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Autore: kenjina    14/01/2014    1 recensioni
Si immobilizzò, un dito che stava per sfiorare la pietra dell’altare, per seguirne i lineamenti consumati; sentiva una presenza alle sue spalle. Un’ingombrante, scura presenza che chiamava a gran voce per essere osservata. Così voltò lievemente il capo e con lentezza fece scivolare lo sguardo sul percorso che aveva appena compiuto, ripercorrendone i passi visibili sulla polvere e le foglie, finché gli occhi non raggiunsero il portone in legno e salirono poco più in alto, su un imponente balcone, illuminato dal rosone della facciata.
Ed eccolo, finalmente.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Erik/The Phantom
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Buon pomeriggio!

Non so chi di voi si ricordi di me, ma sono ancora viva – beh, più o meno.

Da troppo tempo non entro in questa sezione, troppo presa a scrivere sulla mia adorata Terra di Mezzo; ma ieri è bastata una sola fotografia per farmi tornare un pizzico di ispirazione. Devo solo ringraziare l’adoratissima Niglia per avermi dato la spinta di scribacchiare queste due pagine. Te la dedico. <3

E devo ammetterlo: il Fantasma mi è mancato terribilmente.

Ci si legge a fondo pagina per chiarimenti!

Buona lettura,

Marta.

 

 

 

Derelictus

 

 

Vi era un asfissiante odore di muffa e polvere, ma il suo naso pareva essere abituato a ben peggio, giacché inspirò profondamente e con lentezza. Non si preoccupò di richiudere il pesante portone alle spalle, perché era instabile sui cardini e non aveva il timore che qualcuno potesse notarlo e consegnarlo alla polizia. Aveva camminato a lungo per le campagne francesi e di una cosa era pur certo: non vi era anima viva nel raggio di chilometri, se non quelle dei morti che riposavano nel cimitero poco lontano.

O dei fantasmi come lui.

Rimase fermo sull’ingresso, bevendo con gli occhi l’intero decadente edificio. I costruttori dovevano aver impiegato numerose generazioni di uomini per costruirlo, ma poche per ridurlo in quello stato.

Osservò la lunga navata, i cui muri e colonne perdevano incessantemente intonaco, sporcando la pavimentazione in pietra, e di quelli che un tempo erano affreschi rimaneva ben poco, se non sbiaditi ricordi. Strinse gli occhi nell’osservare la statua di un bambino, un angelo, che gli porgeva quella che sembrava una grande conchiglia piena d’acqua sporca. L’uomo si chiese se, toccandola, si potesse bruciare. Chi altro se non lui, del resto, poteva bagnarsi la fronte di acqua santa senza rischiare una punizione?

Un sorriso triste gli increspò le labbra quando si bagnò un palmo e osservò le gocce scivolargli lentamente sulla pelle. Forse, si disse, il Dio che un tempo usava quell’edificio come la propria casa, se n’era andato. Forse, era per quel motivo che la chiesa era abbandonata a se stessa.

Agitò la mano bagnata con stizza, asciugandosela contro il tessuto del mantello nero che lo copriva come un’ombra. Persino la maschera che continuava ad indossare era ora scura, come la sua anima.

Quale ironico destino, il suo: il Diavolo che camminava nella casa del Signore.

Sollevò il mento, ritrovando quel suo orgoglio e quella sua freddezza che non gli avrebbero permesso di piegarsi, neppure di fronte al giudizio divino.

Del resto, quale Dio avrebbe permesso ad un bambino di crescere e vivere quello che lui aveva patito? Quale Dio avrebbe concentrato così tanto dolore in una sola persona?

No, non vi era alcun Dio. Non per lui.

