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Autore: Dzoro    12/01/2014    0 recensioni
Gesù gli domandò: «Qual è il tuo nome?» 
Egli rispose: «Il mio nome è Legione, perché siamo molti». 
Cosa fareste se vi svegliaste una mattina senza ricordare nulla delle vostre ultime 24 ore? E se trovaste sulla vostra porta le foto di degli uomini che non avete mai visto, e la scritta "stanno per morire?" 
Per fan di: Death Note, Twin Peaks, Dylan Dog, Dario Argento, Una Notte da Leoni, Il Grande Lebowski, il rock psichedelico e la crostata di ciliegie.
 
Genere: Horror, Suspence, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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For We Are Many

Stagione 1

Capitolo 9: La sorgente del Lete



Martedì 25 ottobre, 4:00

Non ricordavo di quando ero diventato un coniglio. La cosa però non pareva darmi fastidio, non tanto quanto il fatto che non trovavo più la mia tana. Correvo per la foresta, in cerca della porta con il lucchetto, che ero sicuro portasse alla mia dispensa di carote. Per qualche strano motivo, le foglie delle carote erano, nella mia immaginazione, quelle della marijuana. Dagli alberi pendevano enormi grappoli di gamberetti maturi, ogni tanto mi capitava di calpestarne uno, spiaccicandolo irrimediabilmente, con un rumore viscido e crocchiante. Arrivai al tavolino di ferro battuto, ma non c’era nessuno. Solo la teiera, e una tazza di te fumante. Mi sedetti, e mi accorsi che era per me impossibile bere, data l’assenza di pollice opponibile sulla mia mano. E poi quello non era te, ma spezzatino. Vicino a me,  c’era un manzo con una fascia con sopra la bandiera giapponese.

“Quello è mio cugino!” strillò, indicando con la mano ungulata la tazza.
“Zitto, i manzi non parlano!” gli disse il coniglio. Che stupido, non me ne ero accorto mica che non ero io il coniglio: il roditore era già seduto al tavolo, intento a sorseggiare il suo spezzatino. Continuai a cercare la tana, avevo una voglia fottuta di carote.
“Dunque è questa la potenza dello spezzatino.” Diceva intanto il manzo, esaminando la tazza fumante. “Cugino-sama… diventerò più forte!”
Trovai il lucchetto per terra. Chiudeva una porta di metallo, che mi ci volle un po’ per riconoscere per quello che era: un bagagliaio di una volvo sotterrata. Avevo la chiave in mano: aprii il lucchetto. Dietro al bagagliaio, si trovava un cunicolo, che scendeva tanto in profondità che non riuscivo a scorgerne il fondo. Io mi ci infilai, e lo percorsi, scendendo sempre più in profondità. Arrivai in una caverna, con le pareti ricoperte da carta da parati sgualcita. In un angolo, un enorme figura pelosa dormiva, russando sonoramente. Mi sentì raggelare: ero finito nella tana dell’uomo maiale. Nonostante la paura, ero tanto stanco. Mi sdraiai vicino a lui.
 
