Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Timcampi    13/01/2014    3 recensioni
«Se il tuo essere in calore è tanto pressante da indurti a far leva sull'ultima fame d'un condannato a morte, hai fatto acqua: non sono ancora tanto disperato da soprassedere a una faccia tanto repellente»
«Sono qui per salvarti la pelle, ingrato d'un pirata»
«Perchè?» domandò, ergendosi con difficoltà sui piedi nudi e avvicinandosi alle sbarre quel tanto che le catene gli consentivano.
La ragazza sorrise, mostrando una schiera di denti irregolari tra le labbra sottili.
«Perchè tu sei il più brillante pirata che abbia mai conosciuto»
«Cosa ci ricavi?»
«Niente che non sia tuo interesse aiutarmi a procurarmi»
«Mi toccherà esserti debitore?»
«A vita»
«Affare fatto»
Genere: Avventura, Azione, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Shoujo-ai | Personaggi: Christa Lenz, Jean Kirshtein, Marco Bodt, Un po' tutti, Ymir
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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Prologo

 

 

1702

Threewalls, Giamaica

 

Benchè non fosse nulla più che un ragazzo, non era la prima volta che finiva dietro le sbarre.

Questa volta, comunque, sarebbe stata certamente l'ultima.

Si abbandonò contro il muro umidiccio della fetida cella dentro cui era stato segregato, facendo tintinnare le catene che gli artigliavano i polsi e le caviglie, e lasciò poi vagare lo sguardo sulla monotona oscurità che lo circondava. L'unica fonte di luce era la piccola finestra alla sua sinistra: attraverso le sbarre filtrava la debole, perlacea luce del plenilunio.

Si trascinò con fatica verso il fascio bianco proiettato sul pavimento e bagnò di luce le proprie mani incrostate di polvere e sporco.

Gli era sempre piaciuta, la luce della luna: era candida e fresca e pulita, come lenzuola di seta.

Con una punta di stizzita amarezza realizzò che l'astro aveva già compiuto un ciclo comleto, dal momento in cui era stato scaraventato in quel letamaio: se dapprima aveva avuto il fegato di non toccare neppure una briciola dei pasti rancidi e infetti che gli venivano passati di malagrazia tra le sbarre, lasciando quel privilegio ai topi che avevano l'abitudine di scorrazzare nel ventre di quell'inferno, aveva poi finito per cedere ai pressanti e fastidiosi morsi della fame, scaraventandosi sul proprio rancio quanto più in fretta poteva, perchè non divenisse preda di altri inquilini delle carceri, scarafaggi, topi o mosche che fossero.

Nonostante ciò, l'odore che impregnava ogni cosa, in quell'ambiente, non accennava a divenire più sopportabile, né quel cibo assumeva un sapore migliore, né il pallore della luna aveva smesso d'incantarlo.

Poco male, comunque: ancora poche ore, soltanto il tempo necessario perchè anche la luna lo abbandonasse, e poi le catene avrebbero lasciato il posto alla forca.

C'erano troppe cose che non era stato capace di fare, troppi luoghi della cui vista avrebbe desiderato godere, e il suo solo rimpianto era legato ad essi, e a tutti quei desideri ch'era stato incapace di raggiungere. Ma aveva avuto il privilegio di solcare i Sette Mari con le vele gonfie e la bussola impazzita, e questo pensiero aveva il grande potere di rincuorarlo un po' in quei momenti che, tutto sommato, non erano i peggiori della sua esistenza.

Si scostò bruscamente quando percepì un sinistro e disgustoso zampettio sopra la sua caviglia, schiacciando la schiena contro la ruvida superficie del muro.

Fu in quel momento che, preceduta dal rumore metallico di tre giri di chiave dentro la toppa, la porta della cella s'aprì in un assordante cigolio.

«Hai già detto le tue ultime preghiere?»

Il tenente Erwin Smith entrò con passi scricchiolanti dentro il fascio di luce, che parve quasi vibrare alla presenza della sua sagoma maestosa. Teneva le dita intrecciate dietro la schiena scrutando il giovane con cipiglio severo, gli occhi come due gelide gemme azzurre che brillavano dall'ombra di un sobrio tricorno nero.

