Anime & Manga > Saint Seiya
Ricorda la storia  |      
Autore: avalon9    13/01/2014    2 recensioni
Aveva desiderato. Si era illuso. Ed era precipitato. Come Icaro. Icaro. Un nome; il suo nome. Quello con cui Artemis lo aveva chiamato per la prima volta quando le ali si erano materializzate in lunghe piume flessuose intessute d’acqua e di cosmo.
Dopo la guerra nei Cieli, Touma. Riflessioni di volontà e spirazione
[primo posto al contest "Tra leggentda e realtà" indetto sul forum de Icavalieridellozodiaco.net]
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Artemide, Eagle Marin, Sorpresa
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Autore: Avalon9

Autore: Avalon9

Genere: Introspettivo, Slice of live

Personaggi Principali: Icarus Touma; Marin dell’Aquila; Artemis

Altri Personaggi: Saori-Atena e Aioria di Leo solo nominati

Rating: verde

In proposito: Aveva desiderato. Si era illuso. Ed era precipitato. Come Icaro. Icaro. Un nome; il suo nome. Quello con cui Artemis lo aveva chiamato per la prima volta quando le ali si erano materializzate in lunghe piume flessuose intessute d’acqua e di cosmo.

Disclaimer: i personaggi sono di Masami Kurumada; la situazione la rivendico come mia^^

Link di riferimento al contest: http://icavalieridellozodiaco.myfreeforum.org/about6541.html

Note: one shot; missing moments

Cose: Ho cambiato millanta volte il personaggio; ho iniziato quattro storie diverse; e le ho cestinate. Il fatto è che il promt mi piaceva; mi piaceva troppo; e non riuscivo a decidermi. Chi mi conosce sa bene che con la mitologia ci vado a nozze, e proporre un concorso con il mito per fulcro è per me come dare da bere a un alcolizzato ubriaco.

Il problema, tuttavia, era quel benedetto personaggio e quindi il mito di riferimento. Poi, mentre elucubravo a vuoto, mi sono rivista l’Overture al Tenkai, giusto per riempire uno spazio morto. È scattata la scintilla.

E questo è il risultato.

 

 

 

Dimentica la cera e le piume,

e costruisci ali più solide.

Stanley Kubrick

 

 

 

Apteros

 

 

 

 

Le ali delle gru sono bianche.

Lunghe piume fruscianti nel suono ritmico della danza; il collo elegante proteso verso l’alto. E l’incedere; quell’incedere altero e indifferente, simile allo sfilare del soldato, o all’epifania di un dio.

Hanno ali lunghe e colli flessuosi, le gru. E nel volteggiare bianco l’azzurro di zampe intessute d’oro stagliarsi contro colonne infuocate. C’è quel suono, sullo sfondo; il battere cupo e ritmico del tamburo e poi la malinconica cadenza del flauto.

Sono bianche le ali delle gru.

Lenti movimenti che scandiscono una preghiera di pace, le piume a fremere nell’aria tintinnante di aprile, il tepore del sole sulla pelle e le grandi ali aprirsi in lenti cerchi di armonia.

Asakusa Kannon lo si respira nell’odore penetrante dell’incenso, nel fruscio di seta e nella biacca di volti che invidiano compassata indifferenza con gli occhi dal taglio sottile rifiniti di nero e sulle labbra un bocciolo rosso; come lo sbuffo di sangue sulla testa della gru.

E c’è quel tamburo, il suo cadenzare lento che scandisce passi. E poi. Poi cresce, frenetico, ritmico, ossessivo, assieme alle ali, al frusciare di piume di stoffa e cartone che si agitano convulse nella piazza, fra coriandoli di petali e sbattere di braccia che ricordano il disperato tentativo di non affogare, fino all’ultimo raffinato spasmo.

Poi il tamburo tace, i campanelli si quietano; le grandi ali ripiegarsi lungo il corpo, perdendo la grazia di un istante, lo slancio armonioso di membra e corpi e mente verso il cielo, oltre il cielo.

Nel silenzio degli applausi la teoria lungo il Nakamise-dori è un brivido che stringe lo stomaco, simile alla chiazza verde che si intravede laggiù, oltre la porta Kaminarimon.

Touma respira piano.