Mi svegliai che fuori era ancora buio. Avevo la faccia spiaccicata contro il pavimento di legno, e un filo di bava che usciva dalla mia bocca aperta. Alzandomi, staccai a fatica la guancia dal legno, e passandoci una mano sopra la scoprii piena delle righine orizzontali della superficie del pavimento. Per qualche strano motivo, ero riposatissimo, e non mi faceva male da nessuna parte. L’unica cosa sgradevole era il mio alito: riuscivo a sentirlo io, doveva essere pestilenziale. Zio Charlie era impegnato a cucinare qualcosa, che dall’odore immaginai essere uova. Mi avvicinai.
“Buongiorno.”
“Salve a te, pellegrino. Dormito bene?”
“Non male, considerato che sono svenuto su un pavimento.”
“L’erbetta di Zio Charlie tende a fare questo effetto, la prima volta.”
“Cosa cucini?”
“È… cioè, sono… beh, non ne ho idea.” Rispose lui, rimestando quelle che sembravano delle uova strapazzate.
Grattandomi, lanciai un occhiata in cerca dei miei vestiti. Già, ero ancora nudo. Il mio samsung giaceva ancora per terra, vicino ai miei jeans. La sua comparsa nel mio campo visivo esplose in faccia come un fulmine  a ciel sereno. Subito saltai addosso a Zio Charlie.
“Chi mi ha chiamato ieri sera? Perché hai risposto?” gli urlai in faccia, ricordandomi di tutto, di quella frase, pronunciata dal jamaicano con in mano il mio cellulare, che solo il più fenomenale spinello della mia vita avrebbe potuto farmi dimenticare.
“Coola man, eri in bagno, il cellulare non smetteva di suonare. Era piuttosto agitato il tuo amico, sai? Non smetteva di urlare. Puoi rivestirti, per favore? Mi metti a disagio.”
“Oh mio…” mi gettai contro il cellulare. Come sospettavo, nel registro delle chiamate ricevuto l’ultima era di Carlo. Ventitre e trenta, mentre ora erano le quattro. C’erano anche almeno una decina di chiamate senza risposta, per tutta la notte. Non le avevo sentite nemmeno per sbaglio. Mi resi conto solo allora che quella ganja mi aveva ridotto veramente male, non avevo idea fosse passato tanto tempo. Aveva fatto effetto per quasi dodici ore, il che significava che la mia percezione del tempo si era completamente sfasata, da quando ero entrato nella baita. Lo chiamai, prima di rendermi effettivamente conto che erano le quattro di mattina, e che forse lui si trovava a letto. Ma lui rispose lo stesso.
“Zeni, ma dove eri scomparso?” fu la prima cosa che mi disse. La sua voce era isterica.
“Lascia stare, ho avuto una nottata da dimenticare.” O da ricordare. “È successo qualcosa a Nasolini?”
“Ma non eri te ieri sera? Chi mi ha risposto?”
Lanciai un occhiata verso Zio Charlie: stava pulendo la padella dalle uova, con un grosso pezzo di pane, masticando rumorosamente.
“Sono con un amico, non avevo il cellulare a portata di mano, ha risposto lui. Ma che ti succede sembri…” hai una voce strana. Sei spaventato, Carletto. Ti trema la voce.
“Stammi a sentire, avevi ragione. Avevi ragione, ma non è stato un omicidio!”
“Cosa? Cosa vuoi dire? È..?”
“Morto, morto e sepolto! Ero riuscito ad entrare nell’allevamento di notte, e il guardiano mi aveva detto che avremmo potuto parlarci non appena finiva il suo giro per i porcili. Alle undici, Nasolini ancora non si vede, e i maiali stanno facendo un baccano incredibile, così lo andiamo a cercare, e…” la voce di Carletto si spense. Me lo immaginai, dall’altra parte, quei novanta chili di romagnolità, impallidire e tremare.
“Cosa?”
“Lo stavano mangiando. È svenuto in un porcile, e i maiali li sono saltati addosso e… Porco demonio, Zeni, gli stavano mangiando la pancia, le budella! Non sapevo nemmeno che un maiale potesse mangiare un essere umano, ma ho letto su wikipedia che possono farlo, si cono diversi precedenti. E, cazzarola Zeni, ho visto che lo facevano!”
Prima di sentire i testicoli che si ritiravano nel perineo dalla strizza, mi parve di sentire la musica di Superquark in sottofondo, probabilmente evocata da quell’ultima frase, così fuori luogo e così coerente con lo stato di paura nel quale si trovava Carletto. Terribile, ma in un qualche modo istruttivo.
“Era già morto, le sue urla devono essere state coperte da quelle dei maiali. Dio, Zeni, sembrava una bolgia infernale. Sono in piedi da ore, non riesco a chiudere occhio!”
L’ultima frase fu esattamente quello che ci voleva per gettarmi definitivamente nella paranoia più completa. L’inferno pareva non volermi più lasciare solo.
 
