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Autore: Albezack    11/01/2014    4 recensioni
Un pastello con proprietà alquanto strane...
Genere: Horror, Malinconico, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Buonasera, Alan & Co., come posso esserle utile?”
“Ciao, Bob, temo di aver sfasciato un fanale uscendo dal garage…posso portarvi la macchina o siete pieni?” disse una voce familiare.
Che vita di merda lavorare in una carrozzeria. Un vero schifo.
Con un piccolo sbuffo tolsi i piedi dal tavolo e mi chinai sulle carte sparse sulla mia scrivania. Scrivania, non esageriamo. Puzzava di fogna quel posto. Presi l’agenda e la sfogliai fino ad arrivare alla data di quel giorno.
“Guarda Fred, oggi non ce la facciamo, ma puoi passare domattina…diciamo verso le nove?” dissi nella cornetta dell’apparecchio telefonico.
Sentii qualche parola confusa. Si starà consultando con la moglie, pensai. E’ un cacasotto, vorrei proprio vedere chi è che porta i pantaloni in quella famiglia.
Quando la sua voce mi giunse nuovamente all’orecchio, ebbi conferma di quello che già pensavo di lui. Che tutti pensavano di lui. Era un succube di Denise Parker, la strega che aveva sposato.
“Ehm…ci serve urgentemente Bob…grazie lo stesso” biascicò sprofondando nella vergogna, “chiamerò i Derrick, ci becchiamo stasera al bar se ci sei”.
Lo lascia addirittura andare al bar, impressionante. Forse si era accorto di avere le palle, guardandosi nelle mutande.
Era una giornata afosa, di quelle in cui nemmeno vorresti alzarti al mattino. Ma poi ti giri, guardi tua moglie e pensi: qualunque posto è meglio che qui. Così ti alzi, ti lavi, ti vesti ed esci. Non fai nemmeno colazione a casa, preferisci prendere un caffè coi colleghi che mangiare bacon con quell’arpia della donna che hai portato all’altare.
Poi arrivi alla carrozzeria, saluti all’entrata Frank e Buck, sempre alle prese con pneumatici e bulloni, ed entri in questo buco, a far finta di avere un lavoro decente.
Alan aveva fatto centro ad affidare a me le redini dell’impresa. Lui non ci aveva mai capito nulla di contabilità ed affari. Aveva subito abbandonato la scuola, a dirla tutta non so nemmeno se fosse in grado di allacciarsi le scarpe da solo. Io sgobbavo come un mulo e la facevo fruttare, quella baracca, e tutto per uno stipendio misero di nemmeno duemila dollari al mese.
Avrei dovuto chiedergli un aumento, a quello stronzo. Alan era mio cognato. Non ho mai capito cosa mia sorella ci trovasse di tanto speciale in quell’ometto coi baffi e spalle a delfino, probabilmente il portafogli. Lui e la sua famiglia venivano dall’Europa, si diceva che avessero ereditato un grosso patrimonio da uno zio defunto e fossero venuti qui, in Texas, a fare la bella vita.
Ad ogni modo, erano le quattro passate da poco e già mi disgustavo pensando a quando sarei dovuto tornare a cena, con quell’essere in gonnella che viveva con me. Non avevamo figli, io e Helen, ma tutto sommato era una brava donna. La insulto sempre, ma le voglio bene.
Almeno io non l’ho sposata per i soldi, pensai soffocando una risata, conoscendo bene la precaria situazione economica in cui aveva sempre versato la sua famiglia.
Driiiiiiin. Un’altra chiamata.
“Buonasera, Alan & Co., come posso esserle utile?”
Sempre la stessa risposta. Quando pronunci una frase per centinaia di volte al giorno, sono convinto che quella sia la frase che ti devono scrivere sulla tomba. Sarebbe stravagante, per lo meno. La gente avrebbe qualcosa per cui ricordarti.