Sulla pelle riavverte la sensazione irreale di piume e l’ebbrezza del volo nei cieli; sulla pelle indovina il ricordo dell’acqua scivolare fredda fra gli intarsi dell’armatura, lungo la tessitura invisibile delle ali che lo avevano sostenuto nella sua scalata al cielo.

E poi.

Poi c’è il bruciore. Il bruciore di una ferita che sarà sempre dolore e rimpianto; il bruciore del ricordo di una freccia che lacera carni e metallo. Il bruciore di occhi del colore pungente del cipresso, la disincantata malinconia che vi aveva imparato a riconoscere.

Artemis.

Aveva danzato per lei.

Per la sua compiacenza e per la sua vittoria; per la sfumatura di dolcezza in quella voce impalpabile, simile al mormorio di un ruscello di montagna. Aveva danzato per il suo piacere una danza di amore e dedizione, una danza di aria e argento, le vesti a frusciare nei cieli, il fremito di membra a lungo costrette all’immobilità.

Aveva danzato per lei. Come una gru.

C’era stato l’orgoglio, in quella danza, la sua consacrazione.

Negli occhi di Artemis, in quel suo primo timido volo, nel primordiale dispiegarsi delle sue ali nei cieli immoti di quel mondo fatto di torri di oricalco e xantos, Touma aveva visto riflesso negli occhi di Artemis il compiacimento e un indecifrabile senso di possesso.

Aveva amato quegli occhi.

Aveva amato la nostalgia che vi scorgeva e la violenza stanca che li incendiava; aveva amato il modo in cui lo guardavano, sospesi fra egoismo e desiderio. C’era fame, negli occhi di Artemis. Una fame profonda, viscerale, atavica. La fame selvaggia della dea che era abituata a correre libera per vette inviolate; la fame del predatore che persegue la sua preda. La circonda; e poi la divora.

Artemis era la cacciatrice; e lui. Lui era stata la preda tanto ambita, l’uomo elevato al suo fianco, l’uomo disposto ad amarla, ad adorarla. L’uomo che le aveva fatto ricordare, in quella dedizione che sfiorava la blasfemia, che era ossessione prepotente e primordiale, ferina, la sfacciataggine di altri occhi, la follia di un altro sguardo che aveva osato desiderarla.

Touma si era chiesto chi vedesse Artemis in lui.

Si era chiesto di chi fosse il corpo che immaginava di accarezzare; a chi appartenessero le ali che gli lisciava, una lenta sensuale carezza che sapeva di gesti lasciati sbiadire nei secoli. Si era chiesto se guardasse i suoi occhi nella maschera che gli celava il viso, o se cercasse altri occhi, altro desiderio, altra devozione.

Per mesi; per i lunghi mesi di quella snervante iniziazione, quanto la sola compagnia era il tintinnio doloroso di una campanella e il crepuscolo perenne di un mondo che sembrava ancorarsi con tutto se stesso ad un presente statico; per quei lunghi mesi in cui l’incoscienza e la determinazione si erano mescolati alla follia e al delirio; per quei mesi che erano trascorsi in anni e condensatisi in ore di lento stillicidio, Touma aveva immaginato.

Aveva tentato di comprendere, di intuire, il serafico distacco di quella donna, di quella dea, che lo aveva raccolto in grembo nella confusione di un delirio di febbre e sfinimento.

Aveva immaginato; e aveva odiato.

Lo sguardo di un uomo mai conosciuto; la struggente gelosia che gli divorava la mente; il passato precluso alla sua conoscenza. Il passato di Artemis; e il suo passato.

Perché c’era stato un passato, nella sua vita, prima di Artemis. Un passato fatto di tintinnio di campanelle e del crepitio di risate; un passato sbiadito con la sua determinazione, con la sua volontà di travalicare i cieli e salire ancora, fino agli dei. Oltre gli dei.

Aveva detestato quel passato.

Aveva odiato i ricordi che lo tenevano ancorato al suolo, pesante e sofferente. Aveva odiato la frustrazione per il desiderio insopprimibile per il cielo; e il dolore delle braccia che ogni volta ricadevano a terra, sempre più deboli e stanche, sempre più gonfie e sgraziate.

Aveva odiato. Se stesso e la propria incapacità.

