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Autore: Albezack    14/01/2014    4 recensioni
Bisogna stare attenti a "fare i cattivi"...
Genere: Horror, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La scuola era cominciata da poco, ed io me ne stavo sigillato in camera mia a giocare alla Play Station ed a leggere fumetti, di quelli orientali che si leggono al contrario. Manga si chiamano. Talvolta, quando i miei non c’erano, tiravo fuori da sotto il letto alcuni altri giornaletti, di quelli per adulti. Di quelli che mi avrebbero messo in punizione per un mese.
Me li aveva dati Alfred, il ragazzo che abitava in fondo alla via, che li aveva a sua volta rubati al fratello maggiore.
“Acqua in bocca Metallo, se lo scopre sono morto.”
E conoscendo Quentin, il fratello, era molto probabile che così fosse. Non era uno a cui piaceva stare a discutere, questo lo si poteva capire a vista d’occhio. Alto una spanna di troppo per i suoi quindici anni, 70 kilogrammi di peso e una faccia quadrata non troppo sveglia.
Il classico tipo che non ci pensa due volte a mollarti un cazzotto in testa. Ed un cazzotto da quelle manone avrebbe fatto male. Alfred poteva testimoniare, con tutti quelli che aveva preso. E lui era quasi il doppio di me. Mi avrebbero dovuto raccogliere col cucchiaino, sempre che ci fosse stato qualcosa da raccogliere.
Io mi chiamo Damien e avevo otto anni, ma per i miei genitori sono sempre stato Dam. Per tutti gli altri Metallo. Mi ci ero abituato ormai, e non mi dispiaceva neppure. Sembrava potente. E, mingherlino e piccolino com’ero, era una bella sensazione sentirsi potente.
Questo soprannome non è casuale, ha una sua storia.
Quando non avevo neppure cinque anni i miei fecero l’errore di lasciarmi solo in giardino, a giocare con non ricordo quale pupazzo, probabilmente un Power Ranger. Rammento che andavo pazzo per quei cretini in calzamaglia, in particolare per quello Bianco. Ricordo ancora tutti i pomeriggi passati a discutere coi miei amici di quale fosse il più forte, di come Alfred non mi avesse parlato una settimana perché gli avevo confessato che quello nero, il suo preferito, mi faceva schifo.
La nostra era una tipica casetta di una tipica zona residenziale americana.
Avete presente la classica immagine di una strada con case identiche su entrambi i lati, con giardini non recintati identici? E magari con una Prius blu parcheggiata davanti al portone abbassato del garage.
Ecco, quella era la casa in cui abitavo io. Quartiere noioso. Ma non quel giorno.
Quel giorno volle il caso che si ritrovò a passare di lì un cane randagio, di quelli cattivi. Non era enorme, ma alla mia età pareva avere le dimensioni di un cavallo.
Appena lo vidi e sentii ringhiare, feci per alzarmi e scappare, ma quella bestia era già su di me. Mi azzannò alla gamba, all’altezza del ginocchio. Iniziai ad urlare a squarciagola, i polmoni in fiamme per lo sforzo.
I miei genitori corsero fuori all’istante, terrorizzati.
Appena videro quello che stava succedendo, mia madre iniziò ad urlare e mio padre si avventò sul cane, che aveva ancora le zanne affondate nella mia gamba che iniziava a sanguinare pericolosamente. Io piangevo come un ossesso, dando colpi con le mie manine sul musone del cane.
Ricordo il rumore del collo del cane che si spezzava tra le mani di mio padre. La presa allentarsi, il dolore esplodere.
“Prendi delle bende! Chiama il pronto soccorso!” urlò a mia madre, che ancora non aveva mosso un passo. Quelle parole la riscossero e si rituffò in casa, quasi scivolando sull’unico gradino antistante il portone principale.
Nel giro di mezz’ora ero all’ospedale, confuso e su un lettino bianco. Mi diedero un antidolorifico, potente. Mi addormentai nel giro di qualche minuto. Mi svegliai molte ore dopo, in seguito all’operazione.