“Bob sono io, ricordati di prendere il latte prima di tornare, siamo senza” disse la voce di mia moglie. Sentivo la radio di sottofondo, Like a Rolling Stone di Bob Dylan. Amavo quella canzone, un perfetto inseguirsi di note e voce, un tutt’uno. Bellissima. Se nel mondo ci fossero meno reality e più Bob Dylan, sarebbe un mondo migliore.
“Certo, tesoro, che c’è per cena?” chiesi speranzoso.
“Nulla di che, polpettone avanzato da ieri” fu la risposta, “se vuoi ti cuocio due patate”.
Delizioso, avanzi.
No, quella sera non sarei tornato a casa. Avevo bisogno di una birra ghiacciata al bar, decisamente.
Così quando arrivarono le sette e tutti i meccanici passarono a salutarmi ed augurarmi una buona serata, mi alzai, chiusi la porta e mi avviai verso l’interruttore che azionava la serranda principale del garage.
Mentre quella si abbassava sferragliando uscii e inserii l’allarme. Avevo quasi raggiunto la macchina ma mi fermai. Mi voltai a guardare l’insegna ingiallita di quello squallido posto.
Ancora due anni e ho finito con questa merda. Me ne vado su al nord, prendo una casetta sul Lago Whitney e mi metto a pescare. Ne ho le palle piene della campagna attorno a Georgetown. Che si  fottano tutti.
Quando passai davanti a casa, rallentai, come colto da un senso di colpa. Ma subito immaginai mia moglie seduta sul divano a guardare qualche stupido film strappalacrime con vicino una scatola di Fresh&Clean nuova di zecca. Così passai oltre, dirigendomi da Hans, il barista del quartiere.
Mi chiedo cosa ci faccia un polacco qui, in Texas. So solo che venne dall’Europa una ventina d’anni fa, per qualche problema legale. Credo si trattasse di alcolici d’importazione, ma non ho mai chiesto nulla a riguardo.
Mi basta che quando entro nella sua bettola mi saluti, mi passi una birra ghiacciata e di tanto in tanto scambi due chiacchere. Qualche cazzata sul tempo o sul periodo di crisi che il vecchio Zio Sam sta attraversando. Giusto per non bere in silenzio.
Nessuno vuole mai bere in silenzio. A meno che voglia annegare qualche dispiacere con qualche sorso di Bourbon o rum messicano, di quello buono. Non mi ero mai sbronzato, se escludiamo quella volta.
Le ciucche di rum messicano non si scordano facilmente. O meglio non si scorda il dopo. Il durante rimane sempre molto nebbioso.
In ogni caso non sono qui a parlare di me o della mia vita schifosa, che non penso interesserebbe a nessuno. Sono qui a raccontare di Yang, un italo-cinese che quella sera stava tenendo una specie di teatrino, da Hans.
Appena entrato lo notai subito in un angolo, a quello che era solitamente il tavolo mio, di Jack e di Buck, fedeli compagni di chiacchere depresse e bevute. Un piccolo manipolo era tutto intorno a lui, che pendeva letteralmente dalle sue labbra.
Guardai Hans con aria interrogativa. Lui mi rispose con un’alzata di spalle, tirando fuori una doppio malto bionda. Ormai non aveva più nemmeno bisogno di chiedere. Sapeva esattamente cosa avrebbe preso ciascun suo cliente, le facce erano sempre quelle.
Chi altro mai dovrebbe venirci in questo buco di fogna di posto?
Buttai due dollari sul bancone e presi una sedia, per andare a sedermi assieme alla piccola folla attorno a quello strano individuo.
Stava parlando di una donna che cercava, la donna di cui si era innamorato. Ma non la cercava per amore, la cercava per disperazione. Parlava l’inglese meglio di un indigeno, notai. Solo qualche lieve inflessione tipica dei suoi paesi d’origine.
Ma ogni cosa al suo tempo, meglio cominciare dall’inizio.