E ci si era aggrappato come un naufrago, vi aveva affondato i denti e le unghie come una pernice che difende il nido. Desiderava gli dei, desiderava essere degno di Artemis e condividere con lei la fierezza di quegli occhi antichi che conoscono e non tremano, cui è sconosciuta l’aspirazione e la delusione.

Aveva desiderato. Si era illuso. Ed era precipitato.

Come Icaro.

Icaro.

Un nome; il suo nome. Quello con cui Artemis lo aveva chiamato per la prima volta quando le ali si erano materializzate in lunghe piume flessuose intessute d’acqua e di cosmo. Il nome con cui lo accarezzava, la voce un sospiro sottile che sapeva di pericolosa concessione.

Icaro gli aveva detto, mentre lo accoglieva nel cielo, mentre le catene d’argento si mutavano in polvere di luce e una corazza di adamante e zaffiro lo rivestiva, forte di cosmo e di libertà conquistata.

Icaro aveva ripetuto Artemis, nel fulgore del cosmo e della luna. Questo sarà il tuo nome. Perché mi sei sacro aveva sussurrato in una carezza leggera che sapeva di nostalgia e un sorriso antico come falce di luna.

In quel volo era morto; ed era rinato.

“Touma.”

La Ko-Omote lo osserva, il disegno sottile degli occhi sfuma nel bianco e il bocciolo rosso delle labbra possiede un miscuglio di conturbante grazia e di piccata insofferenza.

Touma sorride.

Marin. Dietro il sorriso nero della maschera, nella punta di apprensione nella piega del mento , nei petali intrappolati nei capelli, c’è Marin. C’è sua sorella.

Neesan.

Touma soffia la parola fra le labbra. Non l’ha ancora chiamata così; non l’ha più chiamata neesan da quando si è ritrovato senza le sue braccia a stringerlo e con una campanella ad ossessionarlo. Non sa nemmeno se la chiamerà mai più così, ma è felice.

Felice che lei lo sfiori in una carezza discreta; felice che cerchi di indovinare la sua stanchezza o il disagio; felice che lo costringa a seguirla, con quel modo di fare che è solo di Marin, la ruvidezza del soldato mescolata a discreta attenzione.

Il Dembo-in è silenzio e riflessi iridescenti sull’acqua. Nel frusciare lieve di aceri e glicini, il guizzo di una carpa koi si espande all’infinito, dilatando le percezioni e creando una piccola increspatura contro il fondo scuro dell’acqua.

Touma si appoggia al parapetto di pietra del ponticello.

“È bello qui” respira con calma, mormorando le parole con lo sciabordio dell’acqua. “Sa di nostalgia.”

Ed è un istante.

Nel mormorio sommesso dell’acqua, recupera la striscia luminosa di un fiume correre in una vallata verde, dal profumo di ulive e di fichi maturati al sole. Ha in bocca sapore di miele e una vertigine che gli strappa il respiro, mentre l’acqua del laghetto abbaglia.

È azzurra. Di un blu intenso che strazia il cuore. E lui se lo sente nella gola, nei polmoni, quel colore che gli impedisce di respirare. Ed è caldo. Caldo come le sabbie ardenti dei deserti; caldo come il sole; caldo come il cosmo di Artemis.

C’è la luce, dietro quel velo azzurro che lo vuole soffocare. Una luce forte e vivida, di una forza tale da accecarlo. È bianca, quella luce. Bianca come la luna; quella luna immane che lo vegliava indifferente nella sua prigione di vento e infinito.

C’era la luna, in quei giorni consumati uguali, e l’eco di parole che si ostinava a dimenticare, il sussurro di promesse che si intestardiva a voler ignorare.

C’era la luna, nei suoi deliri e nelle sue notti consumate insonni; la luna grande piena e bianca come una maschera. Come la maschera dai contorni indefiniti che lo osserva, l’ombra di labbra scure nella fessura nera e il guizzo preoccupato di occhi nel taglio sottile delle iridi.

Marin.

“Dicevi?” le chiede con un sorriso sottile sul viso all’improvviso troppo pallido, pregando di nascondere il tremito della voce. C’è il corpo di Marin accanto al suo. Quel corpo solido e caldo e forte, scoglio sicuro contro la debolezza delle sue membra non ancora guarite, contro lo spaesamento delle sue sicurezze frantumate.

