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Autore: TheSandPrincess    11/01/2014    2 recensioni
«Portami via» gli aveva sussurrato, guardandolo con quegli occhi scuri e così profondi – tanto profondi che ogni volta che la guardava aveva paura che vi sarebbe caduto dentro, e non sarebbe mai più riuscito a uscirne – e lui, cieco, aveva esaudito la sua richiesta.
L’aveva presa per mano, nelle tenebre che regnavano indisturbate in quella reggia senza finestre dopo il tramonto del sole, e aveva lasciato che lei lo guidasse attraverso le sale dalle pareti affrescate con immagini di un mondo perfetto ed impossibile, offuscate dal mantello nero della notte.

[Adderhead!centric | Adderhead/Violante's mother ♥]
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Testa di Serpente
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La pelle di un serpente.
 
 
 

 



 
“He hadn’t been born with the skin of a serpent”
Inkdeath, page 639
 
 


 


 
«Portami via» gli aveva sussurrato, immersa nella luce della Sala dalle Mille Finestre, con lo sguardo rivolto verso l’orizzonte.
La sua voce gli aveva accarezzato il cuore, e la sensazione di quelle labbra rosee tanto vicine alle proprie l’aveva inebriato, accendendogli nel petto un fuoco che sembrava consumarlo lentamente.
Le aveva promesso, mentre quel fuoco – un fuoco che ardeva per lei - lo divorava dall’interno, accarezzando con mano tremante quei suoi lineamenti tanto delicati da far temere che potessero andare in pezzi da un momento all’altro, che l’avrebbe portata via da lì, lontano, dove nessuno mai sarebbe potuto venire a riprenderla.
E i suoi occhi scuri, nella luce di sangue del tramonto, si erano accesi di speranza.
Le aveva mormorato, in quella luce vermiglia, intrecciando le proprie dita con quelle pallide e sottili della ragazza, che l’avrebbe portata alla Rocca della Notte, dall’altro lato della Selva Senza Vie, e che lì avrebbero regnato insieme, per sempre. Aveva dipinto con la voce, quella voce profonda e roca, che raramente utilizzava, immagini del futuro che li aspettava, varcate le mura di quel castello, immagini tanto fragili da svanire ogni volta che lei cercasse di vederle più chiaramente, ma allo stesso tempo infinitamente più belle di quelle che adornavano le pareti del castello in cui era cresciuta – immagini che parlavano di vita, al contrario di quelle sempre immobili che l’avevano accompagnata per tanti anni, unico pallido riflesso di tutto ciò che l’aspettava fuori da quelle mura scure e minacciose.
«Portami via» gli aveva sussurrato, guardandolo con quegli occhi scuri e così profondi – tanto profondi che ogni volta che la guardava aveva paura che vi sarebbe caduto dentro, e non sarebbe mai più riuscito a uscirne – e lui, cieco, aveva esaudito la sua richiesta.
L’aveva presa per mano, nelle tenebre che regnavano indisturbate in quella reggia senza finestre dopo il tramonto del sole, e aveva lasciato che lei lo guidasse attraverso le sale dalle pareti affrescate con immagini di un mondo perfetto ed impossibile, offuscate dal mantello nero della notte.
Sperava forse di trovare quei colori brillanti, quelle creature fantastiche, quella pace surreale, fuori dalle mura del castello? No, non era mai stata una stupida. Quello che cercava, e che solo il mondo al di là di quei dipinti poteva offrirle, era tutto ciò da cui i menestrelli di suo padre avevano cercato di metterla in guardia, giorno dopo giorno, ora dopo ora: cercava il pericolo, la paura, l’odio, il dolore. Cercava il lato oscuro, perché aveva capito che solo il buio può dare un senso alla luce.
E forse era stata proprio questa sua ricerca ad attrarla tanto a lui. Forse, erano state le ombre sul suo volto a farle battere più forte il cuore, ogni volta che lui le si avvicinava. Forse, erano state le tenebre che aveva intravisto nel suo cuore, e che per lei – solo per lei – si erano rifugiate nell’angolo più remoto di esso, per far posto a quel fuoco che lei stessa gli aveva fatto divampare nel petto, a stregarla.
«Guglielmo…» aveva mormorato, quando ormai la libertà era tanto vicina da poterne sentire l’odore, che filtrava nello stretto tunnel sotto al lago assieme alla pallida luce della luna, fermandosi improvvisamente.
Lui si era voltato, percependo la nota di insicurezza che le incrinava la voce, assieme a tutta la debolezza che mai prima d’allora aveva lasciato trapelare.