Iniziò a camminare lentamente, il rumore del tacco delle scarpe che rimbalzava sul pavimento sporco, pezzi di pietra e legna che scricchiolavano sinistramente sotto il peso del suo corpo. Non vi erano panche, né statue, notò. Era tristemente spoglia di qualsiasi ornamento e pensò che fosse bellissima, nella sua tragica condizione. Le finestre, un tempo splendidi esempi di come il vetro potesse essere lavorato e colorato dalle esperte mani degli artigiani, erano rotte, lasciando penetrare vento, pioggia e foglie, che ora ricoprivano gran parte del pavimento.

L’uomo sollevò lo sguardo, l’attenzione catturata dall’improvviso battito d’ali di una colomba, che si accovacciò sul proprio nido, nascosto sopra un capitello. Riprese a camminare, approfittando dello sguardo sollevato per osservare il soffitto. Le travi in legno erano consumate dalle tarme e parevano non sopportare più il gravoso peso delle assi e delle tegole in ardesia. L’alta cupola, che sorgeva un tempo sulla crociera centrale del transetto, era in parte crollata, spedendo un cono di luce sul vecchio altare di pietra, ricoperto di conci di calce e un poderoso strato di polvere.

Che visione mistica, pensò con infastidito sarcasmo.

Lesse l’iscrizione sulla pietra un tempo levigata e storse il naso, più infastidito da ciò che vide piuttosto che dal nauseante odore che aleggiava nell’aria.

“Deus omnia ignoscit.”

Dio perdona tutti.

No, ripeté, non vi era mai stato alcun Dio.

E se anche si fosse sbagliato, se anche fosse esistito, di qualunque colore o razza, non avrebbe potuto trovare uno spiraglio di salvezza per la sua anima dannata; non dopo i crimini orribili che aveva commesso. Non dopo averlo maledetto in qualsiasi bestemmia conosciuta.

Dio non avrebbe potuto perdonarlo, neppure se si fosse sforzato.

Aveva creato il mondo in sette giorni, ma non gli sarebbe bastata l’eternità per assolvere lui.

Si immobilizzò, un dito che stava per sfiorare la pietra dell’altare, per seguirne i lineamenti consumati; sentiva una presenza alle sue spalle. Un’ingombrante, scura presenza che chiamava a gran voce per essere osservata. Così voltò lievemente il capo e con lentezza fece scivolare lo sguardo sul percorso che aveva appena compiuto, ripercorrendone i passi visibili sulla polvere e le foglie, finché gli occhi non raggiunsero il portone in legno e salirono poco più in alto, su un imponente balcone, illuminato dal rosone della facciata.

Ed eccolo, finalmente.

Ciò che lo stava chiamando dal momento in cui aveva messo piede in quella vecchia catapecchia che un tempo era luogo di prestigio e preghiera.

L’organo era maestoso, le lunghe e numerose canne erano opache dal pesante strato di polvere che le ricopriva. Rimase ad osservarlo per quelle che parevano ore, ma passarono solo pochi minuti, trascorsi sulle strade di ricordi troppo dolorosi per essere ripercorsi. Si ritrovò così a cercare le scale che lo avrebbero condotto a quello stesso balcone, richiamato dalla sirena della musica, l’unico piacere che gli era stato negato per tutti quegli anni di fuga ma a cui si sarebbe volentieri sempre abbandonato.

Diede le spalle all’altare con poco garbo, giacché nessun Dio gliene aveva mostrato durante la sua vita, e salì le scale a chiocciola di una delle due torri campanarie, giacché quella pareva l’unica via per raggiungere l’organo. Dovette fare molta attenzione a mettere un piede davanti all’altro, perché le pedate in pietra erano ormai smussate dall’usura e rese scivolose dall’umidità. Raggiunse una porticina in legno, che aprì senza fatica, e dovette chinare il capo per oltrepassarne l’uscio basso. Il grande e vecchio strumento si ergeva ora in tutta la sua gloria e riconobbe l’ottima fattura del legno e dell’ottone utilizzato e sapientemente lavorato; lo stato di abbandono in cui verteva, però, non gli rendeva giustizia.

