Film > Arancia Meccanica
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Autore: xingchan    09/01/2014    2 recensioni
“L'uomo deve poter scegliere tra bene e male, anche se sceglie il male. Se gli viene tolta questa scelta egli non è più un uomo, ma un'arancia meccanica.”
[Stanley Kubrick]
Attenzione: ho apportato delle modifiche significative al personaggio di Esther, a partire dal 2° capitolo. Nel prossimo aggiornamento (il 4°) vi fornirò le dovute spiegazioni.
Genere: Drammatico, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!, Tematiche delicate
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Libertà di scelta
 
4

 
 
Al principio del pome, ritornando nella mia tana, mi cambiai un’ennesima volta di palandre, ora un po’ meno all’estremo grido a dir la verità, per andare a ridare quelle altre al fratello di Esther.

Quel nome, O fratelli, mi dava una serenità ed un eccitamento che solo il Vellocet e Syntemesc insieme era in grado di dare, anche se per una quindicina di minuti buoni buoni.

Quella mammola con la pelle d'argento colato aveva aiutato me, un malcico con esperienze di Prista alle spalle e conosciuto come un poldo affidabile solo un piccolopoco e solo grazie all’appoggio del Min.

Ella era libera da tutta quella sguana sociale fatta di perbenismo e di falsi bahahaha, O fratelli. Locchiando nei suoi fari cinebrivido, quella cupa avevo letto che Esther aveva zeccato quanto fosse libero ed indomito lo spirito del Vostro Umile Narratore, e di come sempre il sottoscritto si liberasse dalle proprie catene con il solo, antico istinto animalesco donatogli da Zio nei cieli e con quei granellini di sale nel planetario che sempre Lui mi aveva mandato.
Non potevo comunque fare a meno di pensare che anche la devotchka fosse un dono del cielo. Erano i suoi modi così affini ai miei attuali che mi facevano zeccare questo, anche se non vi garantisco che io dica il vero, O unici fratellini. Il vostro affezionatissimo zietto Alex non legge mica nel pensiero.

Mi aveva evitato la Prista come se fossi un malcichino che conosceva da secoli, o anche solo di vista. Anzi, come un soma dei lontani tempi infantili. Certo, inizialmente non è stata amichevole, ma con una spintarella è andato tutto liscio.

Mentre mi lambiccavo su queste trucche cinebrivido pistonando con le granfie nelle gaioffe verso la sua casuccia condominio, con le palandre del suo fratello ficcate in uno zaino, i fari miei locchiarono che nelle vicinanze c’erano tutti questi cerini che pareva d’esser invasi, con le divise unte di whisky e vischiose. Erano davanti ad una automobile che riconobbi nonostante fosse tutta ammaccata e schiacciata: quella che il pome prima aveva sostato davanti casa mia con quel brutalone d’un Ministro.

E c’erano anche un martino all’incirca della sua stessa età che piagnucolava con la biffa che appariva come un grande pomodoro, anche se l’impassibilità dei suoi fari ti faceva tanto di sospetto. Affianco, una babusca che si reggeva al primo maldicendo e imprecando solo come lo zietto Alex sa fare, facendo scorrere un fiume di lacrime accompagnando un bahahahaha degno di un’orchestra funebre.

Per descrivervi tutto questo, O fratellini, mi ero fermato, come tanti altri martini curiosi, tenuti a debita distanza dai rozzi.

Ma per quanto feci di tutto pur di non essere notato, uno dei cerini, uno di quelli con l’uniforme meno pasticciata, mi si avvicinò tipo guardingo per niente amichevole mi locchiò come stanco e annoiato. Non mi sarei stupito se avesse cominciato a ronfare da un momento all’altro.

“Alexander DeLarge?”

Lo locchiai un piccolopoco con diffidenza prima di fare sì sì sì con il planetario.

“Mi segua.” mi disse invitandomi a seguirlo con un dito. 

D’improvviso mi sentii davvero imburianato, perché io non c’entravo proprio niente con l’incidente. Ma dovetti comunque controllare il mio spirito al momento tutto frappè, anche quando mi frugarono nello zainetto per scoprire soltanto due palandre che lasciarono subito perdere.

Alla rozzeria mi portarono addirittura, e mi fecero sedere ad un tavolo di metallo in una stanza intonacata, come quella in cui fui sbattuto a suon di calci e pugni qualche anno prima. C’era di tutto: sniffa di birra e vomito, berciate altisuono di bestemmiatori chiusi al di là delle sbarrate, cerini busaioli che festano le berte dei malcapitati…

Tutto quello che passai in precedenza, O fratelli, e mi parve di rivivere tutto, che Zio non voglia.

“Sappiamo benissimo che lei non era presente durante l’incidente, però visti i suoi precedenti abbiamo pensato che c’entrasse qualcosa.” insinuò quel martino scricciando poi di chiudere il becco ai galeotti lacrimosi.

“Che cosa vuol dire, sir?! Io non c’ero nemmeno. S’è andato di matto al volante non è colpa mia, di certo!”