Al sorgere del sole, uscii dalla baita. La tempesta era cessata, ora tutto era avvolto dalla neve.
“Grazie per l’ospitalità Zio Charlie.”
“Coola man, se non ci si aiuta tra noi poveri Cristi… Torna se hai voglia di un po’ di maggiorana.”
 Mi rendevo conto che probabilmente dietro a quel Jamaicano ex professore di fisica autoreclusosi in eremitaggio a coltivare marijuana mutante su di una montagna in Trentino si trovava la più interessante delle storie. Ma non ero venuto lì per quello, e quindi, quando fu il momento di fare un ultima domanda, chiesi:
- Comunque, non ti ho detto una cosa. Il motivo per cui sono venuto qui, è per cercare…- Mi interruppi. In effetti, cosa stavo cercando? L’uomo che aveva stampato le fotografie? Il motivo, il come facesse a sapere il nome e il volto di due uomini che stavano per morire in un incidente, e forse perfino di un terzo? Oppure…
-… per cercare un posto in cui sono già stato.- anche quella era una possibilità. Non mi ricordavo nulla di ventiquattrore, nelle quali sarebbe potuto succedere qualsiasi cosa. Nelle quali era successo qualcosa, a giudicare da tutto quello che mi stava accadendo.
- Cosa intendi man? Sei già stato qui?- mi chiese Zio Charlie. La domanda mi tramutò in pietra. L’erba di Zio Charlie mi aveva gettato nel più selvaggio degli stati allucinatori. Una nuova ipotesi si fece largo nella mia testa:
- Charlie…- degluttii – Non è che io sono già venuto in casa tua? A fumare?-
Non è normale che una persona accolga così benevolmente qualcuno in casa sua. Con una tale famigliarità. Come se lo conoscesse già. Le persone normali non fanno così.
- No man, prima volta che ti vedo in vita mia.- tutto sommato, Zio Charlie non era una persona normale.
- Ma non mi hai mai visto? Andare e venire qua attorno.-
- Man, di che cavolo parli?-
- Avevo un giubbotto blu! Enorme… come l’omino Michelin!- dissi tutto di un fiato. Zio Charlie mi guardò storto. Scosse la testa. Poi, la scosse più forte, come per riprendersi dal torpore. Poi mi fissò, sgranando gli occhi:
- Eri tu?-
- Chi?- gridai, avventandomi come un pazzo addosso al poveretto davanti a me.
- Beh… tu, immagino.- rispose lui imbarazzato.
- No, aspetta, dove? Quando? Dove mi hai visto?-
- Qui vicino, man. C’è un pianoro, ci si arriva percorrendo il letto asciutto del torrente. Superi il sottobosco e sei subito arriv… ehi, aspetta, perché cavolo mi stai chiedendo come arrivare in un posto dove sei già stato?-
- Zio Charlie – lo aggredì di nuovo, ignorando la sua domanda – esistono droghe in grado di causare amnesia?-
Lui non si offese per la mia irruenza, ma solo perché la mia domanda doveva averlo parecchio intrigato.
- C’è l’imbarazzo della scelta, Man. Droga dello stupro, oppure maria tagliata con eroina… ma più o meno, ogni droga somministrata nel modo giusto può causare amnesie.-
Mi disse quello che sapevo già. Cioè che non sapevo un accidente, se non che avevo finalmente trovato il luogo dove mi trovavo quella notte, nelle mie 24 ore di buio. Immediatamente non riuscii più a stare fermo, dovevo andare: era il momento di scoprire ogni cosa.
- Devo andare, grazie di tutto!- feci, allontanandomi.
- Tranquillo man, prego. Fai il bravo.-
Charlie fece per chiudere la porta. Io lo bloccai:
- Non mi sono nemmeno presentato.- dissi imbarazzato.
- Non te l’ho chiesto.- rispose lui con nonchalance.
- Non ti interessa?-
- Coola man! I nomi sono sopravvalutati.-
- Tu mi hai detto il tuo.-
- L’ho fatto?- fece Zio Charlie, sogghignando. Poi, sparì dietro la porta.
 
