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Autore: ellacowgirl in Madame_Butterfly    13/01/2014    6 recensioni
(Seconda Classificata al Crack Paring Contest indetto da stella89f sul forum di efp)
La Mizukage e l’Hokage erano due donne forti, le più forti.
Erano due kunoichi rispettate e dalle abilità incredibili.
Erano state capaci di scalare la vetta dei Villaggi col solo scopo di portare loro benessere, salute e pace.
Erano due donne forti, Mei e Tsunade, ma pur sempre umane.
Conoscevano il dolore così come l’amore.
Conoscevano l’angoscia così come la speranza.
E quando due anime distrutte si incontrano, mettono insieme i pezzi dei loro cuori e cercano di rimettersi in piedi: per i loro paesi, per i loro amici, per se stesse.
(MeixTsunade)
[Storia partecipante al Contest “Uno sguardo vale più di mille parole” indetto da Himeko Kuroba sul forum di Efp;]
Genere: Angst, Drammatico, Erotico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yuri, Crack Pairing | Personaggi: Mei Terumi, Tsunade
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Naruto Shippuuden
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Obsession

La luna era alta nel cielo, quella sera.
Un faro luminoso in quella notte lugubre, scura, che sapeva ancora di sangue.
Sangue versato ingiustamente, sangue che ancora ricopriva i campi di battaglia, sangue che aveva sporcato anime bianche sino a quel momento.
Sangue sangue e ancora sangue.
Sospirò, portandosi una mano sulla fronte mentre socchiudeva appena gli occhi: troppe immagini di morte le scorrevano davanti, troppe vite gettate in pasto alla brutalità.
Il cuore le fece male per un attimo, l’ampio petto si abbassava ed alzava con ritmi ancora sregolati, mentre cercava di quietare quelle angosce.
Strinse con maggior forza il bicchiere di cristallo che teneva fra le mani, tanto che questo andò in mille pezzi dopo pochi attimi, lasciando che il liquido rossastro contenuto all’interno le sporcasse la mano.
«Dannazione…» imprecò aggrottando ulteriormente la fronte, senza però scomporsi più di tanto.
Rimase con entrambe le mani appoggiate alla ringhiera della balconata, le braccia dritte e rigide, il volto dai lineamenti delicati ancora pervaso da rancorosi pensieri.
Poi il suono di tacchi che picchiettavano sul pavimento interruppe quel silenzio quasi straziante, ma lei non si curò di cambiare posizione, di tornare a recitare la parte della vincente, della soddisfatta.
«Shizune, credevo di essere stata chiara. Non ho intenzione di tornare là dentro e brindare come se fossimo una banda di ipocriti.» Erano parole molto dure, quelle pronunciate dall’Hokage.
Parole dette con l’animo di chi si sente ancora tremendamente in colpa per un dovere mancato: quello di salvare e proteggere ogni singola vita.
I passi si fermarono dinnanzi a tali parole, ma la presenza percepita era a neanche due metri da lei.
«Mi scusi, Hokage. Non volevo disturbarvi.» La voce era composta ed elegante, con quel pizzico di femminilità che non sarebbe mai passato inosservato.
Tsunade sospirò pesantemente, si sollevò completamente diritta ed assunse una postura più consona al suo ruolo, così come alla propria persona.
Ma non si volse verso la kunoichi di Kiri, il cui sguardo poteva soltanto delineare una figura elegante vestita con un abito lungo e la schiena scoperta, la pelle chiara alternata a lunghi capelli dorati.
Forse avrebbe dovuto dire qualcosa, magari scusarsi per il tono scortese che aveva adoperato dinnanzi alla Mizukage, ma da quelle labbra rosse non uscì alcun suono.
Il suo sguardo era ancora perduto chissà dove, l’attenzione volta al nulla.
E l’orgoglio che ribolliva assieme ai rancori.
Mei comprese quel silenzio, le sembrava di sentire ancora le urla di dolore e di terrore che le giungevano alle orecchie senza che lei potesse fare molto.
Affiancò l’Hokage in quella silenziosa commiserazione: dopotutto, nemmeno lei aveva poi così voglia di festeggiare, quella vittoria non si poteva considerare tale, date le numerose perdite subite.