«Lo so» le aveva risposto, spostandole dietro le orecchie i capelli d’ebano, tanto sottili e morbidi, che si rifiutava di portare legati. E l’aveva guardata, per attimi interminabili, permettendosi per la prima volta di sprofondare in quei suoi occhi bui, perché lei potesse leggere sul suo volto ciò che lui stesso non sapeva come esprimere. Sapeva quanto fosse difficile per lei, nonostante non desiderasse altro, lasciare quella che per tanto tempo era stata la sua casa. Sapeva che non fosse affatto sicura di quello che avrebbe trovato una volta varcata quella soglia, e sapeva che quel mondo che per tanto tempo aveva sognato, guardando fuori dalle finestre della sua prigione affrescata, le faceva paura.
«Fidati di me» le aveva sussurrato, stringendo le sue mani delicate, che altro non avevano fatto che sfogliare libri, assetate di parole in grado di farla volare oltre le mura che tanto a lungo l’avevano tenuta prigioniera, e lei aveva annuito, cercando di ritrovare quel contegno che tanto la caratterizzava.
Lui aveva sorriso, lasciando che la luna eliminasse le ombre che gli decoravano il volto, e l’aveva baciata. Per la prima volta. E quel fuoco dentro di lui aveva ruggito, come una belva tenuta in gabbia che avesse finalmente ritrovato la libertà.
L’aveva baciata, e quell’attimo era sembrato eterno, diverso da tutti gli altri che fino a quel momento avevano composto la sua storia.
Chissà se lei si era sentita allo stesso modo.
Chissà se anche lei, nel guardarlo, sotto la luce argentea della luna, aveva pensato che non vi fosse vista più bella al mondo. E chissà se anche lei, quando erano saliti sul suo cavallo nero come la notte, aveva provato quello stesso senso di onnipotenza che gli aveva pervaso il cuore.
Non c’è nulla di più tossico dell’amore.
Tante volte suo padre gliel’aveva ripetuto, tante volte l’aveva messo in guardia da quel sentimento che spesso faceva da protagonista nelle canzoni dei menestrelli, che portava la gente a compiere imprese folli, che avvelenava la mente e impediva di pensare come si deve.
Tante volte si era ripromesso che mai e poi mai sarebbe caduto in una trappola simile.
Troppo tardi si era reso conto che vi era invece sprofondato già da tempo, fin dal giorno in cui per la prima volta aveva posato gli occhi su quella ragazza dalla pelle chiara come le pagine dei libri che tanto amava e gli occhi neri come l’inchiostro che li riempiva di vita.
Che ingenuo era stato, a pensare di poter amare senza pagarne il prezzo!
Che ingenuo, a pensare che il fuoco che gli ardeva nel petto, e che gli dava energia e forza ogni giorno, non l’avrebbe mai bruciato, a credere di aver finalmente capito cosa fosse la felicità di cui tanto parlavano le canzoni e che mai nessuno era riuscito a descrivergli con chiarezza!
Come aveva potuto lasciare che la profondità di quegli occhi scuri lo facesse prigioniero, impedendogli di vedere la realtà? Come aveva potuto affidarsi in modo tanto incondizionato, senza neanche pensarci due volte? Come aveva potuto lasciare che tutto questo accadesse, senza fare nulla per impedirlo?
Ma soprattutto, come aveva potuto lei ferirlo in questo modo?
Come aveva potuto lei donare il suo amore, quell’amore che per tanto tempo era stato il suo faro nell’oscurità, il percorso da seguire ogni volta che si fosse perso nei meandri del proprio essere, a un altro uomo? Come aveva potuto concedersi a qualcun altro, quando aveva promesso che sarebbe stata sua per sempre? Come?
Erano domande senza risposta, che lo tormentavano, togliendogli il sonno, danzandogli attorno come demoni fatti di parole, ridendogli in faccia, facendogli sentire, per la prima volta in vita sua, di non essere all’altezza della situazione.
Le aveva combattute senza sosta, chiedendosi come fare a ritornare indietro nel tempo, per cercare di cancellare quella macchia indelebile che per sempre avrebbe rovinato le pagine del libro che era la sua vita, per cercare di dimenticare il dolore, la rabbia, il rancore.
«Sua moglie Giuliana è incinta, Altezza» gli aveva rivelato un giorno un medico, con aria grave.
Incinta. Di chi? Si era chiesto, stremato. E aveva letto negli occhi del medico la stessa domanda.
Il giorno dopo il suo corpo dondolava dal patibolo.
Era stanco di essere lo zimbello del regno, per il modo in cui la sua donna aveva preferito a un altro a lui. Era stanco del dolore, stanco della rabbia, stanco dell’odio, stanco della nostalgia dei tempi passati.
Era stanco di provare qualcosa, perché avere un cuore sembrava portare solo all’autodistruzione.
Così, aveva smesso di utilizzarlo.
Giorno dopo giorno, si era esercitato nell’arte dell’indifferenza, riuscendo con risultati inaspettatamente favorevoli.
