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Autore: MinaEcho    13/01/2014    4 recensioni
[Post-Neverland. SwanQueen. EVENTUALI SPOILER per chi non segue la messa in onda americana! Rating variabile.]
Regina, donna forte, tenace, autoritaria, complessa. Sola, distrutta dall'ingente peso delle conseguenze di azioni passate. Emma, determinata, testarda, instancabile. Orfana, ferita. Complementari, inconsapevolmente... o almeno, prima del viaggio sull'Isola per salvare loro figlio. Quando la consapevolezza ti colpisce allo stomaco come un pugno, ed accettare ciò che provi ti atterrisce e ti riempie, al contempo, con quel calore che credevi smarrito da anni.
(Gli avvenimenti della fine della 3x09, della 3x10 e della 3x11 non sono tenuti in considerazione)
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Emma Swan, Regina Mills, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I.
L'Arrivo

 



Si arrestò.
Il moto continuo e inerziale dell’automobile venne definitivamente annullato mentre il piede della conducente premeva più a fondo il pedale del freno. La mano destra fece ruotare la chiave nel cruscotto, rendendo muto il rombo basso e quasi impercettibile provocato dal motore della Mercedes. I fari, puntati ad illuminare il manto stradale di fronte al muso del veicolo, si spensero.
La donna liberò i polmoni dall’aria che i suoi muscoli intercostali avevano inconsapevolmente trattenuto, mantenendo lo sguardo fisso sulla strada deserta al di là del vetro del cruscotto. Ombre luminose, fastidiose e intermittenti si proiettavano sull’asfalto bagnato a causa della pioggia e della neve che da qualche giorno avevano deciso di imperversare sulla piccola e segreta cittadina del Maine. Rimase una manciata di secondi immobile, l’attenzione rivolta al lieve suono prodotto dal suo adesso regolare respiro. In lontananza, echi di ruote e acceleratori, appartenenti  a qualche altra sporadica auto ancora in circolazione.
I suoi occhi saettarono automaticamente verso lo specchietto retrovisore, ma soltanto per aver la conferma della desolazione della strada nella quale aveva deciso di parcheggiare la vettura. Quel microscopico e fugace movimento infranse l’equilibrio che sembrava essersi incoscientemente creato tra lei e l’ambiente silenzioso ed ovattato nel quale si trovava immersa. La consapevolezza dell’inequivocabilità del tutto le permise  di vincere la forza che irrazionalmente le impediva di muoversi, cosicché, dopo aver inspirato più ossigeno di quanto fosse probabilmente necessario, roteò lentamente il capo, permettendo alle proprie iridi di sostare sul portone alto e scuro al di là della strada. Era in legno massiccio, vissuto – per non dire alquanto malandato – e sovrastato da una cornice vetrosa opaca; la vernice bruna era in molti punti scrostata, e ciò gli conferiva un’aria ancora più attempata.
Sospirò rumorosamente. Ricondusse lo sguardo sulla strada dinanzi a sé, estrasse le chiavi dal cruscotto, recuperò la borsa adagiata sul sedile del passeggero, dolorosamente deserto, aprì la portiera e piantò il tacco della scarpa sinistra sul marciapiede, ergendosi allora sulla banchina desolata. Richiuse la portiera del conducente, e aprì quella posteriore per recuperare la grande teglia ancora relativamente calda che qualche minuto prima aveva deposto sul sedile, assicurandosi non si rovesciasse durante il tragitto. Strinse la teglia al petto, si raddrizzò e con il braccio che sosteneva la borsa chiuse la portiera e le sicure dell’automobile. Attraversò la strada (un altro profondo respiro) e, giunta innanzi al grande portone, indugiò qualche altro secondo prima di premere il bottoncino che avrebbe reso manifesto il suo arrivo.
 
Dling-dlong!
 