Il cane aveva distrutto letteralmente il mio ginocchio, al cui interno era stata impiantata una pallina di metallo, a svolgere il ruolo della ormai assente rotula.
 Da quel giorno tutti mi chiamano Metallo.
Non credevo fosse possibile una ripresa rapida come quella che ebbi io. Pensavo di zoppicare per il resto della mia vita. La riabilitazione fu un inferno si, ma dopo qualche mese riuscivo nuovamente a camminare quasi come prima. Uno sconosciuto non avrebbe notato nulla di diverso da un bambino normale.
Il mio grosso problema era in realtà un altro. La mia bassa statura e la corporatura esile. Ero la preda preferita per i bulletti e piccoli teppisti della scuola.
C’era quel Vinnie, quanto lo odiavo.
Aveva tredici anni, bocciato per due volte. Padre alcolizzato e la madre ridotta peggio del marito. Andava in giro con uno stuzzicadenti infilato nell’angolo della bocca, ed un giubbotto di pelle nera sopra una maglietta intima bianca. Come Fonzie. Sia con dieci che quaranta gradi, quello era il suo abbigliamento. Picchiava i maschi, toccava le bambine dove non si poteva, diceva parolacce alle maestre. Un bell’esemplare, insomma.
A scuola o veniva venerato, e per lo più da gente che aveva paura di lui, oppure odiato. Io ero tra questi ultimi. Un giorno su due mi rubava la merenda minacciandomi in mille modi, da pestarmi fuori dalla scuola, fino a rinchiudermi nello sgabuzzino del signor Van Der Flick.
Il signor Van Der Flick, o più semplicemente Flick, era l’anziano bidello della nostra scuola. Avrà avuto un età attorno ai sessantacinque o settanta anni, ma per noi bambini sembrava più vecchio del mondo stesso. Veniva dall’Olanda, un paese europeo, quello sotto al livello del mare. Persona strana.
Stava perennemente seduto nel giardino della scuola, su una seggiola di quelle in plastica bianca e con un sigaro spento tra i denti. Mi chiedo come mai non lo accendesse mai quel dannato ammasso di nicotina e tabacco. Forse perché c’eravamo noi bambini, ma dubito si facesse scrupolo per quello. Era sempre lì, all’angolo della sua bocca, come un prolungamento del suo stesso corpo.
Non ci rivolgeva mai la parola, forse non ci degnava nemmeno mai di uno sguardo. Rispondeva solo se gli parlava un adulto, come un insegnante o un genitore, o qualcuno che magari passava fuori dal cancello della scuola. Ma a volte non rispondeva nemmeno a loro. Abbassava quel buffo cappello da pescatore sugli occhi, e faceva semplicemente finta di niente.
Ad ogni modo, ogni tanto, faceva anche quello per cui era pagato. Andava nel suo sgabuzzino, prendeva scope e detersivi e puliva il corridoio ed i bagni. Era piccola la mia scuola, un unico lungo corridoio principale su cui si affacciavano una ventina di porte, una affianco all’altra, dieci per parte.
Avevamo anche una palestra, ma era distaccata dall’edificio principale e bisognava attraversare un pezzo del giardino per arrivarci. D’inverno, quando le temperature andavano giù parecchio, quella manciata di metri era una sofferenza. Una tortura.
Ma torniamo a quello che più mi preme raccontare.
Quello sgabuzzino.
Era circondato da un alone di mistero. Probabilmente erano solo voci strane, ma ogni mito che si rispetti trae origine da qualche verità. Si diceva che molti anni prima, addirittura prima che i miei genitori frequentassero la scuola, un giovanissimo Flick ci avesse rinchiuso un bambino per punizione. Bambino che vi era stato ritrovato morto due ore dopo, in condizioni orribili. Magari era solo una storia per giustificare i diversi anni di galera che il bidello si era fatto, nessuno ricordava bene la vicenda. Ma poi era tornato. E per generazioni quell’episodio era stata tramandato fino ad assumere l’eterea sfumatura della leggenda.
Ormai si vociferava di fantasmi o altri orrori di ogni genere che fossero rinchiusi in quello stanzino. Mostri che ti tagliavano la lingua e ti cavavano gli occhi, che volevano tenerti in vita più a lungo possibile prima di farti morire.