Date le troppe vite spezzate nel sangue.
«Scusa, Mei. Non sono dell’umore.» Disse semplicemente, il tono perennemente forte ed autoritario.
Non si curava né di darle del “lei” né di nominarla con la carica che ricopriva. Difficile dire se questo fosse dovuto alla differenza d’età o piuttosto ad un fare confidenziale, che chissà perché in alcuni casi Tsunade concedeva deliberatamente, ma non a tutti.
Il lungo abito cristallino della Mizukage frusciò ad ogni suo passo, raggiunse la balconata e si appoggiò ad essa con i gomiti: non si sarebbe mai permessa una posa tanto informale, se non fosse stato che dinnanzi avesse una donna che poteva capirla più di ogni altro.
Le iridi ambrate la osservarono solo per un attimo, ne delinearono il profilo fin troppo provocante, ma immediatamente tornarono al lago che si estendeva davanti a loro, il riflesso della luna che ne illuminava la superficie.
«Vi ho osservata a lungo, Hokage. E credo di poter dire di non aver mai visto una persona come voi.»
Inarcò un sopracciglio chiaro a quelle parole, ma ancora una volta lo sguardo non si volse alla Mizukage. Ancora fredda, ancora distante, ancora diffidente.
Eppure avevano combattuto una guerra, assieme, si erano sostenute e protette.
«Cosa ti fa pensare che io sia diversa dagli altri, là dentro?» Le domandò per andare al punto, senza tanti giri di parole.
Non era in vena di parlare, era uscita da quella sala festosa proprio per crogiolarsi nel proprio dolore, affrontarlo di nuovo… ma la kunoichi di Kiri gliel’aveva impedito.
«Voi non ci siete, là dentro.» Le sorrise socchiudendo l’iride visibile, e soltanto questa volta la bionda si volse verso di lei.
Osservò quelle labbra socchiuse, quei lineamenti tanto delicati, quell’intelligenza viva e brillante che si lasciava intravvedere dietro semplici parole.
L’aveva osservata per davvero.
«Sei ingenua, Mei. Troppo per il ruolo che ricopri.» Le disse schiettamente, ma quel tono era modulato, pacato, quasi garbato.
Non era la classica critica spietata, ma una semplice osservazione, nemmeno troppo sentita.
Mei sembrò capire le sue reali intenzioni, tanto che non si mosse dall’espressione serena che aveva in volto: era un modo come un altro per essere protettiva, quello di Tsunade, voler mettere in guardia chiunque di fronte alla brutalità della vita, se stessa compresa.
«O siete forse voi ad essere troppo dura?» Tsunade non distolse lo sguardo dopo quell’affermazione, Mei sospirò e si alzò elegantemente dalla ringhiera, volgendosi completamente verso l’altra.
Le si avvicinò di un passo, lentamente, come stesse ancora tastando il terreno, mentre la decisione brillava nello sguardo di entrambe: sereno in uno, freddo nell’altro.
Si avvicinò ancora, ridusse la distanza tra loro ad un paio di centimetri.
Si fissavano, si sfidavano con lo sguardo, due donne potenti e forti quanto tremendamente umane.
Perché lo erano, sotto quegli abiti e quelle cariche: erano due persone che avevano sofferto, anche se in modo diverso, e conoscevano l’importanza di ogni singolo gesto.
Allungò una mano verso Tsunade, le unghie smaltate di blu andavano avvicinandosi alla pelle scoperta del seno prosperoso.
Le sfiorò appena il bordo dell’abito, un brivido percorse la schiena dell’Hokage senza che nemmeno lei se ne accorgesse.
E quell’iride di un verde brillante che non accennava ad allontanarsi da lei.
«Vi siete sporcata l’abito, Hokage.»
Si sarebbe aspettata molte parole, molti gesti, ma non certamente quelli.
Nascose come meglio le riuscì lo stupore, il disorientamento stesso per quell’averla sfiorata con un’insana grazia, delicatezza: se fosse stato un uomo l’avrebbe già sfigurato.
Non abbassò lo sguardo per controllare, restò fissa su di lei, le mani quasi le tremarono.
«Lo so.» Si limitò a dire, Mei sorrise di nuovo, ritraendo la mano con un gesto teatrale.