Diedi una gomitata a Buck, che mi salutò con un sonoro rutto. Alle nostre spalle si sollevò un piccolo applauso, che spinse il mio amico ad alzarsi a braccia aperte per raccogliere la piccola ovazione in suo onore, prima di risedersi.
“Ha appena iniziato, lo stramboide” mi sussurrò. “Non me ne frega un cazzo, ma tanto per stasera non avevo programmi migliori” aggiunse, tornando a fissare Yang.
Che nome strano, Yang. Non ci sono abituato a musi gialli da queste parti. Al massimo capita qualche messicano, coi loro cappelloni e baffi ridicoli, ma di norma sempre i soliti quattro gatti. Per questo uno straniero attira sempre molta più attenzione che non in una grande città, dove il viavai anche solo di turisti è di gran lunga maggiore.
Così iniziai a sorseggiare la mia birra e ascoltai la storia più incredibile di tutta la mia vita.
Il suo nome era Xiang Yang, era un contabile per un’azienda di fuochi d’artificio, in Italia. Suo padre era emigrato nel secondo dopoguerra e aveva sposato un’italiana. E così quel bastardo venne alla luce.
Perse un sacco di tempo a raccontare della sua infanzia, di quanto fosse bravo con i numeri e di come fosse sempre stato attratto dall’arte, ma di questo non ce ne fregava niente.
Conobbe una ragazza, Alice, di cui si innamorò. La giovane non era ben vista, in quanto era un’emarginata e spesso dava segni di squilibrio. Però, a sua detta, era una pittrice eccezionale.
La conobbe ad una mostra, a Torino. Erano esposti alcuni suoi quadri, e Yang non potè che rimanerne rapito. Sembravano vivere di una vita propria. Erano realtà almeno tanto quanto quella che ci circonda.
Così le chiese di uscire e dopo qualche tempo iniziò a frequentarla più assiduamente, potevano considerarsi assieme a tutti gli effetti.
Sapeva di aver trovato la donna della sua vita. La amava e di sicuro l’avrebbe sposata, per quanto ne dicessero i suoi genitori. Non avrebbe sentito ragioni.
Mentre parlava mi sembrava di rivivere quelle scene, era senza dubbio un buon narratore, doveva averlo raccontato già molte altre volte. Infatti penso nessuno di noi credette ad una sola parola di quello che ci disse. Ma tutti l’ascoltarono più che volentieri. Un simpatico diversivo alla monotonia della vita di tutti i giorni.
Il momento in cui la sua vita iniziò a finire, disse, fu quando Alice gli rivelò, o meglio gli mostrò, un segreto. Un piccolo pastello a punta, nero, che lei diceva avere proprietà magiche. Ovviamente Yang non ci aveva creduto, come ogni persona realista che si rispetti.
“Quel giorno venne da me e disse” illustrava il cinese con fare da bardo, “-ti devo mostrare una cosa, una cosa magica-“. Calcò l’intonazione sull’ultima parola.
“Io ero talmente innamorato che avrei creduto a qualunque cosa fosse uscita dalla sua bocca, così annuii e le chiesi di mostrarmi questo oggetto prodigioso. Tirò fuori un pastello, una specie di carbonella, nero pece. Mi guardò dritto negli occhi. Aveva due iridi di un colore stupendo, quasi violaceo. -Con questo io posso togliere la vita- mi sussurrò prendendomi le mani, -ma non come pensi tu-. Io, che mai mi ero lasciato incantare da maghi e stregoni, ovviamente non credetti ad una sola parola del suo racconto, nonostante l’amassi.”
“Come ovviamente noi non crediamo ad una parola del tuo” mi bisbigliò Buck, che ormai era alla terza birra.
“Vacci piano spugna, se non vuoi che tua moglie ti prenda a padellate” risposi amabile al mio amico.
Yang aveva ormai ingranato e non si fermava più nemmeno per sorseggiare il bicchiere di Martini mezzo vuoto che aveva davanti.
