Autore: Avalon9
Genere: Introspettivo, Slice of live
Personaggi Principali: Icarus Touma; Marin dell’Aquila; Artemis
Altri Personaggi: Saori-Atena e Aioria di Leo solo nominati
Rating: verde
In proposito: Aveva desiderato.
Si era illuso. Ed era precipitato. Come Icaro. Icaro. Un nome; il suo nome.
Quello con cui Artemis lo aveva chiamato per la prima volta quando le ali si
erano materializzate in lunghe piume flessuose intessute d’acqua e di cosmo.
Disclaimer: i personaggi sono di Masami
Kurumada; la situazione la rivendico come mia^^
Link di riferimento al contest: http://icavalieridellozodiaco.myfreeforum.org/about6541.html
Note: one shot; missing moments
Cose: Ho
cambiato millanta volte il personaggio; ho iniziato quattro storie diverse; e
le ho cestinate. Il fatto è che il promt mi piaceva; mi piaceva troppo; e non
riuscivo a decidermi. Chi mi conosce sa bene che con la mitologia ci vado a
nozze, e proporre un concorso con il mito per fulcro è per me come dare da bere
a un alcolizzato ubriaco.
Il problema, tuttavia, era quel
benedetto personaggio e quindi il mito di riferimento. Poi, mentre elucubravo a
vuoto, mi sono rivista l’Overture al Tenkai, giusto per riempire uno spazio
morto. È scattata la scintilla.
E questo è il risultato.
Dimentica la cera e le piume,
e costruisci ali più solide.
Stanley Kubrick
Apteros
Le ali delle gru sono bianche.
Lunghe piume fruscianti nel suono
ritmico della danza; il collo elegante proteso verso l’alto. E l’incedere;
quell’incedere altero e indifferente, simile allo sfilare del soldato, o
all’epifania di un dio.
Hanno ali lunghe e colli
flessuosi, le gru. E nel volteggiare bianco l’azzurro di zampe intessute d’oro
stagliarsi contro colonne infuocate. C’è quel suono, sullo sfondo; il battere
cupo e ritmico del tamburo e poi la malinconica cadenza del flauto.
Sono bianche le ali delle gru.
Lenti movimenti che scandiscono
una preghiera di pace, le piume a fremere nell’aria tintinnante di aprile, il
tepore del sole sulla pelle e le grandi ali aprirsi in lenti cerchi di armonia.
Asakusa Kannon lo si respira
nell’odore penetrante dell’incenso, nel fruscio di seta e nella biacca di volti
che invidiano compassata indifferenza con gli occhi dal taglio sottile rifiniti
di nero e sulle labbra un bocciolo rosso; come lo sbuffo di sangue sulla testa
della gru.
E c’è quel tamburo, il suo
cadenzare lento che scandisce passi. E poi. Poi cresce, frenetico, ritmico,
ossessivo, assieme alle ali, al frusciare di piume di stoffa e cartone che si
agitano convulse nella piazza, fra coriandoli di petali e sbattere di braccia
che ricordano il disperato tentativo di non affogare, fino all’ultimo raffinato
spasmo.
Poi il tamburo tace, i campanelli
si quietano; le grandi ali ripiegarsi lungo il corpo, perdendo la grazia di un
istante, lo slancio armonioso di membra e corpi e mente verso il cielo, oltre
il cielo.
Nel silenzio degli applausi la
teoria lungo il Nakamise-dori è un brivido che stringe lo stomaco, simile alla
chiazza verde che si intravede laggiù, oltre la porta Kaminarimon.
Touma respira piano.
Sulla pelle riavverte la
sensazione irreale di piume e l’ebbrezza del volo nei cieli; sulla pelle
indovina il ricordo dell’acqua scivolare fredda fra gli intarsi dell’armatura,
lungo la tessitura invisibile delle ali che lo avevano sostenuto nella sua
scalata al cielo.
E poi.
Poi c’è il bruciore. Il bruciore
di una ferita che sarà sempre dolore e rimpianto; il bruciore del ricordo di
una freccia che lacera carni e metallo. Il bruciore di occhi del colore
pungente del cipresso, la disincantata malinconia che vi aveva imparato a
riconoscere.
Artemis.
Aveva danzato per lei.