Deglutì, percependo la cantilena metallica all’interno della dimora, e si irrigidì nel tentativo di controllare il nervosismo che aveva improvvisamente e prepotentemente dato inizio ad un incontro di boxe con il suo autocontrollo in una zona indefinita del suo addome. Il vetro opaco al di sopra del portone segnalò, tramite l’accensione di una luce nell’ingresso, l’arrivo di qualcuno. Una voce stava gridando qualcosa di indecifrabile, avvicinandosi.
La serratura scattò dall’interno, e il portone si aprì, rivelando la proprietaria della voce: una donna,
giovane, alta, slanciata. Lunghi capelli biondi erano raccolti sulla sua nuca in una crocchia elaborata ma leggiadra, sebbene alcune ciocche ricadessero morbidamente dalla fronte, sfiorando la pelle delle spalle; il viso era stato abbellito lievemente con un delicato rossetto rosso, un filo di eyeliner nero e del mascara per far risaltare le lunghe ciglia, coronanti degli splendidi e brillanti occhi cerulei. La pelle candida splendeva sotto la luce dell’anticamera, ed un sorriso accennato contribuiva ad illuminarla ulteriormente. Un vestito nero ricopriva le forme del corpo tonico e snello della giovane, lasciando esposte le spalle, le braccia, il collo, buona parte dello sterno (la scollatura non era eccessiva, ma metteva in ogni caso elegantemente in risalto il suo seno) e della schiena, e le gambe lisce e lucide dal ginocchio in giù. I tacchi neri aumentavano di non pochi centimetri la sua normale altezza… e tutto il complesso sembrava aver dimezzato proporzionalmente e inaspettatamente il respiro che la donna ancorata sul marciapiede aveva cercato non senza sforzo di rendere il più regolare e controllato possibile.
In un lampo di coscienza, quest’ultima sbattè le palpebre, si schiarì la gola e abbassò gli occhi sulla stagnola che ricopriva la teglia stretta tra le sue mani, nel tentativo di tenere sotto controllo l’improvviso inaridirsi delle proprie papille gustative e il flusso di sangue evidentemente intenzionato a farle avvampare scioccamente le gote.
 
Si inumidì rapidamente le labbra e rilassò la schiena, prima di aprir bocca e dire, con il tono di voce più neutro possibile: “Oh, ehm… scusa per il ritardo! - accennò un sorriso e alzò gli occhi, incontrando quelli cristallini della bionda di fronte a lei – Ho portato una teglia di lasagne. Buon Natale!”
Con un movimento del capo accennò all’involucro sorretto dalle sue braccia.
 
La bionda, dal canto suo, si ergeva staticamente sull’uscio, una mano ancora salda sul pomello del portone, le palpebre più sollevate del consueto, le sopracciglia leggermente inarcate e le labbra poco dischiuse nell’ombra del sorriso che sembrava ora essersi congelato.
Udendo le parole dell’altra si riscosse e indietreggiò, permettendole l’accesso e chiudendo il portone alle sue spalle.
 
“E-ehi… ben arrivata!” boccheggiò, tentando di ricomporsi. Istintivamente, tese le mani per afferrare la teglia, ma la bruna, con fare naturale e non curante, si scostò dalla sua traiettoria, stringendo la terracotta tiepida al petto e ponendo la borsa su una panca accostata al muro, alla sua destra. Raddrizzò dunque la schiena, si sfilò il cappotto e si voltò nuovamente a fronteggiare l’altra, goffamente paralizzata nel gesto incompiuto. Incrociando il suo sguardo, la bionda realizzò, imbarazzata, quanto dovesse sembrare ridicola, e riportò le mani sui fianchi, senza tuttavia distogliere lo sguardo dagli occhi scuri della mora.
 
“Dunque…?” iniziò la nuova arrivata, facendo scorrere lo sguardo sulle pareti color panna dell’ingresso, in attesa di un invito a procedere. La bionda sgranò gli occhi e scosse appena la testa:
 
“Oh, sì, ma certo… accomodati!” farfugliò, abbassando lo sguardo e indicando una porta bianca proprio di fronte al portone d’ingresso.
Giusto in quell’istante, la suddetta porta venne aperta dall’interno.
 
“Emma?”
 
