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Autore: futacookies    13/01/2014    3 recensioni
After CoFA
Non c’era. Non c’era Jace, dove lo aveva lasciato poco prima, appoggiato alla ringhiera. [...] Era caduta, allora, e stava ancora cadendo. E il suo volo sarebbe durato chilometri, senza riuscire a trovare fine. Stava cadendo perché non aveva motivo di restare in piedi. [...] – Oh, Clary, io capisco benissimo. Solo che tu sei convinta che io non possa capire – era pronta a ribattere, ma fu rapidamente zittita da un’occhiata. – E ti dirò di più. Tu sei convinta che nessuno possa capirti, unicamente per l’egoistico motivo di trovare una scusa al tuo isolamento.
Genere: Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Clarissa, Jace Lightwood, Jonathan, Sebastian / Jonathan Christopher Morgenstern, Simon Lewis
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I.  Same sorrow


Osservava la pioggia cadere lenta, contro la finestra.
Lanciò un’occhiata laconica al blocco e ai pastelli che erano sparpagliati sul suo letto. Che, tecnicamente, era il letto della stanza degli ospiti di Luke.
Non sapeva da quando tempo era lì. Secondi, minuti, ore. Molto probabilmente, giorni.
Si rese conto che era da più di una settimana che non sentiva Simon. Comunque, pensò, è troppo impegnato con Jordan.
Il suo sguardo spento e arrossato dal pianto cadde su uno dei tanti disegni.
Jace.
Jace sul tetto dell’hotel Dumort.
Jace sul tetto dell’hotel Dumort pronto a spiccare il volo, con le sue ali candide.
Scaraventò il disegno il più lontano possibile da lei.
Sua, sua, sua, sentiva che la colpa di tutto quello che era accaduto era solo è unicamente sua. Nella sua mente erano ancora vivide le scene dopo la morte di Lilith. Non avrebbe dovuto lasciare Jace da solo. Sentiva, in qualche modo, che sarebbe stato un errore. E aveva sbagliato.
Quando erano tornati su in terrazza, con Maryse, Kadir, Alec, Izzy, Magnus e tutti gli altri, il mondo aveva incominciato a girare vorticosamente. Poi, si era fatto tutto buio.
Non c’era. Non c’era Jace, dove lo aveva lasciato poco prima, appoggiato alla ringhiera.
Non c’era Sebastian. La raccapricciante tomba nella quale avrebbe dovuto trovare la dannazione eterna – perché era molto improbabile che riuscisse a salire in paradiso – era vuota. E di loro non c’era traccia. Nulla.
Aveva sentito le mani di Isabelle sorreggerla per le spalle, ma lei voleva cadere, voleva svenire, voleva scivolare giù. Nelle tenebre, perché tanto, sapeva che non avrebbe più rivisto il sole.
Era caduta, allora, e stava ancora cadendo. E il suo volo sarebbe durato chilometri, senza riuscire a trovare fine. Stava cadendo perché non aveva motivo di restare in piedi. Jace. Jace. Jace. Da quando si era rinchiusa in quella stanza aveva la testa piena di Jace. Non era riuscita a mettere piede all’Istituto, disperandosi all’idea di non poter entrare furtivamente nella sua stanza, di non trovare quell'ordine maniacale, di non trovare lui. Perché, in parte, ne era sicura, lui era l’unico motivo per cui aveva deciso di continuare ad essere una Shadowhunter.
Ma, di tanto in tanto, le capitava di immaginare qualche runa, quando era in difficoltà. Il fatto che avesse bruscamente interrotto l’allenamento, non significa in automatico che i demoni avrebbero bruscamente interrotto il loro darle la caccia. Talvolta, era costretta a darsi alla fuga, rifugiandosi da Taki’s – non che fosse il luogo più sicuro del mondo –, o nel quartiere di Chinatown, dal branco di Luke, o, molto più sporadicamente, da Magnus. Le altre volte, aveva combattuto, riuscendo anche a cavarsela, con il chiodo fisso che Jace sarebbe stato orgoglioso di lei.