Per la sua compiacenza e per la
sua vittoria; per la sfumatura di dolcezza in quella voce impalpabile, simile
al mormorio di un ruscello di montagna. Aveva danzato per il suo piacere una
danza di amore e dedizione, una danza di aria e argento, le vesti a frusciare
nei cieli, il fremito di membra a lungo costrette all’immobilità.
Aveva danzato per lei. Come una
gru.
C’era stato l’orgoglio, in quella
danza, la sua consacrazione.
Negli occhi di Artemis, in quel
suo primo timido volo, nel primordiale dispiegarsi delle sue ali nei cieli
immoti di quel mondo fatto di torri di oricalco e xantos, Touma aveva visto
riflesso negli occhi di Artemis il compiacimento e un indecifrabile senso di
possesso.
Aveva amato quegli occhi.
Aveva amato la nostalgia che vi
scorgeva e la violenza stanca che li incendiava; aveva amato il modo in cui lo
guardavano, sospesi fra egoismo e desiderio. C’era fame, negli occhi di
Artemis. Una fame profonda, viscerale, atavica. La fame selvaggia della dea che
era abituata a correre libera per vette inviolate; la fame del predatore che
persegue la sua preda. La circonda; e poi la divora.
Artemis era la cacciatrice; e lui.
Lui era stata la preda tanto ambita, l’uomo elevato al suo fianco, l’uomo
disposto ad amarla, ad adorarla. L’uomo che le aveva fatto ricordare, in quella
dedizione che sfiorava la blasfemia, che era ossessione prepotente e
primordiale, ferina, la sfacciataggine di altri occhi, la follia di un altro sguardo
che aveva osato desiderarla.
Touma si era chiesto chi vedesse
Artemis in lui.
Si era chiesto di chi fosse il
corpo che immaginava di accarezzare; a chi appartenessero le ali che gli
lisciava, una lenta sensuale carezza che sapeva di gesti lasciati sbiadire nei
secoli. Si era chiesto se guardasse i suoi occhi nella maschera che gli celava
il viso, o se cercasse altri occhi, altro desiderio, altra devozione.
Per mesi; per i lunghi mesi di
quella snervante iniziazione, quanto la sola compagnia era il tintinnio
doloroso di una campanella e il crepuscolo perenne di un mondo che sembrava
ancorarsi con tutto se stesso ad un presente statico; per quei lunghi mesi in
cui l’incoscienza e la determinazione si erano mescolati alla follia e al
delirio; per quei mesi che erano trascorsi in anni e condensatisi in ore di
lento stillicidio, Touma aveva immaginato.
Aveva tentato di comprendere, di
intuire, il serafico distacco di quella donna, di quella dea, che lo aveva raccolto in grembo nella confusione di un delirio
di febbre e sfinimento.
Aveva immaginato; e aveva odiato.
Lo sguardo di un uomo mai
conosciuto; la struggente gelosia che gli divorava la mente; il passato
precluso alla sua conoscenza. Il passato di Artemis; e il suo passato.
Perché c’era stato un passato,
nella sua vita, prima di Artemis. Un passato fatto di tintinnio di campanelle e
del crepitio di risate; un passato sbiadito con la sua determinazione, con la
sua volontà di travalicare i cieli e salire ancora, fino agli dei. Oltre gli
dei.
Aveva detestato quel passato.
Aveva odiato i ricordi che lo
tenevano ancorato al suolo, pesante e sofferente. Aveva odiato la frustrazione
per il desiderio insopprimibile per il cielo; e il dolore delle braccia che
ogni volta ricadevano a terra, sempre più deboli e stanche, sempre più gonfie e
sgraziate.
Aveva odiato. Se stesso e la
propria incapacità.
E ci si era aggrappato come un
naufrago, vi aveva affondato i denti e le unghie come una pernice che difende
il nido. Desiderava gli dei, desiderava essere degno di Artemis e condividere
con lei la fierezza di quegli occhi antichi che conoscono e non tremano, cui è
sconosciuta l’aspirazione e la delusione.
Aveva desiderato. Si era illuso.
Ed era precipitato.
Come Icaro.
Icaro.
Un nome; il suo nome. Quello con
cui Artemis lo aveva chiamato per la prima volta quando le ali si erano
materializzate in lunghe piume flessuose intessute d’acqua e di cosmo. Il nome
con cui lo accarezzava, la voce un sospiro sottile che sapeva di pericolosa
concessione.