C’è la sicurezza nei gesti di sua sorella, nel modo in cui gli offre aiuto senza imporglielo. Nella caparbietà con cui cerca di recuperare un fratello a lungo rincorso, come si è ostinata a fare fin da quel primo momento in cui ha preteso che si ricordasse di lei.

Cos’è la consapevolezza?

Per Touma è sapere di aver perso qualcosa di unico e prezioso, qualcosa che né il tempo né la volontà potranno restituirgli. È sapere che Marin sarà per sempre sua sorella e un’estranea; cercare nelle sue parole l’ombra di un uomo, di un cavaliere, mai conosciuto e le ferite di un corpo che non ha visto crescere assieme al suo.

Consapevolezza è la caduta a terra dopo quel volo che lo aveva portato oltre i cieli; è scoprirsi nello stesso punto da cui si era partiti e non riuscire più a riconoscersi e a decidere se c’è stato qualcosa, anche un solo istante, che valesse ogni sofferenza, ogni rimpianto.

“L’acqua” ripete Marin. “Quando eri piccolo. Ti piaceva.”

Ed è una sensazione rubata al tempo, una complicità che sfuma nel lampo di un ciliegio in fiore, una risata timida e la carezza della seta sul viso.

Marin ricorda.

In quella vita fatta di battaglie e rinunce; in quella vita in cui l’obbedire viene prima del volere, in cui è volere, Marin si è tenuta stretta il dolore di pochi istanti sopravvissuti nella memoria. È cresciuta, forgiata da solitudine e determinazione, e ha scelto la muta lenta agonia di una ricerca quasi senza speranza pur di giustificare la propria ritrosia, pur di dare un senso ai pochi frammenti cui si aggrappava febbricitante.

E io? Io cosa ho fatto?

Di ricordi non ne ha.

Estirpati dalla ferocia e dall’ambizione; lasciati svanire nel cosmo che cresceva libero e potente sotto i raggi della luna signora. Eppure. Eppure adesso li rivorrebbe indietro. Vorrebbe recuperare il profumo di sua madre o il sapore della strada; vorrebbe sentire ancora il calore dell’abbraccio di una bimba poco più grande di lui e il suono di una campanella in stanze piene di silenzi e disperazione. Gli basterebbe anche il dolore delle percosse ricevute.

Qualsiasi cosa.

Qualsiasi cosa pur di sentirsi ancora vivo. Vivo.

E non quello sfiancante senso di abbandono e disorientamento; non la sensazione di aver perso qualcosa, il dolore lancinante di qualcosa strappato a forza dalla sua carne viva.

Vorrebbe ricordare.

Vorrebbe ricordare il viso di sua sorella.

“Non mi mostrerai mai il tuo viso. Vero?”

Doveva essere una preghiera; doveva essere una supplica, il patetico tentativo di un ragazzino che si credeva uomo di riappropriarsi di qualcosa, di qualsiasi cosa che gli conceda tregua e riposo. Per un istante almeno, Touma vorrebbe davvero rivedere nel viso ormai adulto di Marin i tratti infantili di una bambina; e vorrebbe ritrovare se stesso in quel viso.

Il bambino che a volte gli trafigge la testa con il suo pianto disperato, alto e acuto come lo stridio delle gru.

Doveva essere una speranza, ed è solo straziante consapevolezza.

Marin tace, il bel viso di porcellana immobile. Ha capito; negli occhi disperati di Touma, in quella richiesta troppo veloce, quasi precipitata dalle labbra, ha riconosciuto urgenza e terrore, ha intuito strazio e dolore.

Ma c’è anche la consapevolezza, in quelle parole. La sicurezza di una delusione attesa, la quieta rassegnazione di chi si accorge che, comunque, qualcosa è mutato e nulla potrà riportare indietro i legami smarriti fra scelte di volontà e ostinazioni.

“E tu non mi mostrerai mai le tue ali. Ne?

Touma ride piano, un gorgoglio nella gola.

Delle ali conquistate; delle belle ali ampie di cosmo e trama d’acqua sottile rimane una sola profonda cicatrice sulla schiena, una bruciatura di cosmo e delusione. Ed è quella ferita, assieme al ricordo ossessivo dello sguardo di Artemis, a bruciargli più della ferita al petto.

