Buon
pomeriggio!
Non
so chi di voi si ricordi di me, ma sono ancora viva – beh, più o meno.
Da
troppo tempo non entro in questa sezione, troppo presa a scrivere sulla mia
adorata Terra di Mezzo; ma ieri è bastata una sola fotografia
per farmi tornare un pizzico di ispirazione. Devo solo ringraziare l’adoratissima
Niglia
per avermi dato la spinta di scribacchiare queste due pagine. Te la dedico. <3
E
devo ammetterlo: il Fantasma mi è mancato terribilmente.
Ci
si legge a fondo pagina per chiarimenti!
Buona
lettura,
Marta.
Derelictus
Vi
era un asfissiante odore di muffa e polvere, ma il suo naso pareva essere
abituato a ben peggio, giacché inspirò profondamente e con lentezza. Non si
preoccupò di richiudere il pesante portone alle spalle, perché era instabile
sui cardini e non aveva il timore che qualcuno potesse notarlo e consegnarlo
alla polizia. Aveva camminato a lungo per le campagne francesi e di una cosa
era pur certo: non vi era anima viva nel raggio di chilometri, se non quelle
dei morti che riposavano nel cimitero poco lontano.
O
dei fantasmi come lui.
Rimase
fermo sull’ingresso, bevendo con gli occhi l’intero decadente edificio. I
costruttori dovevano aver impiegato numerose generazioni di uomini per
costruirlo, ma poche per ridurlo in quello stato.
Osservò
la lunga navata, i cui muri e colonne perdevano incessantemente intonaco,
sporcando la pavimentazione in pietra, e di quelli che un tempo erano affreschi
rimaneva ben poco, se non sbiaditi ricordi. Strinse gli occhi nell’osservare la
statua di un bambino, un angelo, che gli porgeva quella che sembrava una grande
conchiglia piena d’acqua sporca. L’uomo si chiese se, toccandola, si potesse
bruciare. Chi altro se non lui, del resto, poteva bagnarsi la fronte di acqua
santa senza rischiare una punizione?
Un
sorriso triste gli increspò le labbra quando si bagnò un palmo e osservò le
gocce scivolargli lentamente sulla pelle. Forse, si disse, il Dio che un tempo
usava quell’edificio come la propria casa, se n’era andato. Forse, era per quel
motivo che la chiesa era abbandonata a se stessa.
Agitò
la mano bagnata con stizza, asciugandosela contro il tessuto del mantello nero
che lo copriva come un’ombra. Persino la maschera che continuava ad indossare
era ora scura, come la sua anima.
Quale
ironico destino, il suo: il Diavolo che camminava nella casa del Signore.
Sollevò
il mento, ritrovando quel suo orgoglio e quella sua freddezza che non gli
avrebbero permesso di piegarsi, neppure di fronte al giudizio divino.
Del
resto, quale Dio avrebbe permesso ad un bambino di crescere e vivere quello che
lui aveva patito? Quale Dio avrebbe concentrato così tanto dolore in una sola
persona?
No,
non vi era alcun Dio. Non per lui.
Iniziò
a camminare lentamente, il rumore del tacco delle scarpe che rimbalzava sul
pavimento sporco, pezzi di pietra e legna che scricchiolavano sinistramente
sotto il peso del suo corpo. Non vi erano panche, né statue, notò. Era
tristemente spoglia di qualsiasi ornamento e pensò che fosse bellissima, nella
sua tragica condizione. Le finestre, un tempo splendidi esempi di come il vetro
potesse essere lavorato e colorato dalle esperte mani degli artigiani, erano
rotte, lasciando penetrare vento, pioggia e foglie, che ora ricoprivano gran
parte del pavimento.
L’uomo
sollevò lo sguardo, l’attenzione catturata dall’improvviso battito d’ali di una
colomba, che si accovacciò sul proprio nido, nascosto sopra un capitello.
Riprese a camminare, approfittando dello sguardo sollevato per osservare il soffitto.
Le travi in legno erano consumate dalle tarme e parevano non sopportare più il
gravoso peso delle assi e delle tegole in ardesia. L’alta cupola, che sorgeva
un tempo sulla crociera centrale del transetto, era in parte crollata, spedendo
un cono di luce sul vecchio altare di pietra, ricoperto di conci di calce e un
poderoso strato di polvere.
Che
visione mistica, pensò con infastidito sarcasmo.
Lesse
l’iscrizione sulla pietra un tempo levigata e storse il naso, più infastidito
da ciò che vide piuttosto che dal nauseante odore che aleggiava nell’aria.
“Deus omnia ignoscit.”
Dio
perdona tutti.
No,
ripeté, non vi era mai stato alcun Dio.
E
se anche si fosse sbagliato, se anche fosse esistito, di qualunque colore o
razza, non avrebbe potuto trovare uno spiraglio di salvezza per la sua anima
dannata; non dopo i crimini orribili che aveva commesso. Non dopo averlo
maledetto in qualsiasi bestemmia conosciuta.
Dio
non avrebbe potuto perdonarlo, neppure se si fosse sforzato.
Aveva
creato il mondo in sette giorni, ma non gli sarebbe bastata l’eternità per
assolvere lui.
Si
immobilizzò, un dito che stava per sfiorare la pietra dell’altare, per seguirne
i lineamenti consumati; sentiva una presenza alle sue spalle. Un’ingombrante,
scura presenza che chiamava a gran voce per essere osservata. Così voltò
lievemente il capo e con lentezza fece scivolare lo sguardo sul percorso che
aveva appena compiuto, ripercorrendone i passi visibili sulla polvere e le
foglie, finché gli occhi non raggiunsero il portone in legno e salirono poco
più in alto, su un imponente balcone, illuminato dal rosone della facciata.