Icaro
gli aveva detto, mentre lo accoglieva nel cielo, mentre le catene d’argento si
mutavano in polvere di luce e una corazza di adamante e zaffiro lo rivestiva,
forte di cosmo e di libertà conquistata.
Icaro aveva
ripetuto Artemis, nel fulgore del cosmo e della luna. Questo sarà il tuo nome. Perché mi sei sacro aveva sussurrato in
una carezza leggera che sapeva di nostalgia e un sorriso antico come falce di
luna.
In quel volo era morto; ed era
rinato.
“Touma.”
La Ko-Omote lo osserva, il disegno
sottile degli occhi sfuma nel bianco e il bocciolo rosso delle labbra possiede
un miscuglio di conturbante grazia e di piccata insofferenza.
Touma sorride.
Marin. Dietro il sorriso nero
della maschera, nella punta di apprensione nella piega del mento , nei petali
intrappolati nei capelli, c’è Marin. C’è sua sorella.
Neesan.
Touma soffia la parola fra le
labbra. Non l’ha ancora chiamata così; non l’ha più chiamata neesan da quando si è ritrovato senza le
sue braccia a stringerlo e con una campanella ad ossessionarlo. Non sa nemmeno
se la chiamerà mai più così, ma è felice.
Felice che lei lo sfiori in una
carezza discreta; felice che cerchi di indovinare la sua stanchezza o il
disagio; felice che lo costringa a seguirla, con quel modo di fare che è solo
di Marin, la ruvidezza del soldato mescolata a discreta attenzione.
Il Dembo-in è silenzio e riflessi
iridescenti sull’acqua. Nel frusciare lieve di aceri e glicini, il guizzo di
una carpa koi si espande all’infinito, dilatando le percezioni e creando una
piccola increspatura contro il fondo scuro dell’acqua.
Touma si appoggia al parapetto di
pietra del ponticello.
“È bello qui” respira con calma,
mormorando le parole con lo sciabordio dell’acqua. “Sa di nostalgia.”
Ed è un istante.
Nel mormorio sommesso dell’acqua,
recupera la striscia luminosa di un fiume correre in una vallata verde, dal
profumo di ulive e di fichi maturati al sole. Ha in bocca sapore di miele e una
vertigine che gli strappa il respiro, mentre l’acqua del laghetto abbaglia.
È azzurra. Di un blu intenso che
strazia il cuore. E lui se lo sente nella gola, nei polmoni, quel colore che
gli impedisce di respirare. Ed è caldo. Caldo come le sabbie ardenti dei
deserti; caldo come il sole; caldo come il cosmo di Artemis.
C’è la luce, dietro quel velo
azzurro che lo vuole soffocare. Una luce forte e vivida, di una forza tale da
accecarlo. È bianca, quella luce. Bianca come la luna; quella luna immane che
lo vegliava indifferente nella sua prigione di vento e infinito.
C’era la luna, in quei giorni
consumati uguali, e l’eco di parole che si ostinava a dimenticare, il sussurro
di promesse che si intestardiva a voler ignorare.
C’era la luna, nei suoi deliri e
nelle sue notti consumate insonni; la luna grande piena e bianca come una
maschera. Come la maschera dai contorni indefiniti che lo osserva, l’ombra di
labbra scure nella fessura nera e il guizzo preoccupato di occhi nel taglio
sottile delle iridi.
Marin.
“Dicevi?” le chiede con un sorriso
sottile sul viso all’improvviso troppo pallido, pregando di nascondere il
tremito della voce. C’è il corpo di Marin accanto al suo. Quel corpo solido e
caldo e forte, scoglio sicuro contro la debolezza delle sue membra non ancora
guarite, contro lo spaesamento delle sue sicurezze frantumate.
C’è la sicurezza nei gesti di sua
sorella, nel modo in cui gli offre aiuto senza imporglielo. Nella caparbietà
con cui cerca di recuperare un fratello a lungo rincorso, come si è ostinata a
fare fin da quel primo momento in cui ha preteso che si ricordasse di lei.
Cos’è la consapevolezza?