«Se volete posso prestarvene un altro. Mi sembra il minimo, considerando che siete ospite a Kiri.»
Era un tono maledettamente cortese, ma Tsunade era pur sempre un carattere fin troppo forte ed autoritario.
Avrebbe voluto negare quella gentile offerta, non le importava poi molto di quel vestito o di una stupida macchietta rossa.
Abbassò distrattamente lo sguardo notando, però, che era gran parte dell’abito ad essersi sporcato. Strinse i denti ed imprecò a labbra serrate. «Forse è il caso, grazie.» Si limitò a dire, socchiudendo le iridi per un secondo, come a voler contenere la rabbia e la frustrazione.
Troppe emozioni in uno stesso momento: sconforto, angoscia, eccitazione…
… eccitazione?
«Venite, evitiamo di passare di nuovo per il salone.» Le disse gentilmente, facendole strada.
Tsunade sul momento non si mosse, come se qualcosa dentro di lei – forse la diffidenza – le dicesse di non seguirla.
Ma scacciò quel pensiero del tutto insensato, probabilmente era ancora troppo presa dai sentimenti precedenti, da quei sensi di colpa: troppi scheletri nell’armadio, troppo dolore accumulato negli anni, troppa forza necessaria per reprimere ogni cosa…
La seguì discretamente per i corridoi, non si dissero nulla, sin quando non giunsero alle stanze personali della Mizukage.
Fu lì che Tsunade si fermò, senza azzardarsi ad entrare, conscia della privacy che chiunque avrebbe preteso.
«Non mi sembra sia il caso che io entri.» Disse prontamente, incontrando di nuovo soltanto uno sguardo dolce e naturale. «Non siete un uomo, non vedo perché non dovreste.» Insistette la Mizukage, immobile sulla porta aperta per metà.
L’Hokage esitò di nuovo, incrociando le braccia sotto il seno prosperoso.
«Non voglio disturbarti, Mei. Posso aspettare che qualcuno me lo porti in stanza.» Replicò di nuovo, mentre una morsa le stringeva il petto.
Perché quelle sensazioni?
L’angoscia non era ancora passata?
Il battito accelerò inspiegabilmente nel momento in cui Mei le sorrise di nuovo, scaltra, furba, tremendamente perspicace.
«Non esagerate, Hokage. Per me non c’è alcun problema.» Le disse invitandola ad entrare.
Tsunade roterò le iridi al cielo per poi acconsentire, avanzando di qualche passo.
Chiuse delicatamente la porta alle proprie spalle, fece per voltarsi, ma si ritrovò due labbra al sapor di fragola che premevano garbatamente sulle sue.
Sgranò le iridi, completamente sconvolta da quella situazione: il brivido lungo la schiena si fece più intenso e frequente, le mani presero a tremarle, le reazioni si azzerarono.
Mei azzardò ancora, avvicinò il proprio corpo a quello dell’Hokage, facendo aderire i loro seni prosperosi, mentre le sue mani andavano a cingere i polsi della bionda.
Si staccò solo per un attimo, il tempo di sentire il battito irregolare dell’altra, di specchiarsi in quelle meravigliose iridi ambrate.
«Allontanami, se vuoi, Tsunade. La forza non ti manca…» era una provocazione calibrata su misura per quell’occasione, un sorriso quasi beffardo comparve sul volto della Mizukage.
Tsunade riacquistò il controllo poco dopo, si liberò rapidamente della stretta ai polsi e fu lei a immobilizzare quelli dell’altra.
Lo sguardo prima stupito si fece più serioso, per non dire adirato: al di là di tutto detestava che qualcuno decidesse di lei senza il suo consenso.
«Sei ingenua, Mei. Te l’ho detto.» Le ribadì con un pizzico di irritazione, mentre l’altra non sembrava volersi allontanare da lei nemmeno per un istante.
«Almeno io non ho paura dell’amore.» Le tagliò il petto, quella risposta.
In poche parole, in un tono del tutto suadente quanto veritiero, Mei ruppe l’insormontabile barriera che Tsunade si era sempre posta davanti.
Non l’avrebbe fatta crollare, ne era certa, ma nessuno sino a quel momento aveva avuto il coraggio di tentare, di andare oltre, di metterla con le spalle al muro.