Ancora rabbrividisco ripensando a quelle quattro mura. E adesso non sono più un bambino.
Talvolta quando sono solo in casa, sdraiato sul letto, mi capita di fissare l’anta dell’armadio. Di immaginare che quella sia il suo sgabuzzino. Ed improvvisamente torno ad avere otto anni, a coprirmi la testa col lenzuolo e tremare, fino a che non sento il rumore del portone di casa che si apre, qualcuno che arriva. Allora emergo dal mio nascondiglio e faccio finta di niente, riprendo a fare il grande.
Tornando a Vinnie, io ero la sua vittima preferita. Non credo ci fosse stata sotto una motivazione valida, ma era così. Pugni, sgambetti, voci false, ogni sorta di cattiveria e diavoleria che gli passasse per la testa, veniva sperimentata su di me.
Una volta, cadendo in giardino e spellandosi un ginocchio, andò a raccontare alla maestra che la colpa era mia. Che l’avevo spinto. Io, un ragazzino di nemmeno 30 kilogrammi e che a stento superavo il metro, indossando le scarpe.
Ovviamente nessuno gli diede ascolto, anche perché io non andavo mai in giardino. Passavo le ricreazioni seduto, per lo più a leggiucchiare qualche libro per ragazzi. Oppure guardavo Denise dalla finestra, mentre giocava alla campana o a nascondino con le sue amiche. Quanto mi piaceva quella bambina.
Ad ogni modo, iniziò a beccarsi punizioni su punizioni, a causa mia. Mi provocava e io non reagivo. E lui si beccava la punizione. Sentivo che ormai il suo odio nei miei confronti iniziava a raggiungere livelli preoccupanti, non si sarebbe più accontentato di affibbiarmi qualche pugno.
Così quel giorno, fece la sua cazzata. Una cazzata che gli costò molto cara.
Da piccolo andavo spesso soggetto a perdite di sangue dal naso. Nei bambini è una cosa comune, molto più che negli adulti, ma la frequenza con cui capitava a me era davvero impressionante. Se avessi avuto un dollaro per tutte le volte che dovevo correre in bagno a testa in su reggendomi il naso, sarei milionario.
Era una lezione di storia, sulla seconda guerra mondiale. La noia era palpabile nell’aula, non c’era un solo alunno attento: chi guardava fuori dalla finestra, chi pasticciava il quaderno, chi aspettava che la maestra si girasse per lanciare palline di carta intrise di saliva con cerbottane artigianali. Ovvero delle semplici Bic svuotate della loro anima di inchiostro.
Io guardavo svogliatamente le figure del libro. Morte, distruzione, campi di concentramento, sangue. Sangue rosso in mezzo al nero delle figure. Avevo già sentito la tecnica di inserire un unico elemento a colori in figure in bianco e nero. La trovavo molto affascinante. Ma il sangue…si allargava.
Mentre iniziavo a stupirmi della cosa, un’altra goccia cadde su libro. Era il mio sangue.
Un’altra volta, pensai, che palle.
“Maestra, posso andare in bagno?” chiesi alzando la mano non impegnata a tenermi il naso, “sta succedendo ancora, mi esce del sangue”.
Sarah, la maestra, ormai era più che abituata a questo genere di scene.
“Vuoi che ti accompagni qualcuno, Damien?” domandò avvicinandosi al mio banco, per sincerarsi delle mie condizioni.
“No, no, ce la faccio, ormai sono abituato.”
Era una routine.
Così, tenendo la testa sollevata, con le mani a coppa all’altezza del mento, mi feci aprire la porta e mi recai ai servizi. La porta del bagno era di quelle senza maniglia. Bastava una spinta ed oplà, eri dentro. Così entrai di schiena, avendo le mani occupate. Raggiunsi il lavello e iniziai a rinfrescarmi, a pulirmi dal sangue che mi colava sulla bocca, sul mento.