“Vaneggiava su come avesse disegnato degli animali con quel pastello. Di come la sua mano pareva essere guidata mentre solcava il foglio bianco. Linee, curve, dettagli. Il disegno nasceva in modo confusionario per poi essere chiaro e definito alla fine. Non seguiva alcun ordine logico quell’atto di creazione. Li accumulava nel suo album, ed ogni volta che ci vedevamo me li mostrava orgogliosa. Mi raccontò della prima volta.
Il silenzio era assoluto, nessuno osava fiatare. Parevamo una classe di bambini durante l’ora della maestra più cattiva, quella che se non stai zitto ti prendeva a righellate sulle chiappe. Parlo dei miei tempi, quando la scuola aveva ancora una parvenza di serietà. Non come ora, con teppisti che non si fanno troppi problemi a sputare in faccia ad un insegnante. Per non parlare dei genitori. Genitori che prendono le difese del figlio delinquente, piuttosto che ammettere di essere un fallimento come padre o madre.
“La prima volta che accadde fu con un pettirosso. Un piccolo uccello abbastanza comune in Italia. -Era lì appoggiato sulla ringhiera del balcone- disse, -e ho deciso seduta stante di immortalarlo, era bellissimo, e mi guardava-.  Così prese un foglio bianco, il suo pastello nero ed in pochi attimi l’immagine del piccolo volatile era fedelmente riprodotta. -Volevo mostrarlo immediatamente a mia madre, così presi il foglio e mi alzai, dimenticandomi che vi avevo appoggiato sopra un bicchiere d’acqua- mi spiegò, -e il danno è stato irreparabile, il disegno completamente rovinato, il foglio zuppo-. Prese fogli di carta assorbente e carta igienica per provvedere al disastro, e lì per lì non si accorse del vero uccellino, posato sul davanzale. Solo la mattina dopo lo vide, quando aprì la porta del balcone. Era lì immobile, ancora bagnato fradicio, innegabilmente morto.”
Noi altri spettatori ci scambiammo occhiate dubbiose.
“Stai dicendo che era morto allo stesso modo del disegno?” avanzò qualcuno degli ultimi arrivati. “Va bene che siamo già al secondo o terzo giro, qua, ma mi sembra che tu stia esagerando”.
“Non pretendo che voi ci crediate” replicò Yang, sempre serafico, “fatemi finire almeno, me l’avete chiesto voi di raccontare”.
Borbottii di protesta, rumori di bicchieri che toccavano il tavolo.
“Ebbene si, questo era quello che sosteneva lei” riprese il nostro intrattenitore, “ma io me ne convinsi solo molto dopo, quando gli incidenti furono fin troppo evidenti per poter essere ignorati”.
“Un giorno, di ritorno dal lavoro, passai a trovarla. Era il giorno del nostro secondo anniversario. Cioè, due anni che stavamo assieme, non eravamo sposati. Feci tappa dal fioraio per un mazzo di rose bianche, le sue preferite e mi presentai a casa sua. Mi diedi una rapida sistemata ai capelli mentre aspettavo che qualcuno venisse ad aprirmi all’uscio. Si presentò la figura di suo padre, dicendo che Alice si era chiusa in camera da ore e non accennava ad uscirne. Preoccupato corsi alla porta della sua stanza. Bussai piano, dicendo di aprirmi. -Vattene, non voglio parlare con nessuno- disse la sua voce dall’interno, rotta dal pianto, -lasciatemi sola!-. Potete immaginare il mio stupore. E potete anche supporre che pensai di essere io l’oggetto di tale depressione, era il nostro anniversario, dopo tutto. Ma insistere quel giorno non valse a nulla, me ne dovetti tornare a casa senza averla vista. Lasciai il mazzo di fiori fuori dalla sua porta. La conoscevo abbastanza bene da sapere quando non c’era speranza di dialogo.”
Un altro rutto risuonò per tutto il bar, gutturale. L’artefice, come il mio amico, si alzò stringendo i pugni ostentando un sorriso di trionfo. Uno scroscio di applausi, a cui mi unii. Hans, ridendo come un matto, ci redarguì da dietro il bancone: “silenzio, maiali! Abbiamo ospiti stasera”.
