colori sgargianti e costumi all’ultimo grido come chi è costretto a non andare più in là del bagnasciuga, ma con l’utile sciatteria di scarpe da ginnastica, pantaloncini ricavati da vecchi pantaloni leggeri tagliati alla “bermuda” per coprire le cosce dove il sole e lo stuscìo delle scotte provocavano dolorosi arrossamenti e t-shirt, scolorita dall’acqua, ma onorata da tante boline, con la sacca delle vele sulla spalla ritornò alla barca, cominciando impaziente ad armarla.

Per prima cosa doveva drizzare l’albero che si trovava appeso a due ganci sul soffitto della tettoia. Una volta era di legno, pitch-pine per l’esattezza, bello a vedersi ma che col tempo aveva preso il vizio di flettersi in maniera eccessiva, tanto da vedersi affibbiato l’appellativo, non certo lusinghiero, di “banana” che oltre a dare problemi di aerodinamica alle vele, rischiava di andare in pezzi con vento sostenuto, ciò non era molto augurabile in navigazione. Allora era stato sostituito con uno di alluminio, molto meno estetico, più prosaico diciamo, ma provvisto della giusta rigidità ed insieme flessibilità quale ci si aspetta da un albero rispettabile. Con uno sforzo controllato dall’arte, Alberto tenendo quei sette metri in verticale, infilò il micciotto nella scassa, poi con mano svelta assicurò lo strallo al suo supporto situato all’estremità della prua, e successivamente le due sartie alle lande situate a dritta e sinistra della coperta all’altezza del baglio, così che quei tre elementi, avrebbero tenuto l’albero saldamente svettante verso il cielo. Tirò fuori le vele dalla sacca e iniziò ad issare il piccolo fiocco, cazzò bene la drizza dimodoché la ghinda ben tesa, non vibrasse, proprio nel punto dove il vento entrava a far parte del “grande gioco”.

Poi fu il turno della randa, la grande vela, era lei che dava quasi tutta la spinta alla barca. Grande triangolo di Dacron, dove era ricamato sia il numero velico che la classe dell’imbarcazione. Inferita nella scanalatura apposita che solcava l’albero fino in cima e issatala, cominciò a sventolare pigramente alla brezza che stava montando. Così era un lenzuolo al vento, inutile al suo scopo, ma quando inferita anche sul boma e trattenuta dalla scotta prendeva vento, diventava viva ed esprimeva tutto l’ingegno dell’uomo che l’aveva ideata.

La barca cominciava a prendere forma, Alberto si allontanò di qualche passo per osservarla bene, gli riempivano gli occhi quelle forme slanciate, il blu profondo dello scafo, alleggerito dalla linea di galleggiamento e da una banda appena sotto il bottazzo, di un elegante bianco avorio antico; il marrone rossiccio del mogano e il bianco delle vele. “E' uno splendore!” Pensò agli scafi di altre epoche, pieni di pesanti fronzoli barocchi, lui li considerava inutili, buoni solo per la vista, ottimi per chi voleva fare colpo in porto, ma poi così... così... inutili.

vedeva così anche la sua vita. Essenziale, quasi come un arredamento ispirato allo Zen. Non vedeva l’utilità di tutte quelle circonvoluzioni estetiche, i suoi pensieri filavano leggeri come quelle linee, fatti solo per navigare nel mare delle idee, senza artifici, escamotage o zavorre.

Nella navigazione della vita, lui voleva arrivare in boa, nella maniera più rapida ed elegante possibile, senza perdersi in giri viziosi dettati dall’opportunismo e dal farsi bello agli occhi degli altri. Preferiva fare una virata con dispendio di energie e tempo, per aiutare un’altra anima in difficoltà, che tirare dritto per la sua strada per afferrare la coppa del campione.

Sterile vittoria! una coppa che va ad impolverarsi su di un mobile, ripulita e lucidata solo per essere mostrata. No, il suo più bel trofeo erano gli occhi illuminati dall’affetto che un gesto gentile, una buona parola, un buon pensiero, faceva emergere dal profondo del cuore dei suoi simili. Verità, giustizia e Amore erano le tre manovre fisse che tenevano ben saldo l’albero della sua barca, contro il vento teso ed imprevedibile di bufera.