Il volto di un uomo fece capolino dallo spiraglio appena creatosi. Capelli scuri e arruffati coronavano un volto affascinante e stranamente colorito, una barba scura ed incolta circondava un ghigno splendente, appena fastidioso e quasi bambinesco, sovrastato da un paio di occhi azzurri inconsuetamente lucidi.
A quel richiamo, entrambe spostarono fulminee lo sguardo sul giovane; la bruna percepì i propri muscoli tornare d’improvviso e istintivamente alla rigidità di pochi istanti prima.
 
Dannazione.
 
Le iridi scure di lei, il più possibile impenetrabili e indifferenti, incontrarono quelle celesti di lui, il quale reagì raddrizzandosi e spalancando la porta, il sorriso più pronunciato – e più fastidioso.
 
“Oh-oh, guarda chi è arrivato… la nostra Regina Malvagia, a quanto pare!”
 
Indossava il solito cappotto di pelle nera, lungo e lucido, logoro quanto gli indumenti da pirata ai quali faceva da rivestimento. Un uncino fece la sua comparsa dal braccio poggiato sull’addome dell’uomo, splendente e ormai ben poco minaccioso, mentre questi si abbandonava di peso sulla schiena, appoggiandosi allo stipite della porta.
 
“Vedo che il tuo guardaroba è preda di una rassicurante battuta d’arresto, Capitano… devo ammettere che per un istante ho temuto di vederti spuntare con indosso una giacca cremisi e un ridicolo cappello rosso e bianco… stavo persino arrivando a immaginarti brandire una campanella dorata a ritmo di un disarmante ‘Oh-oh-oh, Merry Christmas!’” rispose la bruna, sforzandosi nell’imitare la roca e profonda voce di Santa Claus con l’accento britannico tipico di Hook. “Però, beh, a pensarci bene… potresti anche avere un futuro!”
 
Un sorriso beffardo e pungente le colorò il volto, mentre avanzava con passo sostenuto, costringendo l’uomo a scostarsi dalla sua traiettoria e liberare il passaggio. Una punta di soddisfazione si fece spazio nel petto della bruna, seguita da uno spontaneo sorrisetto a mezze labbra, che venne immediatamente e premurosamente represso.
Senza guardarsi indietro, la donna raggiunse la sala dalla quale percepiva provenire un sempre crescente brusio. Attraversò uno stipite rettangolare in legno e fece il suo ingresso in quello che doveva essere il vano più ampio della dimora. Solo alcuni si accorsero prontamente del suo arrivo e, proprio mentre si avviava verso il tavolo del rinfresco all’estremità opposta della stanza, una voce squillante ed entusiasta echeggiò tra le pareti della sala: “Mamma!”
 
Immediatamente una sensazione di calore e familiarità invase il petto di lei; un sorriso spontaneo e luminoso le distese le labbra, gonfiandole le gote. Ripose rapidamente la teglia sul tavolo che nel contempo era riuscita a raggiungere, e, voltatasi, accolse con sollievo e tenerezza il corpo del figlio, giunto di gran carriera a cingerle il busto vigorosamente.
 
“Ciao, tesoro…” La sua voce era calda e rassicurante, colma d’affetto e conforto, mentre le sue mani si addentravano tra i capelli del ragazzino, accarezzandone la nuca. Erano passate forse poche ore dal loro ultimo incontro, ma, dopo Neverland, ogni istante di lontananza pesava più dell’immaginabile. Poggiò la guancia sul suo capo, socchiudendo appena le palpebre e stringendolo maggiormente a sé.
 
“Regina… ben arrivata.”
Una voce pacata e chiara interruppe duramente quell’istante di intimità. Regina ispirò profondamente, prima di allentare malvolentieri la stretta attorno alle spalle del figlio, riaprire gli occhi e alzare il capo.
 
“Buona sera, Mary Margaret.”






Angolo dell'Autrice
Ebbene, ecco qui il primissimo capitolo della primissima fanfiction che scrivo in vita mia! Yuppi! Insomma, sono tesissima, spero vi piaccia! Avevo assolutamente bisogno di scriverla (lo hiatus e le vacanze appena passate mi hanno ispirata! :D), dunque credo che non tarderò a farmi risentire... ovviamente è solo un assaggio, ma non aggiungo altro! A presto.
  
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