Ed
eccolo, finalmente.
Ciò
che lo stava chiamando dal momento in cui aveva messo piede in quella vecchia
catapecchia che un tempo era luogo di prestigio e preghiera.
L’organo
era maestoso, le lunghe e numerose canne erano opache dal pesante strato di
polvere che le ricopriva. Rimase ad osservarlo per quelle che parevano ore, ma passarono
solo pochi minuti, trascorsi sulle strade di ricordi troppo dolorosi per essere
ripercorsi. Si ritrovò così a cercare le scale che lo avrebbero condotto a
quello stesso balcone, richiamato dalla sirena della musica, l’unico piacere
che gli era stato negato per tutti quegli anni di fuga ma a cui si sarebbe volentieri
sempre abbandonato.
Diede
le spalle all’altare con poco garbo, giacché nessun Dio gliene aveva mostrato
durante la sua vita, e salì le scale a chiocciola di una delle due torri
campanarie, giacché quella pareva l’unica via per raggiungere l’organo. Dovette
fare molta attenzione a mettere un piede davanti all’altro, perché le pedate in
pietra erano ormai smussate dall’usura e rese scivolose dall’umidità. Raggiunse
una porticina in legno, che aprì senza fatica, e dovette chinare il capo per
oltrepassarne l’uscio basso. Il grande e vecchio strumento si ergeva ora in
tutta la sua gloria e riconobbe l’ottima fattura del legno e dell’ottone
utilizzato e sapientemente lavorato; lo stato di abbandono in cui verteva,
però, non gli rendeva giustizia.
Si
avvicinò cautamente, sbirciandone i dettagli poco a poco. La mostra era
riccamente decorata ed era formata da una cassa armonica eclettica, dalla quale
fuoriuscivano le enormi canne, raggruppate per lunghezza e grandezza; i
numerosi pomelli per i registri erano un tempo candidi, così come la consolle
che sorgeva proprio sotto la mostra. Soffiò via la polvere e fece scivolare le
dita sui tasti consumati dal tempo; alcuni erano scostati dalla loro posizione
originaria, altri mancavano.
Con
un leggero movimento, scansò il mantello e si sedette sullo sgabello
impolverato, le mani che galleggiavano a pochi centimetri dalla tastiera;
rimase così, godendo per qualche istante di quella posizione dolorosamente
familiare.
Poi
chiuse gli occhi e si lasciò andare, come una pietra pomice sulla superficie
dell’acqua.
Il
suono grave riecheggiò per le pareti della chiesa, facendogli temere che una
vibrazione così potente potesse farle crollare in un solo istante; ma niente si
mosse, se non lo sbuffo di aria e polvere che fuoriuscì dalle canne; pareva un
uomo che si schiariva la gola secca dopo un lungo riposo.
Non
fu in grado di suonare qualcosa di completo, poiché dovette arrangiarsi con i
pochi tasti che ancora funzionavano. Ma fu sufficiente a riempirgli il cuore di
un rinnovato desiderio. Che cosa fosse, avrebbe dovuto scoprirlo, ma l’idea che
madama Ispirazione fosse tornata a sorridergli lo fece sorridere a sua volta.
Era
dunque quello il volere della sua vita? Lui, un demone deformato proveniente
dalle viscere della terra avrebbe potuto ritrovare la sua unica ragione di
esistenza in una vecchia chiesa pericolante?
Ruotò
di centottanta gradi sul sedile, osservando ancora una volta l’imponenza di
quel vecchio edificio. Si immaginò al centro della navata, unico padrone di
quel posto dimenticato persino da Dio, e si disse che fosse perfetto.
Abbandonato
ed isolato come lui.
Nessuno
lo avrebbe disturbato, nessuno avrebbe tentato di traviarlo in frivoli pensieri
che sapeva avrebbero portato solo altro, immenso dolore.
Focalizzò
l’attenzione sulle scale che scendevano verso la cripta, dietro l’altare. Un luccichio
perverso gli illuminò gli occhi, mentre abbandonava momentaneamente la
confortante presenza dell’organo e si avvicinava con più sicurezza verso quel
cunicolo buio, da cui proveniva un tanfo ancora più penetrante.
“Deus omnia ignoscit.”
Rilesse,
mentre scendeva lentamente i gradini, sparendo nell’ombra.
Ego non ignosco, replicò lui. Ego
non oblitus.
Note:
Bene, forse avrei dovuto avvisarvi che
questa breve one shot non
avrebbe avuto né capo né coda. Nel senso che non ho idea da dove Erik provenga –
suppongo che sia arrivato al capolinea dopo l’incendio e la fuga da Parigi – né
tantomeno so cosa succederà dopo – se prenderà la chiesa come la sua nuova
casa, se le persone inizino a sospettare che sia infestata sentendo la musica
dell’organo in lontananza, o se il tetto gli crollerà in testa mettendo fine
alle sue sofferenze. Non so. So solo che è saltata fuori in un baleno e ho
sentito la necessità di scriverla. Date la colpa al Fantasma. E al mio
feticismo per i luoghi abbandonato e pieni di polvere. D:
Per chi come me è arrugginito con il
latino (beati i cinque anni di studio matto
et disperatissimo lanciati direttamente sulla via dello sciacquone), il
titolo “Derelictus” significa abbandonato; le ultime due frasi pronunciate da Erik invece
vogliono dire “Io non perdono. Io non dimentico.”
Bien,
credo che questo sia quanto. *-*
Ringrazio in anticipo le buone anime che
passeranno per una lettura.
Io sparisco nei meandri della mia cripta
chiamata tesi.
Addio!
Marta.