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Autore: Caliene    01/06/2008    3 recensioni
una one-shot molto breve scritta l'anno scorso, la prima storia che pubblico. i pensieri di una ragazza a cui la morte ha tolto qualcuno di veramente caro...
Genere: Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La pioggia cade pesante, imperterrita, continua, senza sosta. E il mio pensiero è solo uno. Troppo presto. Mi hai lasciato troppo presto. Entro con passi leggeri nella chiesa. È piena di gente, ma non mi sono mai sentita così sola. Mai. Mi stringo il bavero del cappotto di feltro, ho brividi. Freddo. Vuoto, gelo dentro, mi paralizza lo stomaco. Mio padre mi fa sedere in una panca nella seconda fila. Mi siedo. E fisso. Non il vuoto. Per tutta la messa fisso quel contenitore di legno rettangolare. Legno bianco. Bianco che acceca. Piccole rifiniture dorate seguono il bordo della bara, senza ghirigori, semplice, come piaceva a lui. Siamo arrivati al Credo. Come un automa mi alzo, prendo per mano i miei vicini e ripeto quei versi mai studiati, entrati nella mia mente in anni. Ma muovo solo le labbra, non emetto alcun suono. È da quando l’ho saputo che non parlo. Non riesco più. Uscirebbe solo un urlo inopportuno. Ma è così. Quando si trova finalmente la felicità c’è sempre qualcosa che arriva e te la strappa via a morsi, ti graffia finché non ti devi rifugiare a leccarti le ferite in un angolo. Ma questa volta la punizione che ho ricevuto per la mia felicità è troppo grossa. Non ne uscirò. Lo so e basta. E mentre ci penso mi scappa un singhiozzo. Mio padre si gira e mi guarda, pieno di dolore, pieno d’amore. Distolgo lo sguardo e ricomincio a fissarlo per quelle che saranno le ultime volte. E pensare che è lì, così vicino a me, ma diviso da quello stupido pezzo di legno che per me vale tutto, tutta una vita, tutto un mondo che ci divide, che non potrà mai riunirci. Almeno non come prima. Quel pezzo di legno significa che lui sì è lì ma non come me. È freddo, io no. È immobile, io no. È insensibile, io sto soffrendo troppo. Lui è…dirlo è uno strazio, non riesco ad ammetterlo. Lui è morto mentre io sto ancora morendo. Amen. Mi siedo e mi accorgo che sto stringendo senza sosta qualcosa in tasca. Lo tiro fuori. Come immaginavo. La cosa che vale di più al mondo. Il braccialetto che mi ha regalato. Ma non è un regalo qualunque. È il braccialetto che mi ha dato lì, all’ospedale, soffrendo tantissimo per riuscire a sussurrarmi quel ti amo, me lo ha messo dolcemente in mano, asciugandomi con l’altra le mie lacrime, cercando di non farmi soffrire. Ma non ce la facevo, il mio sesto senso diceva già che sarebbe successo. Ed è stato così. Si è spento da lì a poco…due giorni dopo. Non ce l’ha fatta. Adesso non provo neanche più a tenere le lacrime che cadono come la pioggia che batte a pochi metri da me. Mi si offusca la vista e prima di chiudere gli occhi guardo ancora quel piccolo tesoro, un semplice bracciale di corda intrecciata a cui aveva agganciato un ciondolo formato della lettera “I”. I come Isabella. Il mio nome. Il ciondolo adesso è nelle sue mani, lo stringe come stringeva le mie quel giorno. I suoi genitori sono stati gentilissimi. Ma hanno dato il suo diario e mi hanno lasciato mettergli tra le mani il ciondolo. Non me lo sarei mai aspettato. La messa è finita. Ma non è chiusa con un andata in pace. La gente esce pian piano, chi piange, chi chiacchiera, chi neanche si ricorda il suo volto, chi non lo dimenticherà mai. Sua madre mi chiama, mi inviata a fare la processione con loro. Annuisco e mi incammino, lasciando indietro i miei. Rivolgo a suo fratello un sorriso forzato e stringendo il bracciale cammino con loro dietro la macchina che lo porterà definitivamente via da me. E intanto piango. O meglio, vorrei piangere ma ormai non ho più lacrime. Ormai non ho più nulla. Nulla ha senso. E intanto continuo a chiedermi perché. Perché deve esserci tanto dolore gratuito al mondo? Perché non si può essere felici? Cosa abbiamo fatto di male per meritarci questo? Noi ci amavamo solo. Avevamo un amore dolce, sereno…puro. E ce lo hanno strappato. Vero? Ci hanno strappato quel nostro unico piccolo sogno insieme, quella che noi chiamavamo “la nostra unica felicità”... Ma tu non puoi sentirmi adesso. Non puoi soffrire. Non puoi amare. Ma è meglio così. Se potresti soffrire anche solo la metà del dolore che sento io, sarebbe già insopportabile. Riesco a sopravvivere solo con i ricordi. I nostri ricordi insieme. Dolci e teneri. Come quella volta, in montagna, ricordi? Ci eravamo nascosti in quella grotta e ridevamo quando sentivamo le voci degli altri che ci cercavano, ci passavano vicino ma non ci vedevano e noi siamo usciti solo la sera, li abbiamo raggiunti come se niente fosse attorno al fuoco e abbiamo solo riso. Ci guardavano male. E noi ridevamo. Solo noi sapevamo per cosa. Piccole cose comuni, piccoli segreti della nostra vita. Piccole felicità raggiunte. E pensare che prima di lui pensavo che la mia vita fosse vuota, senza senso. Ero triste, debole, pensavo di non poter andare peggio. Se solo lo avessi saputo me li sarei goduti fino al fondo quei momenti. Perché non torneranno mai. Lui non c’è più. E senza non posso vivere. I cancelli che cigolano, come se anche loro soffrissero con me, mi riportano alla realtà. Entriamo nel cimitero. Attorno a me alti muri di pietra pieni di dolore. Di sofferenza. Inizio ad avere paura. Se ognuna di quelle persone è stata accompagnata qui con lo stesso dolore che c’è adesso, questo posto deve essere maledetto. La macchina si arresta di colpo davanti ad una serie di celle che riportano tutte il suo cognome. La tomba di famiglia. Qualche uomo scende dall’auto, apre lo sportello e mi pugnala il cuore. Appena vedo di nuovo la bara mi sento mancare. Quelle corone sono bellissime. I fiori sgargianti illuminano il paesaggio, come se questo fosse un giorno di festa. I girasoli sono rivolti verso di lui. Si sa che i girasoli si voltano sempre verso il sole. E per me lui era il mio Sole, il mio nord, la mia stella polare, la mia unica via. E mi sto perdendo. Ho bisogno della mi bussola. Sua madre avanza incerta stringendo un fazzoletto in mano e poi non ce la fa più. Abbraccia e bacia la bara, urla, soffre. Suo marito la abbraccia, ma vorrebbe urlare anche lui. Vorrebbe morire. Lascio che si allontanino e mi avvicino piano. Finisco in una pozzanghera ma non mi importa, voglio lui. Lui e basta. Guardo la bara con amore, la accarezzo, mi sporgo in avanti e la sfioro con le labbra all’altezza delle sue. È gelida, zuppa, come il mio cuore. Sto ricominciando a piangere. Iniziano ad issare la bara. Non riesco a guardare. Me lo stanno portando via. No. No. No. No. Non fatelo. Non voglio vedere. Inizio a correre, corro via, non so dove, affogando nel mio dolore. Volgo un ultimo sguardo a quel bianco accecante e solo una parola sale dopo giorni alle mie labbra.

ADDIO.

  
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