Per Touma è sapere di aver perso
qualcosa di unico e prezioso, qualcosa che né il tempo né la volontà potranno
restituirgli. È sapere che Marin sarà per sempre sua sorella e un’estranea;
cercare nelle sue parole l’ombra di un uomo, di un cavaliere, mai conosciuto e
le ferite di un corpo che non ha visto crescere assieme al suo.
Consapevolezza è la caduta a terra
dopo quel volo che lo aveva portato oltre i cieli; è scoprirsi nello stesso
punto da cui si era partiti e non riuscire più a riconoscersi e a decidere se
c’è stato qualcosa, anche un solo istante, che valesse ogni sofferenza, ogni
rimpianto.
“L’acqua” ripete Marin. “Quando
eri piccolo. Ti piaceva.”
Ed è una sensazione rubata al
tempo, una complicità che sfuma nel lampo di un ciliegio in fiore, una risata
timida e la carezza della seta sul viso.
Marin ricorda.
In quella vita fatta di battaglie
e rinunce; in quella vita in cui l’obbedire viene prima del volere, in cui è
volere, Marin si è tenuta stretta il dolore di pochi istanti sopravvissuti
nella memoria. È cresciuta, forgiata da solitudine e determinazione, e ha
scelto la muta lenta agonia di una ricerca quasi senza speranza pur di
giustificare la propria ritrosia, pur di dare un senso ai pochi frammenti cui
si aggrappava febbricitante.
E io? Io cosa ho fatto?
Di ricordi non ne ha.
Estirpati dalla ferocia e
dall’ambizione; lasciati svanire nel cosmo che cresceva libero e potente sotto
i raggi della luna signora. Eppure. Eppure adesso li rivorrebbe indietro.
Vorrebbe recuperare il profumo di sua madre o il sapore della strada; vorrebbe
sentire ancora il calore dell’abbraccio di una bimba poco più grande di lui e
il suono di una campanella in stanze piene di silenzi e disperazione. Gli
basterebbe anche il dolore delle percosse ricevute.
Qualsiasi cosa.
Qualsiasi cosa pur di sentirsi
ancora vivo. Vivo.
E non quello sfiancante senso di
abbandono e disorientamento; non la sensazione di aver perso qualcosa, il
dolore lancinante di qualcosa strappato a forza dalla sua carne viva.
Vorrebbe ricordare.
Vorrebbe ricordare il viso di sua
sorella.
“Non mi mostrerai mai il tuo viso.
Vero?”
Doveva essere una preghiera;
doveva essere una supplica, il patetico tentativo di un ragazzino che si
credeva uomo di riappropriarsi di qualcosa, di qualsiasi cosa che gli conceda
tregua e riposo. Per un istante almeno, Touma vorrebbe davvero rivedere nel
viso ormai adulto di Marin i tratti infantili di una bambina; e vorrebbe
ritrovare se stesso in quel viso.
Il bambino che a volte gli
trafigge la testa con il suo pianto disperato, alto e acuto come lo stridio
delle gru.
Doveva essere una speranza, ed è
solo straziante consapevolezza.
Marin tace, il bel viso di
porcellana immobile. Ha capito; negli occhi disperati di Touma, in quella
richiesta troppo veloce, quasi precipitata dalle labbra, ha riconosciuto
urgenza e terrore, ha intuito strazio e dolore.
Ma c’è anche la consapevolezza, in
quelle parole. La sicurezza di una delusione attesa, la quieta rassegnazione di
chi si accorge che, comunque, qualcosa è mutato e nulla potrà riportare
indietro i legami smarriti fra scelte di volontà e ostinazioni.
“E tu non mi mostrerai mai le tue
ali. Ne?”
Touma ride piano, un gorgoglio
nella gola.
Delle ali conquistate; delle belle
ali ampie di cosmo e trama d’acqua sottile rimane una sola profonda cicatrice
sulla schiena, una bruciatura di cosmo e delusione. Ed è quella ferita, assieme
al ricordo ossessivo dello sguardo di Artemis, a bruciargli più della ferita al
petto.
Perché non c’era sorpresa negli
occhi di Artemis.
Non c’era rabbia o dispiacere,
nemmeno dolore. C’era solo tranquilla consapevolezza di un gesto, di un
oltraggio che Artemis sembrava aspettare da sempre.