“Ci siamo quasi” pensò mentre si accendeva la pipa e i suoi piedi nudi si beavano del tocco fresco dell’erba appena tagliata. Ora toccava alle manovre mobili, vange, tesabugna, cunningham, scotte, bene messe in chiaro che una piccola ingarbugliatura su di una manovra in acqua poteva essere foriera di un brutto guaio, quante volte gli era capitato! Quando tutto fila liscio, quando meno te l’aspetti, una raffica venuta chissà da dove, con una angolazione anomala, mette in subbuglio tutte le tue sicurezze, bisogna che la reazione sia rapida ed efficace, in quel momento il nodino che per svista o pigrizia non avevi considerato, proprio lui, il perfido, si imbroglia e in un attimo tutto è compromesso, e allora via, in fretta a rischio di scuffia, agire , per risolvere il problema. Facile a dirsi seduti al tavolino con una birra ghiacciata davanti, nelle sicure acque del porto, ma li, in mezzo alle onde, con il vento che ti urla in faccia tutta la sua furia, quel piccolo nodino diventa il tuo peggior nemico. Per cui sempre manovre in chiaro e prevedere anche quello che non può capitare, che poi è quello che nella maggior parte dei casi capita.

Recuperò il timone e la deriva per imbarcarli, “ecco gli altri due elementi della triade”, pensò con un sorriso, loro insieme al centro velico, cioè la risultante della forza generata, non tanto dalla spinta del vento , quanto dal risucchio che si crea sottovento alle vele, perché è palese il concetto di spinta come le vele fossero un muro che sente la pressione dell’aria, ma è occulto ai non iniziati all’arte velica, il fenomeno del risucchio, ben più potente del primo, dato che per la convessità delle vele ,la strada che fa il filo d’aria è più lunga sottovento che sopravvento e in natura ogni vuoto deve necessariamente venir colmato. Vuoto, nulla, niente, zero, non possono esistere in natura, lei non li contempla, solo l’uomo, nei suoi almanaccamenti fantasiosi di bambino, riesce a dargli vita.

Così inseme all’albero invelato, la deriva e il timone si aveva la conduzione volitiva della barca. Alberto sentiva questi pensieri fluirgli snelli nella mente, pensava a quanto l’ingegno dell’uomo, traspariva da quei semplici oggetti. Dapprima un semplice palo sorreggente un telo, succube di ogni capriccio dei venti, capace solo di seguire la direzione da essi stabilita, poi, per riuscire almeno in parte a costringere il mezzo a seguire una rotta più proficua, ecco il timone, già qualcosa.

Ma la vera trovata, quella che ha permesso all’uomo di poter in maggior misura decidere la sua meta è stato l’avvento della deriva. Polo speculare del piano velico, lei agisce nell’ombra, nel blu dell’acqua. Le vele planano nelle molecole rarefatte dell’aria, lei plana nel fluido denso, le prime si beano del bel sole, la seconda dei riflessi cristallini delle profondità. E’ lei che rende libero il marinaio dalla schiavitù della direzione del vento, è lei che gli da modo di poter decidere del suo destino.

Ma ormai la barca era pronta, salvagenti, coltellino, cimette per riparazioni o modifiche varie, che in barca non vige tanto la coerenza, ma è l’improvvisazione che trova il suo più grande impiego, “mobilis in mobile” così recitava la scritta sul “Nautilus” di Capitan Nemo. Mobile nell’elemento mobile. “Le cose sono così!”... gran baggianata, tutto è in movimento, anche il cielo per noi fermo e statico è in continuo moto. Perché allora creare edifici che tentano , vanagloriosamente sfidare l’eternità, torri di Babele, i cui i mattoni si disfano al soffio del tempo.

“Poche cose in barca, che, quello che non c’è, non si perde ne si rompe”, così recita l’esperienza. Così nella vita!

Alberto si riscosse da queste divagazioni, caricò acqua, pipa,tabacco, accendini, almeno due, in barca è difficile chiedere a qualcuno di passaggio il favore di farti accendere. Poi dopo un rapido ripasso al tutto, cominciò a spingere il carrellino verso lo scivolo di alaggio. La spiaggia era gremita di gente, urla, radio insulse, sguardi annoiati e sonnellini a cottura lenta, un bel caos, ma Alberto, con i piedi in acqua, sapeva come tutto questo sarebbe sparito di lì a poco, quando il dolce alito l’avrebbe spinto lontano, con solo la musica del vento, lo sciabordio delle onde sullo scafo , gli scricchiolii delle manovre e del legno a fargli compagnia.

 

 

 

 

fine

   
 
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