Perché non c’era sorpresa negli occhi di Artemis.

Non c’era rabbia o dispiacere, nemmeno dolore. C’era solo tranquilla consapevolezza di un gesto, di un oltraggio che Artemis sembrava aspettare da sempre.

Fin da quel primo istante in cui lo aveva accolto, lui semplice essere umano, fra le schiere dei suoi prediletti; fin da quella prima notte in cui gli era apparsa ammantata di cosmo e gli aveva offerto la curiosità di una sfida al cielo e agli dei; fin dal primo respiro nella morsa dell’oricalco in cui gli aveva concesso di scegliere fra obbedienza e orgoglio; fin dal principio Artemis sapeva.

Aveva sempre saputo che lui l’avrebbe tradita.

Lo aveva letto nei suoi occhi, profondi come le più intricate foreste; lo aveva letto nella piega stanca di una bocca abituata un tempo a lanciare l’urlo del cacciatore; lo aveva intuito nel fremito di membra che avevano conosciuto la libertà della corsa primordiale accanto ai lupi feroci e ai cervi nobili.

Mentre la freccia gli straziava le carni; mentre il cosmo splendente di Artemis lo avvolgeva spietato e indifferente; mentre le braccia di Atena sovrana lo sorreggevano e il sangue era la consapevolezza di quell’umanità mai davvero voluta abbandonare, Touma aveva guardato Artemis.

L’aveva guardata con nelle parole una supplica che sfiorava la blasfemia; l’aveva pregata nel cosmo che sfrigolava impotente verso il dissolvimento; l’aveva amata per quel destino che gli aveva offerto.

L’aveva guardata; e negli occhi antichi e immoti, in quegli occhi in cui aveva sempre scorto stanca indifferenza, aveva visto la rassegnazione di un antico tradimento, aveva ritrovato il dolore di uno strazio già affrontato.

L’aveva guardata e aveva visto se stesso negli occhi di Artemis e il riflesso di un altro uomo, di un ragazzo come lui. Dalle ali ormai strappate.

C’era una danza, negli occhi di Artemis.

C’era il vorticare di piume e il ritmo cadenzato di una spirale che si contorceva simile al serpente. E c’erano i colori intensi del mare e di una città senza mura, la porpora di forti colonne lignee e l’armonia di un palazzo adagiato su una collina, il pigro declinare di terrazzamenti verso il mare.

C’era il miele, nei ricordi di Artemis. L’oro del miele in brocche di creta e la frenesia di ritmi veloci, il seno nudo di donne con i capezzoli tinti di rosso. C’era il muggito potente di un toro nell’aria e l’odore acre del sudore e della polvere rossa dell’arena.

Nella bella Cnosso della labris di bronzo e del labirinto di volteggi sensuali tutto era rosso. Rosse le colonne possenti; rosse le melograne offerte in dono; rosse le labbra e i seni piene delle donne; rosso il sangue delle vittime del sacrificio.

Sarebbe stato rosso anche il sangue del ragazzo che danzava nel labirinto, le lunghe ali dispiegate sulle sue braccia lucide di olio e di cera. Aveva occhi di cielo e il sorriso sfacciato della giovinezza, lui nato da una schiava e un artista, lui fuggito da Atene signora del mare, lui accolto in seno ad una terra primordiale, dolce abbraccio di dea antica e fiera.

Lui. Ikaros.

Ikaros dalle ali d’acqua intessute del miele offerto agli dei, offerto a quella sola dea che lo contemplava e lo rivendicava a sé. Perché era per lei che Ikaros danzava; era per lei che Ikaros batteva ritmico il piede per terra; era per lei che Ikaros imitava, inesperto, l’erotismo di una danza sfrenata di vita e fertilità.

Ed era per lei che era morto, in quell’ultimo sublime volo sospeso fra cielo e mare; in quel tendersi spasmodico di membra vigorose che avrebbero dato alla terra di Creta e vita e prosperità future.

Aveva pianto Artemis splendente per quel ragazzo strappatole troppo presto.

Aveva pianto per le ali che gli aveva donato e per l’aspirazione insensata al calore del sole che covava nel cuore. Aveva pianto per un re fanciullo destinato alla morte e vissuto un giorno come un’eternità, nell’ebbrezza inebriante della vita che arde di fuoco sacro.