Lei, l’Hokage, la kunoichi più forte del suo tempo, messa al tappeto dai sentimenti.
Ancora una volta.
La fissò intensamente per un attimo, poi le lasciò i polsi con un gesto sgarbato e si allontanò di lato, camminando per la stanza con un autocontrollo impressionante.
Mei la seguì con lo sguardo, ma non avrebbe abbandonato facilmente il proprio obiettivo: era determinata almeno quanto l’altra, e l’aveva dimostrato in diverse occasioni.
«Perché, Mei?» Le chiese distrattamente, le mani appoggiate sui fianchi, lo sguardo che la osservava di striscio, l’abito ancora sporco di vino.
L’altra inclinò appena la testa di lato, di nuovo le labbra si aprirono in un sorriso beffardo, di chi la sa lunga, troppo lunga…
«Non lo vuoi davvero sapere.» Le rispose enigmaticamente: fisicamente non poteva competere, con una forza della natura come Tsunade.
Ma l’aveva osservata, studiata tanto attentamente da apprenderne, intuirne ogni singolo punto debole, ogni piccolo spiraglio attraverso il quale giungere a quel cuore di ghiaccio.
«Ho almeno vent’anni più di te. Vent’anni!» Alzò la voce, in un misto di rabbia e sconvolgimento.
Perché il cuore accelerava i battiti, se non voleva davvero continuare quel discorso?
Perché i brividi le invadevano il colpo, alternando sudore a freddo intenso?
Mei sbuffò appena, accennando ad avvicinarsi. «Credi davvero che sia così importante? Non è questo che mi interessa.» Tsunade non indietreggiò, anche se avrebbe voluto, il suo orgoglio glielo impedì.
Era un gioco malsano, quello a cui stavano giocando.
E l’Hokage si sentiva sempre più in trappola, pur consapevole di potersene andare in ogni singolo istante.
L’ossessione dell’angoscia che la tormentava sotto tutti i fronti.
«Li ho provati tutti, Tsunade, tutti.» Il tono era meno suadente, meno fascinoso. Quelle parole erano un fiume in piena che avrebbe voluto straripare molto, molto tempo prima.
E Tsunade si sentiva sempre più in catene.
«Tutti idioti, tutti falsi, tutti ipocriti. Non hanno idea di cosa sia l’amore, non hanno idea del sacrificio, della passione, di quella sensazione d’angoscia che ti attanaglia il petto in ogni istante della tua vita, quando sai che la gente muore e tu non puoi fare nulla.» Si portò una mano al petto e strinse l’abito che lo copriva, la sua voce era una richiesta di comprensione, quasi di pietà.
E l’Hokage ascoltava, il cuore accelerava, la pressione saliva, la morsa si stringeva.
«Non hanno idea del vero dolore, di cosa significhi lottare per ciò che ami e renderti conto che ogni volta che ti guardi allo specchio hai perso tutto, ma devi andare avanti lo stesso.» Lei lo sapeva, lo sapevano entrambe.
Tsunade aveva perso chi amava, Mei era stata rinnegata da loro.
Tsunade aveva studiato tutta la vita per proteggere il proprio villaggio, Mei aveva sopportato e sudato per conquistarne la fiducia.
Lo sapevano, i loro cuori, lo sapevano fin troppo bene.
E nel mentre continuava ad avanzare.
Il suo sguardo era una supplica, una preghiera, mentre Tsunade lottava per mantenersi impassibile, per non lasciarsi andare all’istinto, in preda alle emozioni.
«Io non posso guarirti, Mei. Non esiste una tecnica per questo.»
Era una sentenza, la sua, una sentenza emessa senza pietà e senza ipocrisia.
Nessuno meglio di lei conosceva quella sensazione, nessuno meglio di lei aveva imparato a conviverci.
Mei si era avvicinata, fin troppo, aveva di nuovo allungato la mano, sfiorandole il volto.
Un brivido, l’ennesimo, e la forza di volontà che cominciava lentamente a cedere dinnanzi a quella straziante confessione: si guardavano allo specchio, solo con una diversa sensibilità.
«Non voglio guarire, anche il dolore è una parte di me. Vorrei solo…» ma la fermò un’altra volta, le cinse il polso e le allontanò la mano.
