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Autore: Golden_Compass    13/01/2014    1 recensioni
Il dolore di aver perso tutto ciò che ama, ha portato Marissa ad essere quasi felice di essere estratta per gli Hunger Games. Perché sopportare il dolore, aggiunto all'odio e al timore che tutti provano per lei, la sommerge. Marissa, una ragazza dotata di un'astuzia e di una capacità di osservazione fuori dal comune. Una ragazza che sa rendersi quasi invisibile, che ha imparato a non farsi notare, a fuggire e a saper sfruttare quasi tutte le occasioni a suo vantaggio.
Il personaggio di Faccia di Volpe mi ha affascinata fin da quando ho letto di lei. La mia ff, tuttavia, arriva così tardi per il semplice motivo che ci ho impiegato molto tempo ad imparare a guardare attraverso i suoi occhi, gli occhi acuti di una ragazza che vede e analizza tutto.
Genere: Azione, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri tributi, Faccia di Volpe, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il rimbombo dei miei passi scuote il silenzio assoluto che domina sulla piazza. Non pensavo neanche potesse esistere un silenzio del genere: qui, nel distretto 5, le macchine per la produzione energia emettono un ronzio costante.
Ma oggi è il giorno della mietitura e le fabbriche sono chiuse. Le persone sono stipate nella piazza, gomito a gomito, nell’aria calda e soffocante,  e finalmente riprendono a respirare, con il sollievo negli occhi, mentre fissano la mia avanzata verso il palchetto, allestito all’ingresso del Palazzo di Giustizia.
Alzo un po’ di più il mento, mi sistemo i lunghi capelli rossi dietro le orecchie e comincio a salire gli scalini, saltando il terzo, particolarmente fragile, alla cui sommità un goffo e rifatto uomo con la pelle coperta di strisce blu elettrico mi tende la mano.
La sua manina da rospo, con due anelli d’oro per ciascuno dito, su cui sono incastonate pietre scintillanti dei sette colori dell’arcobaleno, mi afferra il braccio nudo. Le sue dita fredde mi provocano un brivido che sento salire sulla spina dorsale. Con un movimento brusco mi trascina sul palco, dietro alla pedana col microfono. Mi chiede come mi chiamo, dandomi un buffetto sulla guancia. La mia voce risuona chiara e forte nella piazza, amplificata dal microfono, e viene accolta da altri sospiri.
L’ometto si allontana subito da me, pulendosi la mano con cui mi aveva toccato sul panciotto verde pistacchio. Si avvicina alla boccia maschile e vi infila la mano.
Non mi importa più di tanto di chi verrà estratto. Ogni singolo viso che mi fissa mi odia o mi teme.
Mi volto verso le sedie addossate sul fondo del palchetto, dove i vincitori delle edizioni passate esibiscono le loro migliori espressioni scocciate, buttati sulla sedia con le teste leggermente ciondolanti e le braccia incrociate al petto. Sulla sedia accanto il sindaco del distretto prega muovendo impercettibilmente le labbra e stringendo gli occhi. ‘Non mio figlio, non mio figlio’ sembra ripetere in continuazione.
Possa la buona sorte essere sempre a vostro favore. È questo il motto degli Hunger Games, ripetuto all’inizio di ogni cerimonia.
Qui nel distretto 5 gli Hunger Games sono una maledizione persino per le autorità.
Senza il nostro distretto l’intera Panem sarebbe spenta. Tutti noi, dai bambini alle donne incinta, agli anziani, dobbiamo mettere i nostri cervelli e le nostre mani nella produzione di energia.
‘Ogni secondo è sprecato. Ogni vita che manca è una casa di Capitol City non illuminata.’
È con queste frasi che ci educano fin da bambini.
Ma in fondo io sono contenta di essere stata scelta per gli Hunger Games. Questa schiavitù non fa per me. Se pria riuscivo a fuggire da questa vita, ora non mi è più possibile. La mia vita ha perso di avere un senso esattamente un anno fa, quando mi hanno portato via le uniche persone che mi restavano da amare. Lilian, la migliore amica che potessi mai desiderare, e Dan, suo fratello. Per le cui morti nell’arena ho passato notti insonni, desiderando di annegare nelle mie lacrime.
Un ragazzino tremante di qualche anno in meno di me viene posizionato al mio fianco dall’uomo dalle strisce blu. Immersa come ero nei miei pensieri non ho nemmeno fatto caso al suo nome
“Stringetevi la mano ragazzi!” sbotta con falso entusiasmo il nostro accompagnatore.
Allungo la mano pallida e lentigginosa verso di lui. La sua, così piccola nella mia, trema convulsamente. In quei pochi istanti mi stampo il suo viso nella mente. È magro e pallido, scarno, con le labbra quasi violacee. I suoi occhi sono di un marrone scurissimo, ora spalancati dal terrore e lucidi di lacrime. I capelli scuri e sottili pettinati all’indietro sulla fronte imperlata di sudore freddo.
Sono due Pacificatori a dividerci. Veniamo condotti all’interno del Palazzo di Giustizia, su per le scale polverose, coperte da una moquette rosso cremisi. Vengo spinta oltre la prima porta a destra, nella stessa stanza dove lo scorso anno ho salutato Lilian. È una piccola saletta di pianta circolare con un tavolino basso al centro, con un divano e due poltrone sfondate attorno. Mi siedo su una di queste e comincio a tirare fuori l’imbottitura bianca che fuoriesce dal velluto violaceo.