Aveva pianto il bimbo offertole sulle pendici boscose dello Iuktas, il bimbo cresciuto per l’altare e il sacrificio. Lo aveva amato; come madre, come donna, come dea. Lo aveva amato e lo aveva lasciato morire per risentirlo nella terra ad ogni respiro, per riassaporare la sua risata nel sibilo del vento, per ricordarne la forza nei flutti impetuosi del mare che investono Creta signora.

Lo aveva perso concedendogli un ultimo estremo agognato volo a sfidare la sorte e la vita. E sapeva; sapeva che ali di cera e piume di pernice non sarebbero bastate. Sapeva che il Sole lo avrebbe disilluso con la ferocia del suo calore e gli avrebbe donato una morte crudele nell’acqua profonda e scura, come la notte senza luna. Come quella sola unica notte in cui Artemis lo aveva cullato fra le sue braccia, bimbo umano offerto ad una dea vergine e selvaggia, ad una dea che conosceva i dolori del parto e la ferocia di madri simili a leonesse per la prole.

Ikaros l’aveva tradita, aspirando al sole; e lei, Artemis dall’arco d’argento, Artemis facile all’ira, si era lasciata tradire, contemplando l’arco armonioso di un ragazzo troppo vicino ad una dea.

C’era la rassegnata consapevolezza dell’inevitabile negli occhi di Artemis quando Touma aveva osato guardarla. C’erano i ricordi di un viso lasciato sbiadire nei suoi pensieri e l’illusione coltivata con feroce inganno nel proprio cuore di un nuovo Icaro al suo fianco. Dell’affetto o forse dell’amore per un ragazzo che l’avrebbe tradita e le avrebbe regalato il ricordo di un’emozione, di un dolore tanto lacerante da lasciarla priva di lacrime da versare.

Di quell’ultimo intenso sguardo, di quelle parole mai pronunciate, di un grazie che né Artemis avrebbe mai concesso né Icaro avrebbe mai accettato di pronunciare, a Touma restava solo un’ustione sulla schiena, lì dove Artemis gli aveva strappato con le sue mani quell’unica ala che si era radicata nel suo corpo umano.

Era stato il dolore, il sangue e il rimpianto di occhi di lauro lucente prima dell’oblio.

“Non ho più ali” soffia alla fine. “Non ho più nulla che mi leghi a lei.”

“E lo rimpiangi.”

Touma storce la bocca in una smorfia.

Lo rimpiangeva? Aveva scelto di salvare Atena, ma non aveva mai voluto tradire Artemis. Ancora, di notte, la cercava nelle ombre argentate della luna, nel fruscio di una foglia, negli occhi verdi di ogni gatto che incontrava. Avrebbe voluto rivederla; avrebbe voluto piegare di nuovo il ginocchio a terra per lei e restare così, ad ascoltare il respiro eterno del mondo, ad ascoltare il battito del proprio cuore e il cosmo freddo di Artemis, intessuto del profumo di terra e muschio.

Avrebbe voluto.

“Tornerai da lei?” gli chiede Marin, un tremito nella voce che vuole essere indifferente.

Touma sospira.

Artemis gli aveva dato ali per volare nei cieli e superare gli dei; gli aveva dato fiducia e lucore di cosmo indomito; gli aveva offerto l’infinito e le aspirazioni che travalicano la mente dell’uomo. Gli aveva dato tutto, anche la libertà di tradirla.

E poi lo aveva lasciato precipitare.

Adesso, delle ali di cosmo e determinazione rimanevano il formicolio della perdita e il dolce malinconico rimpianto della distanza creata. Adesso, Touma sapeva che per ritrovare lo splendore di Artemis avrebbe dovuto imparare altre ali, fatte di orgoglio umano e aspirazione simile alla blasfemia.

Ma c’era anche la sicurezza di un viso senza espressione; c’era il conforto del tintinnio di una campanella; c’era la terra sotto ai suoi piedi, salda e sicura.

“Forse” sussurra alla fine. “Un giorno.”