Semmai era Fred che mi aveva stordito il planetario a furia di minacciare, pensai. Ma non raccontai nulla ai rozzi su quanto accadde  prima dell’incidente, O fratelli. Non volevo che si sapesse nulla dei miei ciaf ciaf sulle sue macerie tutte bell’agghindate tipo a festa e delle sue gufatine a mie spese. Ma feci di tutto pur di apparire rispettoso della Legge e di tutta quella sguana.

Non volevo ritornare in quell’inferno in terra della Prista. Non volevo.

Pregai il cielo affinché mi facessero pistonar via da quel posto maledetto. O che mi offrissero del cià lasciandomelo glutare in pace, che facessero loro, purché non mi appioppassero una stronza divisa a strisce ed un porco numero con cui chiamarmi fino a farmi dimenticare la mia vera targa.

E dopo un una serie di bla bla fuoriuscenti da trugli che sputacchiavano qua e là, grazie al cielo mi fecero uscire da quel buco intonacato e macchiato della rozzeria e sospirai d’esultazione, O fratelli. Certo, non si erano privati del divertimento di portarmi all’uscita cordialmente, ma comunque era sempre meglio che rimaner lì dentro.
Ma prima di sbattermi fuori, locchiai un omaccione grande quanto una vacca e con il planetario completamente sgombro di criname si avvicinò alla porta dei cerini che mi avevano trattenuto tenendo per le granfie con dita lezzose e grasse qualcuno di molto più migno, Esther.

La devotchka che mi aveva aiutato quella cupa maledetta. O benedetta, come vi garba, O fratellini. Quella che aveva occupato i pensieri del Vostro Affezionatissimo malcico per tutto questo tempo.

La ragione potevo zeccarla da me. La sua tana era a qualche metro di distanza dal luogo del fattaccio del Min. Sicuramente l’hanno prelevata per testimoniare.

In quel piccino istante che i nostri fari s’incrociarono, sentii il cuore fare bum bum come la prima occasione che la locchiai, ed ancora più forte nel momento in cui la sua ciangotta squittì tutta spaventata ed irrequieta il nome cinebrivido del sottoscritto.

“Alex…”

Non potevo tollerare che un simile spocchioso friggibuco mettesse quelle porche granfie su di lei evidentemente contrariata, men che meno che non fossi io, ma a causa di quegli altri leccapiedi sguanosi che mi spingevano sempre più in là, sempre più in là, non potevo farci niente. Però almeno come ultima cosa locchiai le sue granfiette migne che venivano sciolte dalle man manette dei cerini e dei buf buf di questi.

Allampo e con tutte le macerie che vibravano come corde di violini, mi diressi verso la sua casetta in attesa del suo arrivo evitando apposta la macchina fracassata del poldo Fred. Se l’avevano appena liberata, sicuramente Esther avrebbe pistonato a casuccia sua, mi dissi.

M’appoggiai stanco morto ad una statua bigia di chissà quale personaggio storico accendendomi una cancerosa, di quelle che sembrano non finire mai e che al contempo te le sniffi come divorassi spaghetti. E più passavano i minuti più veniva voglia di tornar alla Centrale rozza e festare i miei somarelli che dettavano legge scricchiando iaah iaah a non finire. Ma se non volevo tornare e starci fino a consumarmi le macerie dovevo fare l’angioletto per un piccolopoco; forse per tutta la mia seigiorni.

Aspettare non era nella natura del Vostro Umile però, e dentro ero tutto scombussolato per questo motivo. La slappa cominciava a bruciare. I denghi nelle mie gaioffe cominciavano a scricciare dling dling sempre più altisuono. La salsa nelle tubature pulsava ch’era insopportabile.

Lanciai via la cancerosa tipo esasperato e sbuffai contro l’aria fredda bastarda d’inverno, secca ma fredda. L’ira della bigia Londra cominciava a farsi sentire benbene, e se Estherina non mi si piazzasse davanti ai fari fra qualche min minuto, l’avrei raggiunta alla Rozzeria, dato le palandre dell’amato fratellino e avrei pistonato dritto dritto a casa, dove mi sarei fatto un cià davanti ad un film della tele.

Dondolai ancora per un po’ sulle patte, e d’un tratto sembrò che la devotchka avesse snicchiato i miei pensieri turbolenti. Ella si stava avvicinando con la biffa a terra e tutta triste e tutta solicella; allora io le porsi davanti lo zaino allungando la granfia locchiandola fisso fisso. E lei trasalì.

“Questi devono esser tuoi.” dissi poi senza emozione alcuna. Avevo imparato a controllarmi bene, sì sì, ed ora mi ci voleva molto perché qualcuno riuscisse a farmi tutto un frappé. Come Fred. Bene, dissi a me stesso. Sono maturato, eh sì.

“Sì. Grazie.”
Appariva in orbita, persa in chissà quale trucca nel planetario. Era sul punto di correre via, ma sguizzo le afferrai il braccio come quella cupa, O fratelli, e gemette e io così decisi che dovevamo farci due sprolate, noi due.

“Cosa hai detto a quei cerini?” chiesi rude, mentre le sondai ogni minimo cambiamento di espressione.