Il letto del fiume era una via impervia, ricoperta di pietre. La percorsi con difficoltà, ma nel giro di mezz’ora, mi trovai davanti ad una parete rocciosa levigata dall’acqua, che probabilmente con il disgelo si sarebbe tramutata in una cascata. Alla mia destra si trovava un pendio coperto di piccoli arbusti e rocce. Lo scalai, arrancando sulle mani e i piedi. C’era un edificio in cima, un rifugio costruito in metallo. Avevo già visto costruzioni del genere, sono prefabbricati fatti per essere posizionate su superfici rocciose, come lo era quella. Un lattina extra-large di metallo opaco, squadrata e ricoperta di bulloni esposti, ammaccata dalle intemperie, fissata per terra con cavi d’acciaio e chiodi. Ero su di un pianoro roccioso, dal quale si godeva una visuale eccezionale sulla valle sotto di me. Riuscivo a vedere la segheria, il prato dove la ragazza aveva trovato la terza foto. Ce l’avevo in tasca, quella foto. Era lui il terzo che sarebbe dovuto morire.
Mi avvicinai al rifugio, e misi la mano sulla maniglia della porta, una barra di ferro piegata attaccata con delle grosse viti alla superficie dell’ingresso. Chiusa. Era chiusa da un lucchetto, e io quel lucchetto lo avevo già visto. Tirai fuori di tasca la chiave, e la infilai nel piccolo foro dentro il colossale lucchetto svedese. Clik. Boom. Girava. Ero tornato nel luogo dove era iniziata ogni cosa. La porta si aprì scricchiolando su di una stanza completamente buia: non c’erano finestre. Solo due brandine arrugginite coperte da ruvide trapunte, un tavolino di legno e una lampadina esposta, spenta. Mi dissi:
“Pensa Zeni. Pensa. Qui tu ci sei già stato, con indosso un ridicolo giubbotto bombato, dei guanti per non lasciare impronte digitali e…” ci pensai. Le foto. Le avevo con me? Perché avevo portato con me la terza, e l’avevo lasciata lì vicino?
 Entrai, e il mio sguardo fu subito catturato da un oggetto, appoggiato sul tavolo. Era argentato, affusolato, delle dimensioni di una scatola di scarpe. Era una stampante, una delle più piccole che avessi mai visto, probabilmente pensata per essere portata in giro. Mi ci chinai sopra: non era collegata alla corrente, non c’erano nemmeno prese, la dentro. Ma una fioca luce rossa, su di una spia sul davanti, era un segno chiaro che era accesa, collegata ad una batteria interna. Una sottile risma di fogli era appoggiata accanto. Uno di essi era infilato in una sottile fessura sopra la macchina. Una seconda fessura, posizionata a livello del tavolo, avrebbe fatto uscire i fogli stampati. Un cavetto per iPod pendeva da una presa usb.
“Porco cane.”
La stampante era una HP. Le due lettere spiccavano in bella vista in mezzo alla schiena argentata della stampante. Acca pi, come avevo scritto sul mio quaderno degli appunti: la marca di una stampante. Il rasoio di Okham mi trafisse e mi lasciò a sanguinare sulla mia stupidità. Era tutto così semplice.
“Ho stampato qui quelle foto. Ma perché? A cosa mi serviva?”
Osservai quella stampante, la studiai, avrei potuto descriverla a memoria in ogni dettaglio. Ma lì non c’era altro che potesse spiegarmi che diavolo stesse succedendo. Andai ai letti: rifatti, puliti.
“Non ho lasciato molti indizi, eh?”
Mi sedetti. Mi presi la testa tra le mani, me la grattai, tentando di scacciare  l’attacco di sonno che mi stava aggredendo. Mi sdraiai.
“Porco cane.”
Il soffitto, idiota, il soffitto. Era ricoperto di foto. Nove foto, con sopra nove volti di persone che non avevo mai visto. Ma che sapevo sarebbero morte. 
   
 
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