Fin da quel primo istante in cui
lo aveva accolto, lui semplice essere umano, fra le schiere dei suoi
prediletti; fin da quella prima notte in cui gli era apparsa ammantata di cosmo
e gli aveva offerto la curiosità di una sfida al cielo e agli dei; fin dal
primo respiro nella morsa dell’oricalco in cui gli aveva concesso di scegliere
fra obbedienza e orgoglio; fin dal principio Artemis sapeva.
Aveva sempre saputo che lui
l’avrebbe tradita.
Lo aveva letto nei suoi occhi,
profondi come le più intricate foreste; lo aveva letto nella piega stanca di
una bocca abituata un tempo a lanciare l’urlo del cacciatore; lo aveva intuito
nel fremito di membra che avevano conosciuto la libertà della corsa primordiale
accanto ai lupi feroci e ai cervi nobili.
Mentre la freccia gli straziava le
carni; mentre il cosmo splendente di Artemis lo avvolgeva spietato e
indifferente; mentre le braccia di Atena sovrana lo sorreggevano e il sangue
era la consapevolezza di quell’umanità mai davvero voluta abbandonare, Touma
aveva guardato Artemis.
L’aveva guardata con nelle parole
una supplica che sfiorava la blasfemia; l’aveva pregata nel cosmo che
sfrigolava impotente verso il dissolvimento; l’aveva amata per quel destino che
gli aveva offerto.
L’aveva guardata; e negli occhi
antichi e immoti, in quegli occhi in cui aveva sempre scorto stanca
indifferenza, aveva visto la rassegnazione di un antico tradimento, aveva ritrovato
il dolore di uno strazio già affrontato.
L’aveva guardata e aveva visto se
stesso negli occhi di Artemis e il riflesso di un altro uomo, di un ragazzo
come lui. Dalle ali ormai strappate.
C’era una danza, negli occhi di
Artemis.
C’era il vorticare di piume e il
ritmo cadenzato di una spirale che si contorceva simile al serpente. E c’erano
i colori intensi del mare e di una città senza mura, la porpora di forti
colonne lignee e l’armonia di un palazzo adagiato su una collina, il pigro
declinare di terrazzamenti verso il mare.
C’era il miele, nei ricordi di
Artemis. L’oro del miele in brocche di creta e la frenesia di ritmi veloci, il
seno nudo di donne con i capezzoli tinti di rosso. C’era il muggito potente di
un toro nell’aria e l’odore acre del sudore e della polvere rossa dell’arena.
Nella bella Cnosso della labris di
bronzo e del labirinto di volteggi sensuali tutto era rosso. Rosse le colonne
possenti; rosse le melograne offerte in dono; rosse le labbra e i seni piene
delle donne; rosso il sangue delle vittime del sacrificio.
Sarebbe stato rosso anche il
sangue del ragazzo che danzava nel labirinto, le lunghe ali dispiegate sulle
sue braccia lucide di olio e di cera. Aveva occhi di cielo e il sorriso
sfacciato della giovinezza, lui nato da una schiava e un artista, lui fuggito
da Atene signora del mare, lui accolto in seno ad una terra primordiale, dolce
abbraccio di dea antica e fiera.
Lui. Ikaros.
Ikaros dalle ali d’acqua intessute
del miele offerto agli dei, offerto a quella sola dea che lo contemplava e lo
rivendicava a sé. Perché era per lei che Ikaros danzava; era per lei che Ikaros
batteva ritmico il piede per terra; era per lei che Ikaros imitava, inesperto,
l’erotismo di una danza sfrenata di vita e fertilità.
Ed era per lei che era morto, in
quell’ultimo sublime volo sospeso fra cielo e mare; in quel tendersi spasmodico
di membra vigorose che avrebbero dato alla terra di Creta e vita e prosperità
future.
Aveva pianto Artemis splendente
per quel ragazzo strappatole troppo presto.
Aveva pianto per le ali che gli
aveva donato e per l’aspirazione insensata al calore del sole che covava nel
cuore. Aveva pianto per un re fanciullo destinato alla morte e vissuto un
giorno come un’eternità, nell’ebbrezza inebriante della vita che arde di fuoco
sacro.