«Proprio così. È per questo che non potrò destinarvene alcuna, tenente» rispose il prigioniero, con voce atona. Un istante più tardi, fu con altrettanta noncuranza che la ruvida suola d'uno stivale lo inchiodò a terra, la guancia premuta nella polvere.

«Lasciami però dubitare della clemenza dell'Onnipotente di fronte a individui della tua... specie» sibilò, lasciando libero il volto del giovane e pulendo con fare altero la suola contro il pavimento, prima di cominciare a percorrerlo nella sua lunghezza a passi lenti e cadenzati, con un portamento che si addiceva all'orgoglio della Marina di Sua Altezza Reale.

«Sorprendentemente vigorosi nella mente e nel corpo» proseguì «ma di indole depravata. Esercitate la vostra giovinezza in lotte intestine, risse, rapine, saccheggi, violenze d'ogni genere; bramate l'altrui, mentre sperperate senza ritegno i vostri miseri averi ottenuti tramite azioni a dir poco vergognose»

Quando incontrò nuovamente il suo sguardo, lasciò che il proprio indugiasse su quegli occhi grigi ormai annebbiati dalla patina della solitudine e della morte; ma perfino senza quell'odiosa luce che vi aveva fiammeggiato in passato, trovava la vista di quegli occhi ugualmente insopportabile.

«Pirati» concluse infine, scandendo ogni sillaba tra i denti quasi a voler prender bene la mira prima d'una stoccata letale.

Il giovane si limitava a fissarlo, dedicando alle sue spietate parole nient'altro che l'ombra d'uno sguardo ribelle.

Ancora un colpo, più forte e più secco, in pieno stomaco, tanto violento da costringerlo a portare le ginocchia al petto e a stringere i denti.

Ma non una parola, né un lamento. Non una sola preghiera.

«Tre dei miei uomini, tre miei valorosi e fidati compagni hanno perso la vita per la causa della tua cattura, e sebbene l'intero ammasso di feccia del tuo corpo non valga una sola goccia del loro sangue inglese, considero più che giusto che tu faccia ammenda rendendo a Dio la tua» proclamò in tono solenne, schioccando platealmente la lingua prima di dirigersi fuori dalla cella, lasciando il groviglio d'ossa e di pelle piagata che era stato un tempo il suo nemico rattrappito al suolo come un mucchio di stracci.

«L'alba è ormai vicina. Che la notte ti porti consiglio, e che Dio non sia eccessivamente misericordioso»

E con quell'augurio e con il tedioso rumore del chiavistello, il tenente lasciò le prigioni, lasciando il condannato nuovamente solo.

Ma non per molto.

Non trascorse che una manciata di minuti, prima che un rumore di passi attirasse nuovamente la sua attenzione.

«Pssst!»

Nessuna reazione. Decise di non voltarsi, comunque, e di restarsene raggomitolato dov'era. Era incredibile che vi fosse qualcuno con il fegato di disturbare la veglia d'un moribondo.

«Se vuoi farmi credere di star dormendo, piccola carogna, sappi che non ci casco»

Riconobbe quella voce: era la voce del ragazzo che gli portava il rancio ogni giorno, che gironzolava per le prigioni con un pentolone tra le braccia e che sembrava non essere in grado di portare a termine il semplice compito di riempire qualche scodella senza intrattenersi amichevolmente con tutti gli sventurati residenti di quell'altrimenti lugubre fortezza.

Era intollerabile.

«Non voglio la tua sbobba repellente come ultimo pasto, e non sono in vena di chiacchiere» tagliò corto, drizzandosi a sedere con un lamento infastidito.

«E allora lascia parlare me. E ti prometto una colazione da re» sibilò il soldato, avvicinando il volto alle sbarre fino a che il suo puntuto naso aquilino non vi penetrò.

«Ti ascolto» mormorò il prigioniero.

Il soldato ridacchiò compiaciuto. Lentamente, con la flemma di chi ha in serbo una sorpresa, si sfilò la lunga giacca scura e la gettò per terra.

«Questa roba è maledettamente scomoda» borbottò. Poi andò a sbottonarsi il gilet, e a slegare infine i lacci dell'ampia, raffinata camicia.