Rimasi un attimo a fissarmi allo specchio, ad osservare quella macabra figura così diversa eppure così uguale a me dall’altra parte del vetro. Sembravo uno zombie, si così si chiamavano. Quelli che erano morti e mangiavano le altre persone. O forse erano i cannibali…
Iniziai a fare delle facce grottesche, allo specchio, per testare la mia capacità di incutere terrore in quello stato. Deformavo la bocca, facendo suoni gutturali e sporgendo in avanti le mani sporche di sangue. Dopo qualche tentativo, mi reputai soddisfatto dei risultati ottenuti e ripresi a lavarmi.
“Ohhh, che paura!” scherzò una voce alla mia destra.
 Durante la mia performance degna dei migliori film dell’orrore, non mi ero accorto che c’era anche qualcun altro, nel bagno, dietro l’angolo.
Quando emerse la figura di Vinnie ero già sbiancato, completamente dimentico del flusso di sangue che non si era ancora arrestato, che stava colando sulla maglietta.
“Dimmi un po’, Metallo” iniziò il bullo avvicinandosi. Le mie gambe erano di piombo. Arrivò esattamente di fronte a me, mi sovrastava, era come un dinosauro che osservava la sua preda. Credo di essermi pisciato addosso quel giorno, non ricordo bene.
“Mi dicono che hai una pallina d’acciaio nella gamba”.
Non capivo dove volesse arrivare. Ma capii in fretta, molto in fretta.
Estrasse la mano destra dalla tasca in cui era affondata, tirando fuori un piccolo scatolino color avorio. Sembrava un oggetto prezioso, a prima vista.
Click.
Da un lato uscì fuori a scatto una lama, di una decina di centimetri. Ero paralizzato, aveva un coltello. La mamma diceva sempre che ai bambini non era permesso giocare coi coltelli. Eppure lui ne aveva uno, e sembrava avere tutte le intenzioni di usarlo. Evidentemente sua mamma non gliel’aveva mai detto.
“Vorrei proprio vederla, questa pallina” continuò quello afferrandomi il braccio, “ti dispiace?”
Si passò lo stuzzicadenti da una parte all’altra della bocca, con un lento movimento della lingua.
Feci l’unica cosa che potevo fare, quello che molti in situazioni simili non riescono a fare. Urlai. Ero uno scricciolo, ma con dei polmoni potenti. Le mie urla risuonarono per tutta la scuola, sentii il rumore delle porte delle classi che si aprivano sbattendo.
“Maledetto finocchio cacasotto” fu tutto quello che riuscì a dire, “non penserai che dicessi sul serio, volevo solo vedere quanto ci mettevi a fartela addosso…”. Ma ormai quel sorriso beffardo e malvagio dalla sua faccia era sparito, distrutto dall’amara consapevolezza di essere nei guai.
Non smettevo di urlare, mentre le lacrime mi rigavano le guance ancora sporche di sangue. Vinnie era spaventato, lo vedevo chiaramente nei suoi occhi, la spavalderia di qualche attimo prima sparita istantaneamente dal suo volto. Aveva paura, sapeva di averla fatta grossa, l’avrebbero trovato con un coltello.
Ahi, Ahi, Vinnie, chi ride oggi?
Proprio mentre se lo stava rimettendo in tasca, rischiando di tagliarsi, la porta d’ingresso del bagno si aprì e la maestra Sarah, seguita da altre due insegnanti, entrò, con i tratti del viso deformati dal terrore.
Terrore che divenne rabbia, quando mi vide zuppo di sangue vicino a Vinnie, che tentava di infilarsi qualcosa in tasca, senza riuscirci. Il coltello si era riaperto, per sbaglio aveva ripremuto il bottoncino nella fretta. Così l’arma sporgeva per una buona metà dai suoi pantaloni, dalla parte del manico.
“Cos’è QUELLO, Vinnie?” quasi urlò Sarah, indicando l’oggetto color avorio.
Vinnie teneva lo sguardo basso, era nel sacco, sapeva di essere incastrato. Mi lanciò un’occhiata furente, di quelle che vogliono dire cose brutte. Tremava di rabbia e paura, era pur sempre un bambino, dopo tutto.