Ma c’era una parte di se stessa che gridava a gran voce di ricominciare. Di riprende in mano le redini della sua vita, di smettere di sfuggire a ciò che era e che sarebbe sempre stata. Prima della la battaglia contro i demoni di Valent… suo padre biologico, aveva notato il fervore negli occhi della madre, il desiderio di riuscire a vincere. Lei era una cacciatrice e lo sarebbe sempre stata, anche dopo anni di lontananza. E quel moto da qualche parte del suo cuore non smetteva di dimenarsi, per farsi sentire. Nonostante questo, avrebbe sempre sentito come se un pezzo di quel grande puzzle che era la sua vita non ci fosse stato. Non sarebbe mai stato completo. Avrebbe sempre sentito la mancanza di quegli occhi dorati, di quelle labbra morbide, dolci, ma allo stesso tempo passionali, desiderose di lei.
E cadeva, cadeva sempre più giù, in un abisso che sembrava senza fine. E se non avesse mai toccato la fine, non sarebbe mai riuscita a risalire davvero. Sarebbe sempre stata ad un passo dalla superficie, ma le sarebbe mancata la forza per  compiere gli ultimi metri. Le sarebbe mancata la forza che sapeva infonderle Jace. Perché sapeva credere in lei, anche nella situazione più intricata. Sapeva riporre fiducia in lei, quando nessuno sembrava disposto a farlo. Sapeva darle coraggio, anche se tutto sembrava perduto.
Aveva detto alla madre di aver bisogno di tempo, per metabolizzare la perdita. Se Izzy o Alec o anche Simon l’avessero sentita, l’avrebbero scaraventata contro un muro e riempita di schiaffi. Perché loro credevano in Jace. Credevano fermamente che sarebbe tornato, come un luminoso cavaliere che inabissava le oscurità. Lei sapeva che, finché fosse stato legato a Sebastian, non sarebbe stata in grado di dargli un pizzico di credito. Perché non era lui. Anche se avrebbe potuto sembrarlo. Aveva sentito Luke e Jocelyn parlare di questo suo “momento di depressione” e avevano concluso che sarebbe stata un’esperienza dolorosa. Ed era di questo che aveva bisogno. Esperienza. Doveva fare esperienza nella battaglia, fare esperienza per non avvertire la sua assenza ad ogni singolo respiro che non si fondeva con il suo, doveva avere esperienza. O trovare qualcuno che ne aveva. Pensò a quante persone conosceva abituate a perdere coloro a cui tenevano. I Lightwood avevano perso Max, e non erano ancora riusciti a riprendersi, e dato che la sua morte ancora le bruciava il cuore, decise che avrebbe dovuto evitare di riprendere quella vicenda. Simon… beh, non se la passava granché, perciò era meglio non disturbarlo. Comunque, nessuna delle persone a cui aveva pensato, comprese sua madre, Luke, Maia, perfino Jordan, l’avrebbero potuta aiutare a sconfiggere il dolore, perché ancora faceva parte di loro. Ci voleva qualcuno che avesse esperienza con l’assorbimento del dolore, qualcuno che si fosse costretto ad andare avanti, passo dopo passo, per un circolo vizioso che sapeva sarebbe stata anche la sua vita, se avesse accettato di prendere quella strada.
Non c’era davvero nessuno che potesse aiutarla. Poi, il suoi occhi verdi si posarono su un peluche. Un gatto.
E, in effetti, qualcuno potesse aiutarla c’era, e lo conosceva molto bene.
 