Il giovane aggrottò lievemente la fronte, quando si trovò di fronte a un paio di seni schiacciati sotto strette bede di garza, del tutto invisibili sotto la divisa.

Una donna.

«Se il tuo essere in calore è tanto pressante da indurti a far leva sull'ultima fame d'un condannato a morte, hai fatto acqua: non sono ancora tanto disperato da soprassedere a una faccia tanto repellente»

«Sono qui per salvarti la pelle, ingrato d'un pirata»

«Perchè?» domandò, ergendosi con difficoltà sui piedi nudi e avvicinandosi alle sbarre quel tanto che le catene gli consentivano.

La ragazza sorrise, mostrando una schiera di denti irregolari tra le labbra sottili.

«Perchè tu sei il più brillante pirata che abbia mai conosciuto»

«Cosa ci ricavi?»

«Niente che non sia tuo interesse aiutarmi a procurarmi»

«Mi toccherà esserti debitore?»

«A vita»

«Affare fatto»

«Bene»

«Bene»

«E ora fatti da parte, piccola carogna: vengo a salvarti»

Vide la ragazza collocare dei piccoli cilindri rivestiti da un sottile strato di carta in diversi punti della grata di ferro, da ognuno dei quali aveva origine un filamento; tutti i filamenti, poi, convergevano in uno solo.

«Tritolo, acido picrico, dinamite, cotone fulminante: una miscela di mia invenzione» gongolò, sfregando un fiammifero contro il cuoio dello stivale prima di accendere la miccia.

Il giovane si riparò nell'angolo più remoto della cella e sì coprì le orecchie; dopo che la detonazione scoppiò, però, s'accorse che il suo udito era terribilmente ovattato. Sperò non durasse per molto. In quanto alle catene, la sua salvatrice aveva avuto l'accortezza di procurarsi un'ascia: bastarono pochi colpi ben assestati, e tutto ciò che rimase della sua prigionia furono i bracciali di ferro che sarebbe stato costretto a trascinarsi dietro fino a che non avesse avuto una tregua abbastanza lunga da potervi provvedere.

«È strano che nessuno si sia accorto dell'esplosione» osservò.

«Ho fatto piazzare altre cariche nell'entroterra, per attirarli lontano da qui; dobbiamo sbrigarci e arrivare al porto, potrebbero aver lasciato qualcuno di guardia nei dintorni»

Schizzarono fuori dalla fortezza con la massima rapidità che i suoi arti irrigiditi e stanchi gli permettevano, mentre una fitta pioggia cominciava a picchiettare sulle loro spalle, poi seguì la ragazza in un vicolo, dove quest'ultima, sollevando uno spesso telo, rivelò degli oggetti nascosti sul ciglio della strada, nel canale di scolo dentro il quale scorrevano giornalmente i liquami della città: bizzarri cilindri d'ottone e un complicato intreccio di cuoio .

«Che accidenti è quella roba?»

«La via più veloce per il porto. Nonché una mia invenzione» ghignò l'altra, cominciando a tessere con mani sorprendentemente abili e indubbiamente allenate una ordinata ragnatela di cinghie e stringhe attorno al suo corpo.

«Stringiti a me»

«Prego?»

«Sta' zitto e non discutere, non abbiamo tempo» lo redarguì, spalancando le braccia.

Non aveva altra scelta che fidarsi.

Senza risparmiarle un orripilato sguardo di disappovazione, si strinse a lei con quanta forza potè, cercando d'ignorare il fatto che, per quanto la cosa non fosse affatto evidente, stesse cingendo a mo' di polpo il corpo di una donna.

«Reggiti forte» trillò, il volto contratto in un sorriso euforico.

E poi, cominciarono a volare.

Si libravano zigzagando tra i tetti delle case, i torrioni, le facciate, sorvolando le strade e a volte quasi sfiorandole, saettando lungo le vie della città coloniale dalle tre cinta murarie.

Se per un breve istante ebbe paura, questa lasciò presto spazio allo stupore.

E alla gioia.