Un giorno. Con nuove ali.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note conclusive

 

 

  1. Apteros: il termine, presente nel titolo, significa senza ali ed è anche, nella variante femminile (aptera), un epiteto di Artemide di incerta origine.
  2. La danza delle gru o Shirasagi-no Mai è una particolare danza molto antica che ha le sue radici in un rituale dello Shintoismo e nel Festival di Gion di Yasaka Shrine a Kyoto risalente al periodo Heian. Reintrodotta solo nel 1968 per celebrare i cento anni di Tokyo capitale del Giappone, la danza riproduce la scena di un corteo rituale per pregare per la pace dopo lo spostamento del sito del tempio in cui si svolge. Il corteo è composto da vari personaggi in costume dell’epoca Heian e da una serie di ballerini con il costume che rappresenta l’airone o gru bianca. Anche nella tradizione greca esiste una vera e propria danza della gru connessa con il mito teseico del labirinto e quindi con Creta. Nel mito, si racconta che Teseo, dopo aver sconfitto il Minotauro nel labirinto, avrebbe celebrato la vittoria danzando a Nasso per alcuni, a Delo per altri, una danza chiamata appunto danza delle gru o del labirinto, che avrebbe riprodotto in gesti e spirali l’avventura di discesa dell’eroe agli Inferi e di sua ascesa da vincitore. Una danza simile, con altrettanto uguale valore apotropaico nei confronti nella morte, è oggi diffusa nella cultura greca.

3.      Asakusa Kannon è uno dei quartieri più caratteristici e famosi di Tokyo. Situato nella parte nord-est della città, delimitato a est dal fiume Sumida, ha come suo fulcro il tempio Sensōji, dedicato a Kannon Sama, la dea buddista della misericordia; questo luogo di venerazione è il più antico di Tokyo. La via principale del quartiere passa davanti al Kaminarimon (Porta del tuono) con la sua chōchin, l'imponente lanterna di carta rossa. Tra le attrazioni della via, si notano i ragazzi vestiti nei tradizionali abiti dei portantini, disponibili a trasportare in giro per il quartiere i turisti in risciò. Ai lati della famosa Nakamise-dori, principale via che immette alla porta Kaminarimon e che conduce al Sensōji, sempre affollata di visitatori, si trovano numerose bancarelle di prodotti tipici: souvenir, vestiti tradizionali, parrucche da samurai, peluche, giocattoli.

  1. Ko-Omote è una tradizionale maschera del Teatro No, usata anche durante i Matsuri, ovvero le feste popolari, per celare il proprio volto. Rappresenta il volto di una giovanissima donna di grande bellezza. Ovviamente, il suo viso rispecchia i canoni di bellezza di un Giappone molto antico, e che presero forma specialmente durante il Periodo Heian (dal 794 al 1185). All'epoca, le donne giapponesi si depilavano completamente le sopracciglia e se le disegnavano ben più su rispetto alla posizione naturale che queste hanno, usando tratti spessi e sfumati. Anche l'acconciatura riflette le vecchie mode molto seguite in quel periodo. Pensate che nell'epoca Heian le donne non si legavano i capelli, ma li lasciavano sciolti, e più lunghi erano, più aumentava il fascino della donna stessa. Solo tempo dopo, le donne giapponesi hanno iniziato a creare acconciature diverse, legandosi i capelli in un modo piuttosto che un altro. Come avrete notato, inoltre, Ko-Omote ha i denti anneriti. La sua, però, non e' un'irrecuperabile carie, bensì un simbolo che, secondo gli usi dell'epoca, contraddistingueva le donne ancora nubili da quelle già sposate. Le donne maritate potevano tranquillamente sfoderare smaglianti sorrisi. L'annerire i denti era, quindi, un modo che le donne usavano per rendere pubblico il proprio stato civile. E' da notare però che quest'usanza non era legata ad una scelta personale, ma aveva un'osservanza quasi obbligatoria imposta dai dettami dell'epoca. Pare, però, che quest'usanza avesse anche dei risvolti sanitari in quanto si credeva che la sostanza utilizzata avesse proprietà anti-batteriche, e che fosse quindi in grado di combattere efficacemente l'insorgere di carie e di altri disturbi dentali.

Nella fanfic Marin indossa questa maschera al posto di quella tradizionale da sacerdotessa come compromesso per accompagnare il fratello e contemporaneamente non rinunciare ad una regola che sente parte di se stessa.