La metropolitana non le era mai sembrata tanto lenta. Scese, corse a perdifiato, fino a trovarsi di fronte a quella porta, che rievocava ricordi piacevoli, ma perlopiù dolorosi. Bussò, aspettandosi un’entrata in scena degna del padrone di casa. E si costrinse a sperare che Alec non fosse lì, poiché non era convinta che avrebbe trovato la sicurezza di tornare indietro, un’altra volta. La porta si aprì, rivelando il proprietario di quegli occhi da gatto. – Fiorellino cos… – si bloccò, rendendosi conto che no, lei non era affatto il suo fiorellino. Clary balbettò un paio di scuse incerte – forse per l’orario, forse perché non era un certo Shadowhunter con gli occhi azzurri, – ed entrò. Non si stupì di trovare uno stato confusionale che, pensò, avrebbe indotto Jace alla nausea.
– Già, difficilmente di dimentica tutto questo… – sospirò lo stregone, accarezzando un divano maculato.
Clary sussurrò qualcosa di incomprensibile riguardo il suo gusto nel arredare, attendendo con ansia che le chiedesse il motivo per cui si trovasse. Era convinta che Magnus stesse morendo di curiosità, e non sarebbe riuscita a spiegare tutto quello che le stava passando per la testa.
– Suppongo – incominciò lui – che io debba fare il primo passo – disse, con un mezzo respiro, come se la cosa fosse accaduta un centinaio di volte. – Dunque, mia piccola amica figlia di Raziel – proseguì, imperterrito, con un accenno di sorriso sulle labbra – cosa ti spinge a venire qui, nell’umile dimora del Sommo Stregone di Brooklyn? –.
La prima cosa che riuscì a pensare fu che quella “dimora” era tutto tranne che umile. La seconda cosa a cui pensò fu che l’aveva definita piccola.
E, beh, la terza cosa cui pensò non poté che essere: Jace. E fu quello, il nome che uscì lentamente dalle sue labbra, rispondendo alla domanda.
– Capisco – rispose, ma lei non era sicura fino in fondo che riuscisse a capire. Decise di aprirsi, di sfogarsi, anche se con la persona meno incline a prestare attenzione al frignare di una ragazzina in preda a una crisi ormonale. – No, Magnus. Tu non capisci – disse, facendo una pausa, per tentare di comprendere quello che  stava tentando comunicargli. – Tu non puoi capire – continuò, con il respiro talvolta strozzato dalle lacrime. Ed eccola lì, quella zavorra che la lasciava cadere, quello sconforto in cui era sicura sarebbe vissuta per sempre, finché non si sarebbe ricongiunta alla metà della sua anima, ora chissà dove con quello squilibrato di suo fratello. Ad essere sincera, da quando Lilith l’aveva definito il proprio figlio, lei preferiva considerarlo un fratellastro. Fu interrotta nel suo monologo interiore dalla voce incredibilmente seria del suo interlocutore. – Oh, Clary, io capisco benissimo. Solo che tu sei convinta che io non possa capire – era pronta a ribattere, ma fu rapidamente zittita da un’occhiata. – E ti dirò di più. Tu sei convinta che nessuno possa capirti, unicamente per l’egoistico motivo di trovare una scusa al tuo isolamento. Come pensi che stiano Alec e Isabelle? E Maryse? Lei lo considera un figlio, e come se le avessero tolto una parte di lei. Un’altra. Tua madre ha provato lo stesso dolore, mentre ti cresceva con la convinzione che suo figlio fosse morto. Luke viveva con lo stesso dolore, mentre girava in mondo alla vostra ricerca. Probabilmente anche Jace, in questo momento, sta provando lo stesso dolore. E, cara la mia pel di carota, non hai la più pallida idea di quante volte io alla veneranda – e divinamente portata – età di ottocento anni, abbia provato quel dolore che ti sta accartocciando lo stomaco, e che ti sta trascinando giù. Io so perché sei qui. Tu pensi che io sia capace di poter sconfiggere il dolore, ma non c’è nulla che possa fare. Secoli di esperienza non mi hanno aiutato, e non conosco una pozione in grado di congelarti il cuore. Devi far diventare il dolore, il ricordo, l’amore una parte integrante di te, capace di esistere con o senza di lui. Perché sappiamo entrambi quello che gli altri non  vogliono credere. Forse non tornerà. E allora, cosa pensi di fare? Ucciderti? Procurare altro dolore? Bisogna andare avanti, e scoprire che in fondo, molto, molto in fondo, il dolore è sempre stata una parte di noi. Che tenevamo nascosta, ma comunque una parte di noi – terminò, e Clary era lì, incapace come non mai di rispondere delle sue azioni negli ultimi giorni, sentendo addosso il peso del dolore degli altri, oltre che al suo. Il dolore è sempre stata una parte di noi. Non riusciva a non pensarci. Tu sei convinta che nessuno possa capirti, unicamente per l’egoistico motivo di trovare una scusa al tuo isolamento. E forse, lui aveva ragione.
Probabilmente, in questo momento, Jace sta provando lo stesso dolore.

 

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Salve a tutti!
Beh, è la prima storia che pubblico su questa sezione, spero possa piacervi *-*
È nata così, di getto, ma ho già il secondo capitolo, che aspetterò un po’ per postare.
Credo ci rivedremo lunedì prossimo se tutto va bene.
E, per favore, ditemi se i personaggi vi sembrano OOC, così potrò riparare :)
Ci saranno un bel po’ di cose che si evolveranno, ignorando quanto accade in CoLS.
E non solo perché comincierò a leggerlo domani ù.ù
Vi lascio.
Fede
  
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