«Allora, a chi sono debitore?» domandò

«Chiamami Hange» rispose la ragazza. Ma non ci fu bisogno che le rivelasse il proprio nome, perchè lei lo conosceva già: tutti conoscevano il nome della più giovane e chiacchierata mano lesta che il Mar dei Caraibi avesse mai allevato.

Il suo nome era Rivaille.

 

Sotto la luna piena, una bambina correva.

Correva ormai da due giorni.

Correva da quando aveva lasciato Old Harbour, un piede avanti all'altro, senza sosta, senza cibo se non una pagnotta rubacchiata e uno scarto di carne cruda e vecchia lanciata da un locandiere a un cane randagio ch'era ridotto pelle e ossa più di lei, troppo debole per lottare per il cibo e per la sopravvivenza.

Accolse con gratitudine le gelide gocce che le tempestavano il viso, spalancando la bocca al cielo e lasciando che la pioggia le scivolasse sulla lingua riarsa.

Sebbene lasciando il luogo da cui proveniva si fosse detta che non era importante dove sarebbe andata, purchè lasciasse il proprio passato alle spalle, iniziava a chiedersi quale meta scegliere, dove trovare riparo. Non voleva finire in un qualche bordello di Tortuga, dove probabilmente non sarebbe neppure riuscita a riscuotere il denaro sufficiente a mantenere l'aspetto sano e appariscente che una sgualdrina deve avere: era macilenta, scarna, bruciata dal sole, un'ombra tra le ombre della notte.

Avrebbe raggiunto il porto, si disse, abbassando e sollevando il petto a un ritmo irregolare, scossa da forti tremori.

Si concesse il lusso d'un momento, un momento soltanto, per osservare la luna. Tese una mano verso di essa, cinque dita ossute e callose contro il cerchio immacolato.

Doveva trovare un luogo in cui riposare, riflettè, almeno fino a quando non avesse smesso di piovere.
D'un tratto, udì delle grida strazianti squarciare l'oscurità: provenivano da una finestra alle sue spalle, oltre l'alta cancellata di ferro contro la quale la sua schiena aveva trovato ristoro.

Da essa proveniva un fascio di luce dorata.

Incuriosita, strisciò sotto il cancello, incurante del fango che le insozzava gli abiti logori, e s'intrufolò in un ampio, verdeggiante giardino: la casa era bianca, in puro stile inglese, circondata da alberi frondosi. Persone molto ricche dovevano abitarla.

Percorse il perimetro della villa fino a trovare una finestra lasciata aperta. Soppesò la situazione e tentennò per alcuni istanti, prima di scavalcarla.

Nonostante il buio pesto, la sua vista aguzza le permise di scorgere alcuni oggetti che le fecero intuire di essere nelle cucine. Sgattaiolò fuori, lanciando occhiate a destra e a sinistra prima di imboccare, uno dopo l'altro, diversi corridoi, assicurandosi di non imbattersi in nessuno dei residenti: stranamente, però, potè giungere indisturbata nell'atrio della magione.

Udì voci concitate e passi frenetici provenire dal piano superiore, intervallati da altre urla: il fermento era tangibile nell'aria.

Non era ben conscia del perchè lo stesse facendo, né di cosa sperava di ottenere infiltrandosi in casa di ricchi sconosciuti per di più chiaramente troppo impegnati per curarsi d'una ragazzina stremata e affamata, ma si sa, la curiosità muove il mondo, e il destino fa la sua buona parte.

Si sfilò le scarpe zuppe di pioggia, per non far rumore, si fece coraggio, e poi prese a salire le scale che portavano di sopra.

Seguì il chiasso e la luce, e si nascose dietro un alto vaso di porcellana quando, dalla stanza illuminata, uscirono un uomo corpulento e una donna minuta in abiti da cameriera.

«Non agitatevi, Governatore, vedrete che andrà tutto bene» frignava la donna, mentre l'uomo percorreva a grandi passi il corridoio blaterando colorite imprecazioni.

Respirò a fondo, prima di uscire dal suo precario nascondiglio e di zampettare fino alla soglia della stanza.

Quattro donne ne circondavano una quinta, stesa tra cuscini e lenzuola madide di sudore su di un letto a baldacchino, immerso in un surreale esercito di candele accese.

Un parto.

«Ce l'avete quasi fatta, signora, manca poco!»