  1. Dembo-in si trova ad Asakusa ed è un magnifico giardino che sembra sia stato creato nel XVII secolo da Kobori Enshu, genio nel disegno dei giardini zen. È di solito frequentato pochissimo ed è di una serenità assoluta. Il periodo migliore per visitarlo è in primavera quando fioriscono i glicini. Un percorso tranquillo circonda il laghetto offrendo una vista diversa da ogni punto. Gli unici suoni sono quelli degli uccelli e dei pesci che saltano. Un’insegna in inglese sulla Dembo-in-dori a poco più di 100 metri ad ovest dell’incrocio con Naka-mise-dori indica l’entrata attraverso un grande cancello in legno. Il giardino è parte dell’abitazione dell’abate del tempio Sensōji e potrebbe essere chiuso se ci sono ospiti.
  2. Icaro (in greco Ikaros) significa sacro alla dea Kar-Ker, antico nome per una dea cretese e forse anche frigia e orientale della vita e della morte, la cui epifania è un’ape con le corna di torno e spesso connessa alle alate Keres, simbolo dei rischi della guerra. Nella sua forma positiva di vita, Kar-Ker è assimilabile alle grandi figure di Dee madri mediterranee, come Cibele o la stessa Artemide, che con lei condivide l’elemento vivifico come protettrice dei parti e mortifero come dea della morte violenta, oltre alla ferinità della caccia, contraltare mitologico spesso connesso alla guerra.
  3. Il mito di Icaro che, sfuggito con il padre Dedalo all’insidia del labirinto, muore precipitando in mare, è nella fanfic solo accennato, preferendo riprendere invece la variante più antica, di cui quasi non si conserva memoria, e soprattutto l’elemento simbolico-rituale. Icaro sarebbe, in quanto paredro della dea madre di Creta, la Potnia Theron o Signora dei serpenti assimilata nel tempo con la greca Artemide, l’elemento maschile destinato al sacrificio per fecondare la terra. L’elemento delle ali e della danza, inoltre, si riconnetto alla figura del re-sacro-solare, presente in Creta fin da epoche antichissime e connesso alla stessa figura femminile di Dea madre. Secondo tale rituale il sovrano, che riceve la propria investitura solo da parte della regina, che rappresenta l’elemento divino femminile, avrebbe regnato per un tempo prestabilito, per poi essere ucciso ritualmente e sostituito da un nuovo sovrano. Il tempo di reggenza, passato da pochi giorni all’anno lunare, sottolinea lo stretto legame del re-sacro con la luna e la morte rituale riconnette a cruenti riti di fertilità di cui a Creta ci sarebbero testimonianze nel sito di Anemospilia, a pochi chilometri da Cnosso. Con il tempo, poi, al re-sacro si sarebbe sostituito un sovrano fantoccio che avrebbe governato per un giorno alla morte simbolica del sovrano reale, per essere poi ucciso per aspargere la terra fecondatrice con il suo sangue/seme. L’elemento delle piume, inoltre, è strettamente collegato alla danza erotica che questo re-sacro avrebbe dovuto fare in onore della dea madre, cui si configurerebbe indirettamente come sacerdote. Durante questa danza-cerimonia, fra le altre cose, si offriva alla divinità miele, considerato il principale alimento.

Accanto alla lettura religiosa, si pone quella psicologica, con il complesso di Icaro inteso come aspirazione umana a valicare i propri limiti, interpretazione patologica di quello che è il simbolismo racchiuso nel mito stesso e che costituisce il peccato di hybris commesso dall’Icaro mitologico (nella fanfic, la parola è stata tradotta con orgoglio).

  1. Iuktas è il nome del monte che chiude a sud la valle e la collina Kephala dove sorge Cnosso e che presenta un incavo sacro alla popolazione minoica, una specie di grotta santuario primordiale. Cnosso stessa è fusa con il degradare delle colline che la circondano, seguendo il corso del fiume Kairatos che corre verso il mare.
  2. Il cipresso, così come il lauro, il cervo, il lupo, i felini fra il cui gatto sono tutti simboli di Artemide, oltre alla scontata luna.

 

  
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Saint Seiya / Vai alla pagina dell'autore: avalon9