“Nulla…una cosa…la facevo vedere a Met…” biascicò risultando incomprensibile, mentre tirava fuori il coltello dalla tasca.
“Dio Santo!” sbottarono contemporaneamente le tre insegnanti, in preda al panico.
“Un COLTELLO…un BAMBINO…Cristo Damien, sei zuppo di sangue!” continuava a ripetere Sarah, girando come un’ossessa per lo stretto locale del bagno. Le altre insegnanti la guardavano annuendo e borbottando tra di loro, piano per non farsi sentire, accucciandosi su di me e tamponandomi il naso.
“…assolutamente…genitori…”
Vinnie guardava la scena, impotente, aspettando solo quello che gli sarebbe toccato, a testa bassa. Io, affascinato dalla situazione, mi ero completamente dimenticato del mio naso, che però non aveva smesso di colare. Iniziò a girarmi fortemente la testa, la vista ad appannarsi, le gambe a cedere. Avevo perso troppo sangue, anche ai miei piedi si era formata una piccola pozzanghera rosata.
Svenni lì, in quel bagno, tra le braccia delle due maestre che tentavano di fermare quel flusso inestinguibile.
Quello che avvenne dopo mi è stato raccontato da Alfred, dato che io mi svegliai parecchie ore dopo in infermeria, sotto gli occhi di Sarah e dei miei genitori. Erano visibilmente spaventati; mia madre mi teneva stretta la mano tanto forte quasi da farmi male.
Qualche minuto in seguito al mio mancamento un piccola folla si era radunata fuori dal bagno, bambini che si guardavano l’un l’altro e altri che sghignazzavano nel vedere l’espressione atterrita di Vinnie, colui che aveva reso la vita un inferno non solo a me, ma ad un buon terzo dei presenti, adulti compresi.
Flick si avvicinò, sorridendo. Nessuno aveva mai visto il bidello sorridere, forse perché pensavamo che non potesse permetterselo, per via del sigaro. Gli sarebbe certamente caduto, la sua bocca doveva restare in quella stupida posizione, seria.
“Andate dalla preside” aveva detto alle insegnanti, “chiamate i genitori, per ora ci penso io a lui”. I bambini avevano paura, non l’avevano praticamente mai sentito parlare.
E lo aveva fatto, lo aveva trascinato di peso nello sgabuzzino, tra le sue urla e gli sguardi esterrefatti degli altri alunni. Qualche bambina iniziò a piangere, mi disse Alfred.
Lo lasciò là dentro per un’ora, per tutto il tempo in cui le maestre rimasero a parlare nell’ufficio del preside, per decidere i provvedimenti disciplinari più adatti.
La cosa strana, dissero, è che appena Flick chiuse la porta a chiave, le urla isteriche e i piagnistei di Vinnie si interruppero all’istante, come se fossero inghiottiti da quella stanza. Da quel momento, più nulla, nemmeno un sospiro.
Vinnie non morì quel giorno, né gli accadde nulla di grave in apparenza.
Ma quando uscì aveva gli occhi sbarrati, incapace di proferire parola, guardava senza vedere. Era come svuotato. I suoi genitori, ancora turbati dal colloquio con gli insegnanti lo portarono via in malo modo. Suo padre gli tirò uno schiaffo in piena faccia, sonoro. Nessuna reazione da parte sua. Era inerme, un bambolotto di pezza.
Dopo una settimana era già evidente un accenno di ricrescita bianca, alla base dei suoi capelli.
Dopo un mese i genitori lo ritirarono dalla scuola per alloggiarlo in un centro specializzato in malattie mentali. Fecero causa a Flick, perdendola. Il bidello non aveva alcuna responsabilità in quello che era accaduto all’interno di quell’angusto stanzino. Aveva un alibi di ferro, tutti i bambini lo avevano visto rimanere fuori.
Dopo un anno si erano trasferiti in Europa, dove si diceva vi erano gli specialisti e gli psichiatri migliori.
Non ho più rivisto né saputo nulla di Vinnie.
Ma di una cosa sono sicuro: i miei figli, in quella scuola, non ci metteranno piede.
 
  
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