«Coraggio, padrona, ancora una spinta, ancora una!»

Quasi dimenticò dov'era, chi era, cosa stava facendo prima di arrivare là: tutto il mondo, in quel momento, gravitava intorno a quel letto a baldacchino, lei compresa.

«Ben fatto, padrona, siete stata bravissima»

«È una bambina bellissima»

«Vi somiglia tanto, signora»

«Ha gli occhi del padrone. Oh, è bellissima!»

Il dolce scampanellio dei primi vagiti accompagnarono i commenti che seguirono la nascita della bambina. La piccola folla che faceva capanna intorno al letto, però, non le permise di vederla.

Al suono dei passi che seguirono, però, tornò nel suo nascondiglio, mentre il Governatore entrava con ampie falcate dentro la stanza.

«Una femmina...» fu il suo primo, disgustato commento. «Puttana! Lurida cagna che non sei altro! Io ti accolgo in casa mia e tu non sei neppure capace di darmi un erede?!»

Si morse il labbro, mentre lacrime tiepide cominciavano a scenderle lungo le gote costellate di lentiggini. Non poteva far niente.

«Governatore Reiss, calmatevi, vi prego»

Quel che seguì fu un fiume d'insulti da parte dell'uomo, e di lacrime angosciate da parte delle levatrici.

Poi, una di loro parlò di nuovo.

«Quanto sangue...»

La bambina tese le orecchie fino allo spasmo.

«Signora? SIGNORA!»

«È... morta»

Vide l'uomo uscire dalla camera e scomparire giù per le scale, stizzito e trafelato. Strinse i pugni, maledicendo la propria impotenza.

Una delle donne uscì dalla stanza recando con sé il prezioso fagotto, e lei decise di seguirla, acquattandosi nel buio quando quella entrò in un'altra stanza, cullando la neonata tra le braccia.

«Historia» cantilenò la donna «È così che la padrona avrebbe desiderato chiamarti, e il padrone non avrà interesse a sceglierti un nome diverso»

A poco a poco, i vagiti si trasformarono in brevi singulti, e poi anche quelli svanirono, e la bambina si addormentò. La donna la depose nella culla.

«Ah, padroncina, se solo fossi nata maschio...» sospirò, prima di uscire dalla stanza.

E fu allora che lei vi sgusciò dentro.

«Historia, eh?» sussurrò. Tese un braccio nella culla per carezzare la neonata, ma si fermò, quando si rese conto di quanto sporca fosse la sua mano. «Sii forte» le ordinò, in tono perentorio.

La bambina dormiva placidamente, immersa tra candide coltri di seta, raso e merletto, innocente come ogni bambino e bella come pochi, ignara dell'odio che già aleggiava sopra il suo piccolo capo dorato e, come ogni essere umano, già disperatamente bisognosa d'amore.

Senza accorgersene, la ragazzina sorrise.

Non si accorse, però, neppure dei passi che si fecero sempre più vicini, proprio alle sue spalle.

«E tu chi sei?» tuonò Lod Reiss, la cui ombra si stagliava minacciosa sulla soglia della camera. «Chi ti ha fatta entrare?»

Non cercò neppure di sfuggirgli. Lasciò che le sue mani l'arpionassero per i capelli, prima di realizzare quel che stava accadendo, e a nulla valsero i suoi tentativi di divincolarsi e le sue grida: venne trascinata dabbasso tra gli sguardi pietrificati della servitù, e poi oltre la porta e il cancello, sotto la pioggia, senza le scarpe e dolorante in ogni parte del corpo. La punta di uno stivale si abbattè sul suo viso, prima che il volto feroce e sprezzante del Governatore di Threewalls scomparisse alle sue spalle.

Si rimise in piedi, arrancando e incespicando fino a mettere alcuni passi tra sé e la casa, prima di voltarsi indietro.

«Historia» mormorò a mezza voce, passandosi una mano sul viso per lavare via il sangue che le sgorgava dal naso «Aspettami. Tornerò a prenderti, te lo prometto»

E poi, la bambina si dileguò sotto la pioggia in direzione del porto, una piccola luce tra le ombre della notte.

 

 

   
 
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