Clopin sapeva leggere.
Iniziò da bambino, divertendosi, indovinando quali tra le guardie che uscivano dalle taverne erano brille e quali meno, quali con il vino diventavano tristi, quali violente o quali allegre. Si burlava di loro, se per caso perdevano l'equilibrio e le guardie, che non erano famose per stare agli scherzi, soprattutto a quelli di un marmocchio zingaro, gli correvano dietro come potevano. Clopin era agile, ma le guardie erano grandi e grosse e non era raro che lo incastrassero e lo riempissero di botte. Quante ne aveva prese... ma in un certo senso gli tornarono utili, lo aiutarono più avanti a prendere le misure. Tuttavia non smise mai di osare. O di menar per il naso le guardie.
Quando, da ragazzo, iniziò la sua attività di cantastorie, ebbe contatti sempre più da vicino con i francesi e spesso in piazza assisteva a scene di vario tipo: inganni, ricongiungimenti e liti, soprattutto. Non che questi in sé gli interessassero molto, lo attraeva più che altro quello che veniva prima. Se due amici di vecchia data si ritrovavano, si scambiavano occhiate curiose e furtive da lontano prima di profondersi in esclamazioni di gioia e abbracci; se un panettiere incolpava un ragazzo di avergli rubato un pezzo di pane, spesso aveva già deciso che l'avrebbe rimproverato appena il ragazzo si era avvicinato al carretto. Clopin studiava tutto questo. Col tempo, poi, imparò a riconoscere anche i caratteri delle persone, sia gli stereotipi sia quelli più contraddittori; li identificava tutti, quale prima, quale dopo, ma tutti. Di conseguenza sapeva sempre come prendere chi gli stava davanti e, soprattutto, come burlarsene...
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Tutti lo conoscevano, almeno in quel quartiere, e lui conosceva tutti.
Ormai Clopin era diventato di casa nella piazza di fronte a Notre-Dame, la gente che passava era sempre quella, ogni faccia era diventata a lui familiare.
Quel giorno stava raccontando un'antica leggenda sul perché i pesci non parlano. Pochi spettatori quella mattina, il freddo invitava a casa chi poteva restarci. C'era giusto qualche ragazzino, tuttavia piuttosto preso dalla storia.
Ma aspetta... un gruppetto di signore e signori, ben vestiti, probabilmente dell'alta borghesia, stava attraversando la piazza parlottando.
No, mai visti. Che strano.
Non era raro incontrare qualche mendicante o pellegrino di passaggio, ma che ci fossero nuovi borghesi in città era un evento!
Clopin li seguì incuriosito con lo sguardo mentre era intento a fare il verso del pesce con la bocca e con le mani per la sua piccola platea e il gruppo volse lo sguardo al suo teatrino, attirato dalle risa dei bambini. Lo guardarono sprezzanti e tirarono avanti. Lui sorrise beffardo, era divertente scandalizzare le élite con la puzza sotto il naso.
Però c'era qualcuno che lo guardava meno sprezzante degli altri. Una ragazza, in fondo al gruppo.
Era strana, indecifrabile. Per un attimo sembrava curiosa, ma... no ora volgeva lo sguardo; diede un'ultima occhiata di sottecchi e poi tirò avanti insieme agli altri. Non sembrava particolarmente attenta ai discorsi che si tenevano. Si concedeva il lusso di distrarsi, in ogni caso non sarebbe stata interpellata. Si guardava intorno, attenta anche alle piccole, trascurabili, inutili cose. Osservava e il suo sguardo catturava tutto, senza esprimere critiche su nulla. Vedeva ogni particolare con la stessa emozione, ma quale questa fosse era difficile da intendere. Metteva tutto sullo stesso piano, dal borseggiatore in azione, al modo in cui delle monete cadevano dalla mano di una signora in quella del fornaio. Stava, poco a poco... appiattendo la realtà.
Alzò gli occhi, che presero il colore grigio del cielo: Notre-Dame si ergeva maestosa sulla piazza, su Parigi. La ragazza rimase per un istante a contemplarla, ferma: stupita, vinta dall'imponenza della cattedrale.
No. Notre-Dame non poteva appiattirla, quella no.
Il suo atteggiamento incuriosì Clopin, come la curiosità che si prova davanti a qualcosa che si deve ancora realizzare. Era l'idea di lei che Clopin doveva ancora realizzare. Eppure scorgeva qualcosa... era piuttosto come un uccello in gabbia che ormai aveva rinunciato ad evadere. Si era ormai abituata ad accoccolarsi nella sua gabbia, a vedere il mondo da lì dentro, come rassegnata. Rassegnata, ecco, rassegnatasi a rinunciare alla vita, a lasciarla agli altri. Non era sottomessa, ma accondiscendente. La sua vita era lì, davanti a lei e non poteva prenderla.
Perché lo attirava tanto? Forse perché, in fondo, erano simili, pur essendo agli antipodi. Il suo stare dietro a tutti, lo sguardo assente, l'essere indifferente, in balìa di tutto, era qualcosa in comune coi gitani. Ciò nonostante lei aveva qualcosa in più di loro, qualcosa di grande e potente. Una difesa, più che un'arma. Le avevano insegnato una maschera, quella di tutti loro, non solo dei ricchi, quella di tutti i francesi: l'odio. L'odio per il diverso, l'odio per il sospettato, l'odio per lo sconosciuto.
Tutto questo Clopin osservò e meditò, mentre la nuova borghese si confondeva con la città.
Lo spettacolino finì.
I bambini risero.
Forse, tornando a casa, avrebbero raccontato la storia ai genitori.
Forse ai genitori sarebbe piaciuta.
Almeno finché non avessero saputo che era la storia di un gitano.
Spazio autrice:
Il mio primo progetto e mi butto su una long-fic. Devo essere matta.
Comunque, non so se ce la farò, io ci provo, avverto che non ho tempi brevi (affatto).
Questo era un capitolo via-di-mezzo tra prologo e capitolo I.
E' molto introspettivo, non ci sono dialoghi, ma ci saranno, niente paura ;)
E' pure cortino, lo so, in compenso ogni sillaba è stata misurata col contagocce, insomma, ci ho messo impegno. Poi se è uscita una cavolata ditemelo voi, però ditemelo.
Lodi, critiche e insulti sono ben accetti! ^.^