I suoi sudditi avevano smesso di farsi beffe del tradimento che aveva subito – bastava che qualcuno lo nominasse, ormai, perché gli venisse tagliata la lingua, con l’accusa di diffamazione – e il patibolo della Rocca della Notte si riempiva ogni giorno di nuovi cadaveri, appartenuti a poveracci finiti lassù per aver commesso i crimini più svariati.
Si era illuso, per quel poco tempo che la sorte aveva voluto lasciargli per cercare di trovare un equilibrio, di aver permanentemente cancellato ogni traccia di umanità che aveva fino ad allora addolcito la sua anima, scura per natura, come si addiceva a un membro della sua dinastia, di aver finalmente raggiunto il tanto agognato obiettivo.
Fino a quando non era nata sua figlia.
Una figlia che sembrava essere venuta al mondo con l’unico scopo di ricordargli l’affronto subito mesi prima, e che aveva fatto sì che quel cuore dato per perduto, seppur intorpidito e debole, si risvegliasse, riversandogli nuovamente in corpo quelle emozioni che per tanto tempo era riuscito a bandire.
Amore, odio, gelosia, tristezza, tradimento, gli avevano invaso il petto come se non se ne fossero mai andate veramente, come a volergli ricordare che non era altro che un semplice essere umano, in balia dei propri sentimenti, come tutti gli altri.
Solo che stavolta l’avevano trovato preparato.
Stavolta, era stato in grado di ammansire tutto ciò che in passato l’aveva sconvolto, di mettere a dormire quelle frivolezze che gli avevano fatto battere di nuovo il cuore – un cuore che si era convinto di aver sepolto nel più remoto angolo del proprio essere.
Stavolta, non aveva lasciato che fossero loro a guidarlo, come aveva fatto in passato.
Stavolta, era stato lui a guidarle, come docili cagnolini, e rinchiuderle in un cassetto della propria anima da cui mai e poi mai sarebbero più uscite.
«Chiudete sia lei che sua madre nella Vecchia Camera» aveva ordinato al medico che era venuto a portargli la notizia dalle nascita della sua primogenita, con voce tanto inespressiva da non sembrare umana «E che nessuno le visiti»
Il medico aveva annuito, tenendo la testa bassa, forse per non mostrare il proprio stupore al sovrano, ed era corso via sulle sue gambette tozze.
E probabilmente era stato allora che il principe Guglielmo aveva cessato di esistere.
Probabilmente l’aveva segregato in un angolo lontano assieme ai propri sentimenti dimenticati, nello stesso modo in cui aveva rinchiuso in una stanza remota del castello sua moglie e sua figlia, o forse era stato lui stesso a fuggire via da quel corpo, da quelle azioni in cui non si riconosceva più.
In ogni caso, nessuno l’aveva più visto, da allora.
Certo, l’uomo che adesso sedeva sul trono era in tutto simile a quello fino a poco prima aveva occupato quella posizione di massimo potere, mormoravano i suoi sudditi, stando bene attenti a non farsi sentire dalle mille spie che ormai entravano e uscivano dalla Rocca della Notte, pronte a vendere l’anima di qualche povero disgraziato per poche monete d’argento, ma risultava difficile credere che fossero la stessa persona.
Possibile che quel principe dal volto dipinto di ombre, capace di amare nonostante fosse nato con le tenebre nel petto, si fosse trasformato nell’abomino che ora li governava, mandando i loro figli a morire nelle miniere d’argento, uccidendo i loro mariti per i motivi più svariati, lasciando che i soldati si approfittassero delle loro donne? Non avevano forse sempre saputo che un giorno l’oscurità della sua anima avrebbe avuto il sopravvento sulla luce che l’amore gli aveva portato?
Così cantavano i menestrelli, stando attenti a non essere uditi da orecchie indiscrete. Così descrivevano i dolori della popolazione di Argenta, gli occhi rossi dal pianto delle donne, i polmoni pieni di sangue dei bambini, le mani mozze degli uomini, e i cadaveri che continuavano a dondolare dal patibolo.
Dicevano che il principe Guglielmo, sopraffatto dal dolore, si fosse rifugiato nelle pieghe della propria anima, lasciando che le tenebre che da sempre lo caratterizzavano, e che la sua bella Giuliana era sempre riuscita tanto bene a tenere a bada, avessero il sopravvento, nella speranza che lo avrebbero protetto da altre sofferenze. Aveva lasciato che lo avvolgessero completamente, che gli facessero dimenticare chi era stato fino a quel momento, in cambio di protezione.
E le tenebre, che provenivano da dentro di lui, ma allo stesso tempo erano tanto più potenti di quanto non avesse immaginato, avevano accettato l’offerta. Gli si erano attaccate alla pelle, centimetro dopo centimetro, nascondendola alla luce, e rivestendola di un nuovo manto, tanto orrendo quanto invidiabile.
Gli avevano donato la pelle di un serpente.



