Aveva pianto il bimbo offertole
sulle pendici boscose dello Iuktas, il bimbo cresciuto per l’altare e il
sacrificio. Lo aveva amato; come madre, come donna, come dea. Lo aveva amato e
lo aveva lasciato morire per risentirlo nella terra ad ogni respiro, per riassaporare
la sua risata nel sibilo del vento, per ricordarne la forza nei flutti
impetuosi del mare che investono Creta signora.
Lo aveva perso concedendogli un
ultimo estremo agognato volo a sfidare la sorte e la vita. E sapeva; sapeva che
ali di cera e piume di pernice non sarebbero bastate. Sapeva che il Sole lo
avrebbe disilluso con la ferocia del suo calore e gli avrebbe donato una morte
crudele nell’acqua profonda e scura, come la notte senza luna. Come quella sola
unica notte in cui Artemis lo aveva cullato fra le sue braccia, bimbo umano
offerto ad una dea vergine e selvaggia, ad una dea che conosceva i dolori del
parto e la ferocia di madri simili a leonesse per la prole.
Ikaros l’aveva tradita, aspirando
al sole; e lei, Artemis dall’arco d’argento, Artemis facile all’ira, si era
lasciata tradire, contemplando l’arco armonioso di un ragazzo troppo vicino ad
una dea.
C’era la
rassegnata consapevolezza dell’inevitabile negli occhi di Artemis quando Touma
aveva osato guardarla. C’erano i ricordi di un viso lasciato sbiadire nei suoi
pensieri e l’illusione coltivata con feroce inganno nel proprio cuore di un
nuovo Icaro al suo fianco. Dell’affetto o forse dell’amore per un ragazzo che
l’avrebbe tradita e le avrebbe regalato il ricordo di un’emozione, di un dolore
tanto lacerante da lasciarla priva di lacrime da versare.
Di
quell’ultimo intenso sguardo, di quelle parole mai pronunciate, di un grazie che né Artemis avrebbe mai
concesso né Icaro avrebbe mai accettato di pronunciare, a Touma restava solo
un’ustione sulla schiena, lì dove Artemis gli aveva strappato con le sue mani
quell’unica ala che si era radicata nel suo corpo umano.
Era stato
il dolore, il sangue e il rimpianto di occhi di lauro lucente prima dell’oblio.
“Non ho
più ali” soffia alla fine. “Non ho più nulla che mi leghi a lei.”
“E lo
rimpiangi.”
Touma storce
la bocca in una smorfia.
Lo
rimpiangeva? Aveva scelto di salvare Atena, ma non aveva mai voluto tradire
Artemis. Ancora, di notte, la cercava nelle ombre argentate della luna, nel
fruscio di una foglia, negli occhi verdi di ogni gatto che incontrava. Avrebbe
voluto rivederla; avrebbe voluto piegare di nuovo il ginocchio a terra per lei
e restare così, ad ascoltare il respiro eterno del mondo, ad ascoltare il
battito del proprio cuore e il cosmo freddo di Artemis, intessuto del profumo
di terra e muschio.
Avrebbe
voluto.
“Tornerai
da lei?” gli chiede Marin, un tremito nella voce che vuole essere indifferente.
Touma
sospira.
Artemis
gli aveva dato ali per volare nei cieli e superare gli dei; gli aveva dato
fiducia e lucore di cosmo indomito; gli aveva offerto l’infinito e le
aspirazioni che travalicano la mente dell’uomo. Gli aveva dato tutto, anche la
libertà di tradirla.
E poi lo
aveva lasciato precipitare.
Adesso,
delle ali di cosmo e determinazione rimanevano il formicolio della perdita e il
dolce malinconico rimpianto della distanza creata. Adesso, Touma sapeva che per
ritrovare lo splendore di Artemis avrebbe dovuto imparare altre ali, fatte di
orgoglio umano e aspirazione simile alla blasfemia.
Ma c’era
anche la sicurezza di un viso senza espressione; c’era il conforto del
tintinnio di una campanella; c’era la terra sotto ai suoi piedi, salda e
sicura.
“Forse”
sussurra alla fine. “Un giorno.”
Un giorno. Con nuove ali.
Note conclusive
- Apteros: il termine, presente nel titolo, significa senza ali ed è anche, nella
variante femminile (aptera), un epiteto di Artemide di incerta origine.