Aveva sempre un aspetto serio il nostro sfornabirre, ma ci gioco una palla che quel lavoro lo divertisse come un pazzo. Con elementi come noi sotto gli occhi tutti i giorni, le risate non mancavano.
Yang, tutt’altro che infastidito da questi brevi intermezzi, riattaccò a parlare.
“Lo venni a sapere la settimana successiva, quando Alice decise di rompere il suo silenzio. Quel giorno iniziai ad avere paura di lei. Mi raccontò tutto in dieci minuti scarsi, senza quasi ricordarsi di respirare. Arrivò alla fine che era diventata rossa come un peperone.”
Pronunciò quest’ultima parola con accento forzatamente italiano, facendoci scoppiare a ridere. Pizza, mafia e mandolino aggiunse subito dopo, sapendo che quella era l’Italia all’estero, per vedere le nostre reazioni. Ovviamente noi tutti, con una sbronza incipiente, sghignazzammo facendoci andare di traverso la birra e sputacchiando in giro. Sorrise soddisfatto, ma comunque riacquistò subito un tono serio, per ridare credibilità a quello che ci stava raccontando.
“Stava con un ragazzo italiano, prima di avere me. Si chiamava Lorenzo. Non so molto di lui, se non che ci litigava molto spesso, anche dopo che il loro rapporto aveva avuto fine. Lo aveva disegnato, con quel pastello. Mi mostrò il disegno, poco più che uno schizzo, nulla di preciso. Sopra la testa una freccia con su scritto ‘Lorenzo’. Un disegno normalissimo, direte. Eccezion fatta per un piccolo dettaglio. Una linea netta era fatta a cavallo del braccio sinistro e della gamba sinistra. Mi disse che Lorenzo era stato trovato morto dissanguato, in casa sua. Con quel braccio e quella gamba recisi di netto, come da una scure. Ovviamente non ci credevo, tutto era troppo assurdo. Il giorno dopo mi recai a casa della sua famiglia, che mi confermò quanto detto dalla mia fidanzata. -E’ una strega! Quella puttana! Quant’è vero Iddio un giorno la ammazzo!- furono le uniche parole che mi vennero dette quando esposi il motivo della mia visita.”
“E noi dovremmo crederci, CinCian?” biascicò un tizio lì davanti, ormai talmente brillo da non riuscire nemmeno a stare seduto.
“E non è tutto qui” continuò il cinese, “non vi ho ancora detto perché mi trovo quaggiù, nel Texas.”
“E non ce ne frega un cazzo!” disse un’altra voce, ancora più disarticolata della prima. Mi chiedo come faccia la gente a ridursi così. Mentre parlava, si tappò la bocca con le mani, reprimendo un conato di vomito improvviso. Corse in bagno, trattenendo a stento la sostanza giallastra che gli colava dalla dita. Che schifo.
Yang riprese.
“Dicevo, dopo quel giorno, il mio rapporto con Alice diventò una farsa. Io avevo paura di lei, e lei lo sapeva. Non riuscivamo più a parlare, sapendo entrambi quello che lei aveva fatto al suo povero ex. Dopo qualche mese lei sparì, di punto in bianco. Senza dirmi niente. Fu suo padre a rivelarmi che era partita per l’America, forse per il Texas, forse per il Vermont, non lo sapeva nemmeno lui. Era sollevato nel non dover più provvedere a sua figlia, gli era sempre pesato. Trovai il suo pastello nero in camera, per terra. Lo raccolsi e lo gettai nell’immondizia, appena uscito da casa sua.”
“E tutti vissero felici e contenti” mi permisi di dire, adocchiando l’orologio e convincendo me stesso ad alzarmi per tornare a casa.