Si avvicinò cautamente, sbirciandone i dettagli poco a poco. La mostra era riccamente decorata ed era formata da una cassa armonica eclettica, dalla quale fuoriuscivano le enormi canne, raggruppate per lunghezza e grandezza; i numerosi pomelli per i registri erano un tempo candidi, così come la consolle che sorgeva proprio sotto la mostra. Soffiò via la polvere e fece scivolare le dita sui tasti consumati dal tempo; alcuni erano scostati dalla loro posizione originaria, altri mancavano.

Con un leggero movimento, scansò il mantello e si sedette sullo sgabello impolverato, le mani che galleggiavano a pochi centimetri dalla tastiera; rimase così, godendo per qualche istante di quella posizione dolorosamente familiare.

Poi chiuse gli occhi e si lasciò andare, come una pietra pomice sulla superficie dell’acqua.

Il suono grave riecheggiò per le pareti della chiesa, facendogli temere che una vibrazione così potente potesse farle crollare in un solo istante; ma niente si mosse, se non lo sbuffo di aria e polvere che fuoriuscì dalle canne; pareva un uomo che si schiariva la gola secca dopo un lungo riposo.

Non fu in grado di suonare qualcosa di completo, poiché dovette arrangiarsi con i pochi tasti che ancora funzionavano. Ma fu sufficiente a riempirgli il cuore di un rinnovato desiderio. Che cosa fosse, avrebbe dovuto scoprirlo, ma l’idea che madama Ispirazione fosse tornata a sorridergli lo fece sorridere a sua volta.

Era dunque quello il volere della sua vita? Lui, un demone deformato proveniente dalle viscere della terra avrebbe potuto ritrovare la sua unica ragione di esistenza in una vecchia chiesa pericolante?

Ruotò di centottanta gradi sul sedile, osservando ancora una volta l’imponenza di quel vecchio edificio. Si immaginò al centro della navata, unico padrone di quel posto dimenticato persino da Dio, e si disse che fosse perfetto.

Abbandonato ed isolato come lui.

Nessuno lo avrebbe disturbato, nessuno avrebbe tentato di traviarlo in frivoli pensieri che sapeva avrebbero portato solo altro, immenso dolore.

Focalizzò l’attenzione sulle scale che scendevano verso la cripta, dietro l’altare. Un luccichio perverso gli illuminò gli occhi, mentre abbandonava momentaneamente la confortante presenza dell’organo e si avvicinava con più sicurezza verso quel cunicolo buio, da cui proveniva un tanfo ancora più penetrante.

“Deus omnia ignoscit.”

Rilesse, mentre scendeva lentamente i gradini, sparendo nell’ombra.

Ego non ignosco, replicò lui. Ego non oblitus.

 

 

 

Note:

Bene, forse avrei dovuto avvisarvi che questa breve one shot non avrebbe avuto né capo né coda. Nel senso che non ho idea da dove Erik provenga – suppongo che sia arrivato al capolinea dopo l’incendio e la fuga da Parigi – né tantomeno so cosa succederà dopo – se prenderà la chiesa come la sua nuova casa, se le persone inizino a sospettare che sia infestata sentendo la musica dell’organo in lontananza, o se il tetto gli crollerà in testa mettendo fine alle sue sofferenze. Non so. So solo che è saltata fuori in un baleno e ho sentito la necessità di scriverla. Date la colpa al Fantasma. E al mio feticismo per i luoghi abbandonato e pieni di polvere. D:

Per chi come me è arrugginito con il latino (beati i cinque anni di studio matto et disperatissimo lanciati direttamente sulla via dello sciacquone), il titolo “Derelictus” significa abbandonato; le ultime due frasi pronunciate da Erik invece vogliono dire “Io non perdono. Io non dimentico.”

Bien, credo che questo sia quanto. *-*

Ringrazio in anticipo le buone anime che passeranno per una lettura.

Io sparisco nei meandri della mia cripta chiamata tesi.

Addio!

Marta.

   
 
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