- La danza delle gru o Shirasagi-no Mai è una particolare danza molto antica
che ha le sue radici in un rituale dello Shintoismo e nel Festival di Gion
di Yasaka Shrine a Kyoto risalente al periodo Heian. Reintrodotta solo nel
1968 per celebrare i cento anni di Tokyo capitale del Giappone, la danza
riproduce la scena di un corteo rituale per pregare per la pace dopo lo
spostamento del sito del tempio in cui si svolge. Il corteo è composto da
vari personaggi in costume dell’epoca Heian e da una serie di ballerini
con il costume che rappresenta l’airone o gru bianca. Anche nella
tradizione greca esiste una vera e propria danza della gru connessa con il mito teseico del labirinto e
quindi con Creta. Nel mito, si racconta che Teseo, dopo aver sconfitto il
Minotauro nel labirinto, avrebbe celebrato la vittoria danzando a Nasso
per alcuni, a Delo per altri, una danza chiamata appunto danza delle gru o
del labirinto, che avrebbe riprodotto in gesti e spirali l’avventura di
discesa dell’eroe agli Inferi e di sua ascesa da vincitore. Una danza
simile, con altrettanto uguale valore apotropaico nei confronti nella morte,
è oggi diffusa nella cultura greca.
3.
Asakusa Kannon è uno dei quartieri più caratteristici e famosi di Tokyo. Situato nella parte
nord-est della città, delimitato a est dal fiume Sumida, ha come
suo fulcro il tempio Sensōji, dedicato a Kannon Sama, la
dea buddista
della misericordia; questo luogo di venerazione è il più antico di Tokyo. La via principale
del quartiere passa davanti al Kaminarimon (Porta del
tuono) con la sua chōchin,
l'imponente lanterna di carta rossa. Tra le attrazioni
della via, si notano i ragazzi vestiti nei tradizionali abiti dei portantini,
disponibili a trasportare in giro per il quartiere i turisti in risciò.
Ai lati della famosa Nakamise-dori,
principale via che immette alla porta Kaminarimon e che conduce al
Sensōji, sempre affollata di visitatori, si trovano numerose bancarelle di
prodotti tipici: souvenir, vestiti tradizionali, parrucche da samurai, peluche,
giocattoli.
- Ko-Omote è una tradizionale maschera del Teatro No, usata
anche durante i Matsuri, ovvero le feste popolari, per celare il proprio
volto. Rappresenta il volto di una giovanissima donna di grande bellezza.
Ovviamente, il suo viso rispecchia i canoni di bellezza di un Giappone
molto antico, e che presero forma specialmente durante il Periodo Heian
(dal 794 al 1185). All'epoca, le donne giapponesi si depilavano
completamente le sopracciglia e se le disegnavano ben più su rispetto alla
posizione naturale che queste hanno, usando tratti spessi e sfumati. Anche
l'acconciatura riflette le vecchie mode molto seguite in quel periodo.
Pensate che nell'epoca Heian le donne non si legavano i capelli, ma li
lasciavano sciolti, e più lunghi erano, più aumentava il fascino della
donna stessa. Solo tempo dopo, le donne giapponesi hanno iniziato a creare
acconciature diverse, legandosi i capelli in un modo piuttosto che un
altro. Come avrete notato, inoltre, Ko-Omote ha i denti anneriti. La sua,
però, non e' un'irrecuperabile carie, bensì un simbolo che, secondo gli
usi dell'epoca, contraddistingueva le donne ancora nubili da quelle già
sposate. Le donne maritate potevano tranquillamente sfoderare smaglianti
sorrisi. L'annerire i denti era, quindi, un modo che le donne usavano per
rendere pubblico il proprio stato civile. E' da notare però che
quest'usanza non era legata ad una scelta personale, ma aveva
un'osservanza quasi obbligatoria imposta dai dettami dell'epoca. Pare,
però, che quest'usanza avesse anche dei risvolti sanitari in quanto si
credeva che la sostanza utilizzata avesse proprietà anti-batteriche, e che
fosse quindi in grado di combattere efficacemente l'insorgere di carie e
di altri disturbi dentali.
Nella fanfic Marin indossa questa maschera al posto di quella
tradizionale da sacerdotessa come compromesso per accompagnare il fratello e
contemporaneamente non rinunciare ad una regola che sente parte di se stessa.