“Niente, se ti riferisci al Ministro degli Interni e… a quella sera.” spiegò la quaglia timorosa. “Per l’incidente, ho detto che ero dentro casa e ho sentito un rumore. Sono andata a vedere alla finestra e qualche metro più in là ho visto il disastro.”

Diceva la tamagna verità, come è vero il Vostro malcico. Ma nel frattempo, si era fatta migna migna di fronte a me che io quasi non ce la facevo a locchiarla. Volevo che la gente mi giudicasse in maniera diversa da come mi hanno etichettato e volevo che la mia targa non fosse legata alla Cura Ludovico. Ma nessuna di tutta questa sguana sarebbe stata esaudita, mio malgrado.

“Bene, cara la mia devotchka. Molto brava.”

“Ho compreso le tue ragioni, e ho cercato di mettermi nei tuoi panni” mi rispose un piccolopoco gelida, forse anche imburianata. Era perché l’avevo ficcata in mezzo a quel guaio, pensai.

Beh, non aveva colto la mia gratitudine cinebrivido, ma questo mi bastava, O fratellini rari. Mi bastava che qualcuno zeccasse me e le mie migne trucche sulla libertà e altra sguana, che qualcuno desse campo libero alle mie scelte.

“Certo, Esther.”

Il cuore mi fece ancora bum e bum e bum quando snicchiai la mia ciangotta dire il suo nome. Ma, dissi a me stesso, non ci sarebbe stato verso di fare del vecchio vaevieni con lei e nemmeno uscirci, O fratelli. I suoi fari mi trasmettevano una sola trucca: che sarebbe stato meglio per tutti se non ci fossimo mai più incontrati.

Lei era una devotchka disposta fin troppo ad aiutare gli altri e il Vostro Affezionatissimo era troppo impegnato a badare a se stesso in questo lezzoso mondo. Da soma impertinenti e babusche sofistone e cerini lezzosi e festoni di fuoco e ganghe saccenti e lische affilate. La vita non è tutta fiorellini profumati e musica labiale prrrr.

 “Allora addio, Alex”.

Uno sgarzo nel petto quella mottata tamagna, ma mi era servita per chiudere quella pagina e amen. Un addio e amen.

“Addio.”

Prendemmo strade opposte quella cupa e mi voltai solo una volta.

Per quanto affini, eravamo di due mondi diversi. La compagna che avevo tipo in mente di trovarmi e farmela zigna e con cui avrei avuto mio figlio non era lei, e se lo fosse stata solo Zio lo sapeva.

Ma ora, non avevo nulla per cui martellarmi il planetario, O unici amici. Fred aveva sbaraccato, il sgroppare mio era salvo, la bella maria assicurata e la Prista lontana miglia.

Una gufatina cinebrivido ohohoho e avrei ricominciato daccapo. 
 
 


“Ma voi, O fratelli miei, ricordatevi qualche volta di me che fui il piccolo Alex vostro. Amen. E tutta quella sguana.” (A. B.)
 
 
 
 


 
 
NDA
Perdono il ritardo, ma è stata dura stilare questo capitolo. Non sono riuscita a mantenere l’uso del Nadsat (quel poco che riuscivo ad usare, ahah), cosa che sotto sotto mi dispiace.
Passerei alle spiegazioni che vi ho promesso nell’introduzione della fanfiction.
Rileggendola velocemente, mi sono resa conto che c’erano punti che personalmente non quadravano; primo fra tutti l’atteggiamento troppo disteso di Esther di fronte ad un Alex quasi completamente sporco di sangue. Insomma, io non farei così tanto l’amichevole con un tizio in quelle condizioni, neanche se fosse Johnny Depp Malcolm McDowell in persona (va beh, sul primo ci penserei). xD
Se non avessi fatto questo cambiamento, sarei stata capace di cancellare la ff, cosa che mi dispiacerebbe enormemente. Nonostante non sia all’altezza dell’originale, mi sono data da fare abbastanza da essere soddisfatta di questa ff (tranne l’ultima parte di questo capitolo -.-‘).
Non ho voluto dilungarmi sul “rapporto” fra Alex ed il mio personaggio, perché più che altro volevo soffermarmi a quella strana forma di “prigionia” che Frederick aveva imposto ad Alex ed a cosa si sarebbe potuti andare incontro se avessimo dato a  nostro ragazzo un po’ di buon senno.
È stato molto divertente (ed interessante) sperimentare un gergo artificiale come lo è il Nadsat, linguaggio scaturito da parole nuove a metà strada fra l’inglese ed il russo. Difficile, ma quando si prova è fortissimo! xP
Mi dispiace un po’ che sia finita. ^-^’ Nonostante abbia, fin dall’inizio, progettato una ff lunga almeno 7 capitoli, non ho considerato opportuno che continui inutilmente. Ripeto, questo era solo un esperimento che ho voluto fare. Ovviamente, non è detto che in futuro non potrei continuare a scrivere su Arancia Meccanica. È uno spasso cimentarsi in questo campo! xD
Ringrazio come sempre Laylath e Calycanto, che mi hanno supportato in questa piccola avventura (?). :)
 
 
   
 
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