“Un attimo, non ho finito, non ho ancora detto cosa mi spinse a seguirla qui…” esclamò Yang, guardandomi come a dire: risiediti, lo so che non vuoi tornare a casa. Seguii il suo tacito consiglio.
“Prima di uscire di casa chiesi a suo padre dell’album dei suoi disegni. Che fine avesse fatto. Mi disse che l’aveva buttato, ma aveva tenuto solo un disegno, un disegno raffigurante noi due, me e lei.”
Tutti i nostri sguardi fissi su di lui.
“Adesso capite come mai io sia qui” concluse tirando fuori un foglio mezzo sgualcito dalla tasca. Noi tutti ci accalcammo al suo tavolo per vedere. Era una figura stilizzata, una donna. Una freccia sopra la testa recava la scritta: “Alice”. Una linea orizzontale divideva la testa dal resto del corpo.
“Alice è stata trovata morta, qualche giorno fa, con la testa staccata dal corpo. Si trovava in un motel da quattro soldi, qui vicino, ‘Da Billie’, con la matita con cui aveva tracciato la linea ancora in mano.”
“Ah il vecchio Bill” rise uno degli spettatori, “ci porta più puttane lui in quelle stanze che tutti i suoi clienti messi assieme”.
Poi, vedendo che nessuno rideva alla sua battuta di cattivo gusto, abbassò lo sguardo, arrossendo. O forse era già rosso per l’alcool. Dettagli.
“Ma come vedete, questo non è il disegno intero, qui io non ci sono” riprese Yang.
“Devo trovare l’altra metà, dove ci sono anche io. Prima che la trovi un cane e ci caghi sopra. Morire annegato nella merda di cane non è una delle esperienze che vorrei fare, ecco. Quindi, se mai doveste vedere un disegno del genere, per favore, fatemelo sapere, mi potete trovare da Billie, per ora. Sono convinto che sia da queste parti, alla fine Alice è morta qui. Non può essere lontano. Detto questo, signori, io ho finito. Buona serata.”
E senza aggiungere altro, buttò una manciata di spiccioli sul bancone ed uscì dal locale, lasciandoci tutti a bocca aperta. Guardai Buck negli occhi. Anche lui non aveva parole, quel racconto ci aveva shockato. Almeno a noi, dato che eravamo rimasti abbastanza sobri. Altri si stavano ancora rotolando dalle risate, incapaci di trattenerle.
Hans era tornato alle sue solite mansioni e stava asciugando bicchieri, quando decisi di salutare quei pochi che tra quelli mi erano amici e rincasare.
“Salutami Helen” mi urlò dietro il polacco, mentre ero già fuori con un piede, “dille che ha un bel culo”.
Si come no, magari.
Una volta acceso il motore della mia Ford Anglia, stetti un attimo fermo, seduto lì al posto di guida, a pensare alla storia di quel tizio. Quante cazzate.
Ce n’è di gente strana a questo mondo, ma un cinese italiano che ha paura di un disegno li batte tutti, pensai mettendo la prima.
Non mi pare di aver mai sentito di nessuna Alice morta da Billie recentemente. Voleva solo un po’ di attenzione e compagnia, quel povero diavolo.
Prima di tornare da mia moglie deviai da Ted, che aveva un negozio di alimentari ad orario continuato giusto a nemmeno due isolati da casa mia. Entrai e lo salutai, come sempre.
“Dammi una bottiglia di latte, Ted, la balena ha sete” gli dissi tirando fuori un dollaro dal borsellino.
“E diamogli da bere, allora” rispose lui, passandomi quello che gli avevo chiesto.
Bravo giovanotto quel Ted. Non erano nemmeno due anni che lavorava lì, ma già quasi tutte le persone del quartiere lo adoravano. Ci sapeva fare con la gente quel ragazzo.
Rimontai in macchina e mi diressi a casa, senza accorgermi del foglio che calpestai uscendo.
Un urlo, secco, nella notte.
Con un brivido insensato lungo la schiena, rimisi in moto e partii.
Che cazzo di storia.
  
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