- Dembo-in si trova ad Asakusa ed è un magnifico giardino che
sembra sia stato creato nel XVII secolo da Kobori Enshu, genio nel disegno
dei giardini zen. È di solito frequentato pochissimo ed è di una serenità
assoluta. Il periodo migliore per visitarlo è in primavera quando
fioriscono i glicini. Un percorso tranquillo circonda il laghetto offrendo
una vista diversa da ogni punto. Gli unici suoni sono quelli degli uccelli
e dei pesci che saltano. Un’insegna in inglese sulla Dembo-in-dori a poco
più di 100 metri ad ovest dell’incrocio con Naka-mise-dori indica
l’entrata attraverso un grande cancello in legno. Il giardino è parte
dell’abitazione dell’abate del tempio Sensōji e
potrebbe essere chiuso se ci sono ospiti.
- Icaro (in greco Ikaros) significa sacro alla dea Kar-Ker, antico nome
per una dea cretese e forse anche frigia e orientale della vita e della
morte, la cui epifania è un’ape con le corna di torno e spesso connessa
alle alate Keres, simbolo dei rischi della guerra. Nella sua forma
positiva di vita, Kar-Ker è assimilabile alle grandi figure di Dee madri
mediterranee, come Cibele o la stessa Artemide, che con lei condivide
l’elemento vivifico come protettrice dei parti e mortifero come dea della
morte violenta, oltre alla ferinità della caccia, contraltare mitologico
spesso connesso alla guerra.
- Il mito di Icaro che, sfuggito con il padre Dedalo all’insidia
del labirinto, muore precipitando in mare, è nella fanfic solo accennato,
preferendo riprendere invece la variante più antica, di cui quasi non si
conserva memoria, e soprattutto l’elemento simbolico-rituale. Icaro
sarebbe, in quanto paredro della dea madre di Creta, la Potnia Theron o
Signora dei serpenti assimilata nel tempo con la greca Artemide,
l’elemento maschile destinato al sacrificio per fecondare la terra. L’elemento
delle ali e della danza, inoltre, si riconnetto alla figura del
re-sacro-solare, presente in Creta fin da epoche antichissime e connesso
alla stessa figura femminile di Dea madre. Secondo tale rituale il
sovrano, che riceve la propria investitura solo da parte della regina, che
rappresenta l’elemento divino femminile, avrebbe regnato per un tempo
prestabilito, per poi essere ucciso ritualmente e sostituito da un nuovo
sovrano. Il tempo di reggenza, passato da pochi giorni all’anno lunare,
sottolinea lo stretto legame del re-sacro con la luna e la morte rituale
riconnette a cruenti riti di fertilità di cui a Creta ci sarebbero
testimonianze nel sito di Anemospilia, a pochi chilometri da Cnosso. Con
il tempo, poi, al re-sacro si sarebbe sostituito un sovrano fantoccio che
avrebbe governato per un giorno alla morte simbolica del sovrano reale,
per essere poi ucciso per aspargere la terra fecondatrice con il suo
sangue/seme. L’elemento delle piume, inoltre, è strettamente collegato
alla danza erotica che questo re-sacro avrebbe dovuto fare in onore della
dea madre, cui si configurerebbe indirettamente come sacerdote. Durante
questa danza-cerimonia, fra le altre cose, si offriva alla divinità miele, considerato il principale
alimento.
Accanto alla lettura religiosa, si pone quella psicologica, con il complesso di Icaro inteso come
aspirazione umana a valicare i propri limiti, interpretazione patologica di
quello che è il simbolismo racchiuso nel mito stesso e che costituisce il peccato
di hybris commesso dall’Icaro
mitologico (nella fanfic, la parola è stata tradotta con orgoglio).
- Iuktas è il nome del monte che chiude a sud la valle e la
collina Kephala dove sorge Cnosso e che presenta un incavo sacro alla
popolazione minoica, una specie di grotta santuario primordiale. Cnosso stessa è fusa con il
degradare delle colline che la circondano, seguendo il corso del fiume Kairatos che corre verso il mare.
- Il cipresso, così come il lauro,
il cervo, il lupo, i felini fra il cui gatto
sono tutti simboli di Artemide, oltre alla scontata luna.