Non era stato un gesto brusco, ma sicuramente deciso: il suo cuore apparteneva già a qualcun altro.
«No, Mei. Questa è disperazione…»
Fu una precisazione che le frantumò l’anima in mille pezzi, tutti assieme, in un sol colpo.
Perché era la verità più nuda e cruda, perché l’aveva spogliata senza nemmeno toccarla.
Ed era forse questo che avvicinava davvero Mei a Tsunade, la sicurezza che quella donna tanto forte e matura sapesse leggerle dentro come nessun altro.
Perché, in fondo, non erano molto diverse.
Una lacrima rigò il volto della Mizukage, ormai disposta a giocare il tutto per tutto, disposta a mettere da parte l’orgoglio per esternare ciò che provava: disperazione, sì, ma anche e soprattutto desiderio di poter tornare ad amare.
«Tu non desideri che questo dolore cessi, Tsunade? Non desideri essere felice?»
L’iride smeraldo era lucente, quella lacrima precludeva una bellezza che nonostante tutto non sembrava destinata a sbiadire.
Tsunade, per la prima volta in vita sua, provò pietà.
Ma non quella fasulla e misericordiosa, non quella del perdono, non quella della successiva redenzione: no, era una pietà sentita e profonda, che le stringeva anima e cuore con ferocia, che le imponeva di cedere, di abbandonare l’orgoglio, anche se per ultima.
Sospirò ed abbassò appena il capo, le iridi che fissavano il pavimento: aveva senso continuare ad essere forte?
Aveva senso continuare a mentirsi?
«Sì, Mei. .» E non fece in tempo a dire altro che la Mizukage fu di nuovo addosso a lei, le labbra a stretto contatto, i corpi fin troppo aderenti, lo spasmodico bisogno di gettarsi l’una nell’altra.
Premette con forza, con bramosia di quel contatto proibito. La lingua azzardò a raggiungere quella dell’altra, un vortice in cui le bocche non si distinguevano, in cui il bisogno aumentava ad ogni attimo.
Si trascinarono sul letto senza staccarsi, con il cuore infranto, le volontà a pezzi, eppure ancora capaci di credere in uno straccio di sentimento, nonostante tutto e tutti.
La Mizukage e l’Hokage erano due donne forti, le più forti.
Erano due kunoichi rispettate e dalle abilità incredibili.
Erano state capaci di scalare la vetta dei Villaggi col solo scopo di portare loro benessere, salute e pace.
Erano due donne forti, Mei e Tsunade, ma pur sempre umane.
Conoscevano il dolore così come l’amore.
Conoscevano l’angoscia così come la speranza.
E quando due anime distrutte si incontrano, mettono insieme i pezzi dei loro cuori e cercano di rimettersi in piedi: per i loro paesi, per i loro amici, per se stesse.

(…)

La mattina successiva, Ao bussò alla porta della Mizukage un discreto numero di volte.
Non ricevette alcuna risposta, esitò parecchi minuti per un forte senso dell’educazione e del rispetto, ma la preoccupazione fu superiore.
Aprì lentamente la porta, lo sguardo cadde inevitabilmente su due figure femminili distese nel letto: nude, abbracciate, i solchi delle lacrime che rigavano entrambi i volti.
E le labbra appena distese in un sorriso.
Non disse nulla, né pensò nulla.
Chiuse di nuovo la porta con un sospiro ed anche a lui sfuggì un accenno di sorriso: amaro, ma pur sempre un sorriso.
«La Mizukage sta male?» Domandò Chojuro dietro di lui, escluso da quella visione.
Ao si volse lentamente verso quel volto ancora ingenuo, inconsapevole, ed anche a lui sorrise.
«Era molto tempo che non stava così bene.»



Spazio Burocrazie:
- 2^ Classificata al Crack Paring Contest indetto da stella98f sul Forum di EFP (con premio "Storia più romantica")
- Partecipante alla Challenge "Big P0rn Table" di Frandra sul Forum di EFP (2= luogo di lavoro/ 8= fragole/ prompt= notte)
- Storia partecipante al Contest “Uno sguardo vale più di mille parole” indetto da Himeko Kuroba sul forum di Efp;


 


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