Non verrà nessuno da me. Non devo fare altro che aspettare che il ragazzino abbia finito.
Non ho fratelli e sorelle. I pochi amici che avevo si sono allontanati definitivamente da me da quando sono stata ufficialmente dichiarata ‘pazza’ e ‘pericolosa’. I miei genitori sono morti in una centrale data alle fiamme. Gli altri ragazzi e bambini dell’orfanotrofio temono di essere puniti se mi rivolgono la parola. L’unica famiglia che mi era rimasta era composta da Lilian e Dan. Ma anche questa mi è stata portata via.
Annoiata, mi sporgo verso il tavolino di legno consunto e apro un cassettino appena sotto il piano di marmo impolverato. Ci sono delle briciole, che riconosco come quelle dei biscotti al cioccolato che avevo rubato per Lilian. Ricordo che eravamo rimaste abbracciate su questa stessa poltrona, con le guance rigate di lacrime e i biscotti in mano. Sento qualcosa rotolare nel cassetto e infilo la mano fino a sfiorarne il fondo. Le mie dita toccano qualcosa di tondo e liscio. Sento le lacrime pizzicarmi gli occhi quando mi trovo in mano una piccola biglia color dell’acqua.
Era il portafortuna di Lilian. Lo stesso che si sarebbe dovuta portare nell’arena. Giro la biglia sul palmo, fino a distinguere le due piccole incisioni. Una L e una M intrecciate. Scolpite dalla mano elegante di Dan. Gli occhi cominciano a bruciare forte, ma non ho intenzione di scoppiare a piangere. Non crollerò davanti alle telecamere abbandonando quel briciolo di autostima che mi rimane. Infilo la perla nella tasca dello scamiciato e mi premo le mani sugli occhi, rannicchiandomi sulla poltrona.
Ondate di dolorosi ricordi mi investono. Sembrano intrecciarsi nella mia mente, fino a creare un enorme groviglio. Immagini singole mi appaiono davanti agli occhi. Il vestito bianco di Lilian e i suoi capelli color bronzo. Le nostre mani intrecciate. Il sorriso di Dan. Una lacrima su una guancia pallida. Il mio corpo trattenuto da un paio di pacificatori, mentre tento di riprendermi ciò che amo, urlando e colpendo ogni cosa mi si ponga davanti. Una macchia di sangue. Un colpo di cannone. La morte che trae a sé l’anima di un bambino morto dal gelo. La polvere che si alza percorrendo le strade sterrate. L’ultima volta che ho rubato per dare qualcosa in più ai miei compagni all’orfanotrofio mentre loro mi facevano da palo e abbiamo guadagnato una tavoletta di cioccolato grande come una mano. Dan che ci offre questa perla, inchinandosi davanti a noi.
‘Alla mia eroina e alla mia sorellina’
Lilian odiava essere più piccola di lui. Ogni volta che glielo ricordava assumeva un cipiglio offeso e batteva i piedi per terra, mentre Dan e io ridevamo come matti.
Emetto un piccolo singhiozzo. Mi ero ripromessa di non piangere e non lo farò.
Costringo la mia mente a deviare dal passato e concentrarsi sul futuro. C’è un’arena e dei giochi che mi aspettano. Ventitré concorrenti con cui fare i conti. Dovrò mettere in gioco tutta la mia astuzia se voglio non fare una fine troppo dolorosa. L’immagine del corpo di Lilian trafitto da parte a parte e impalato al tronco di un albero esplode nella mia mente.
Non cedere, non cedere, mi ripeto.
Mi stringo ancora più forte le ginocchia al petto, affondando il viso nella stoffa sottile del vestito e rimango immobile, reprimendo tutta la rabbia e la sofferenza che mi sento scorrere nelle vene.
È passato sì e no un quarto d’ora quando una mano guantata mi tocca la spalla. Il pacificatore mi aiuta ad alzarmi e mi spinge fuori, tenendomi una mano sulla schiena.
I passi leggeri e i singhiozzi soffocati che sento dietro di me mi fanno capire che anche il ragazzino ha completato le sue visite.
I Pacificatori ci conducono fin dall’altra parte del corridoio e imboccano una scala ripida e stretta che porta sul retro dell’edificio, proprio accanto alla stazione.
La luce del sole ferisce per un attimo i miei occhi, che schermo con una mano. Un treno argentato si ferma davanti a noi pochi secondi dopo. Quando l’uomo dal corpo a strisce blu e i nostri mentori ci raggiungono barcollando alla stazione, il ragazzino si mette dietro di me, tremando come una foglia. Dopo un istante, quasi in risposta ai commenti presuntuosi del capitolino sui nostri corpi magri e pallidi, mi afferra la mano sinistra, implorandomi con gli occhi di non rifiutare questo suo piccolo gesto. Nel suo sguardo vedo riflesso quello delle dozzine di bambini che vivono all’orfanotrofio, pieno di paura e bisognoso di qualsiasi forma di affetto.
Il pensiero che formula la mia mente a quel punto è automatico: se non ho intenzione di sopravvivere ai giochi, posso almeno tentare di far tornare questo ragazzino dai suoi genitori.
 
  
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