 


Yaw.

Poco più di duemila parole per esplorare il mondo nascosto dietro ad una singola frase di Inkdeath, che mi ha colpita dritta al cuore.
Perchè quel «Non era nato con la pelle di un serpente» ci dice così tanto sull'Adderhead, senza in realtà svelarci nulla, che non ho potuto fare a meno di passare un po' di tempo a rimuginarci sopra e chiedermi «Ma quindi, perché è diventato così?»
E questa è la risposta che mi sono data. Una risposta che, me ne rendo conto, forse non spiega proprio tutto, ma per riuscire davvero a vedere con chiarezza tutto ciò che ha spinto un personaggio tanto complesso come quello dell'Adderhead a diventare quello che è ci vorrebbe come minimo un libro!
Siccome non ci viene mai detto il suo nome, ma la Funke dice chaiarmente che ne aveva uno prima di assumere il soprannome di Testa di Serpente, e che è con il suo nome di battesimo che lo chiamano le White Women quando in Inkdeath vengono a prenderlo, mi sono presa la libertà di dargli come nome Guglielmo, perchè, per qualche motivo che io stessa non riesco bene a spiegarmi, trovo gli si addica. Stesso vale per la madre di Violante, figura assolutamente anonima nei libri, che io ho tentato di caratterizzare nel miglior modo possibile, pur essendo ben cosciente che questa è semplicemente la mia interpretazione :)
E nulla, spero davvero che vi sia piaciuta! :D

-TheSandPrincess-
  
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