Storie originali > Romantico
Ricorda la storia  |      
Autore: Attide    14/01/2014    0 recensioni
"Che cosa vuol dire addomesticare?"
"È una cosa da molto dimenticata.
Vuol dire "creare dei legami"…"
"Creare dei legami?"
"Certo", disse la volpe. "Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini.
E non ho bisogno di te.
E neppure tu hai bisogno di me.
Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi.
Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro.
Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo.
Se tu mi addomestichi, la mia vita sarà come illuminata".
La volpe tacque e guardò a lungo il piccolo principe:
"Per favore… addomesticami", disse.
***
A te, che hai occhi ma non riesci a vedere. A te, che vorresti amore ma non ti fai amare.
A te, che sei meraviglia ed ancora non lo sai.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Universitario
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
A te, che hai occhi ma non riesci a vedere.



 
In quel momento apparve la volpe.
"Buon giorno", disse la volpe.
"Buon giorno", rispose gentilmente il piccolo principe, voltandosi: ma non vide nessuno.
"Chi sei?" domandò il piccolo principe, "sei molto carino…"
"Sono una volpe", disse la volpe.
"Vieni a giocare con me", le propose il piccolo principe, "sono cosi triste…"
"Non posso giocare con te", disse la volpe, "non sono addomesticata".
"Ah! scusa", fece il piccolo principe.
Ma dopo un momento di riflessione soggiunse:
"Che cosa vuol dire addomesticare?"
"E una cosa da molto dimenticata.
Vuol dire "creare dei legami"…"
"Creare dei legami?"
"Certo", disse la volpe. "Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini.
E non ho bisogno di te.
E neppure tu hai bisogno di me.
Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi.
Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro.
Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo.
Se tu mi addomestichi, la mia vita sarà come illuminata.
Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri.
Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra.
Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica.“
 
La volpe tacque e guardò a lungo il piccolo principe:
"Per favore… addomesticami", disse.
"Volentieri", rispose il piccolo principe, “che bisogna fare?".
“Bisogna essere molto pazienti", rispose la volpe.
"In principio tu ti sederai un po’ lontano da me, cosi, nell’erba.
Io ti guarderò con la coda dell’occhio e tu non dirai nulla.
Le parole sono una fonte di malintesi.
Ma ogni giorno tu potrai sederti un po’ più vicino…"
 
Il piccolo principe ritornò l’indomani.
"Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora", disse la volpe.
"Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice.
Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità.
Quando saranno le quattro incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicita!
Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore…
Ci vogliono i riti".
"Che cos’e un rito?" disse il piccolo principe.
"Anche questa e una cosa da tempo dimenticata", disse la volpe.
"E quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un’ora dalle altre ore.
C’è un rito, per esempio, presso i miei cacciatori.
Il giovedì ballano con le ragazze del villaggio.
Allora il giovedì è un giorno meraviglioso, perché posso prendermi una vacanza! “
                                                                          Così il piccolo principe addomesticò la volpe.
 

                                      -Il Piccolo Principe - XXI - Antoine-Marie-Roger de Saint-Exupéry-
 
 






Tic tac, tic tac.

È l’unico rumore che rompe il silenzio di quella stanza in penombra.
Ammassi, frettolosa, vestiti alla rinfusa. Non presti nemmeno più attenzione a non far fare pieghe alla tua camicetta preferita, quella a fiori che ti ha regalato mamma per i tuoi quattordici anni.

Tanto, a chi può importare.

Ti chini sotto al letto a cercare gli ultimi fogli degli appunti della lezione della mattina, maledicendoti per usare ancora uno stupido block notes invece di un normale quaderno come tutti.

Nuova città, nuova università, nuova vita avevi detto.

Ti prude il naso, devi starnutire ma non ci riesci. Avresti dovuto pulire ieri sera, l’avevi deciso appena trasferita.

Il giovedì sera pulirò casa, farò la valigia e cambierò le lenzuola.

Ma chi poteva saperlo che dopo nemmeno un mese avresti mandato all’aria tutto quanto?

Tanto, a chi importa.

Starnutisci, ti porti la mano al fianco per una fitta improvvisa.
E la senti.
Senti la curva morbida, disgustosa, dei fianchi che si allargano ogni giorno di più.  

Dannata polvere.

Finisci di prepararti per tornare a casa, sempre se casa si possa definire il luogo dove sei meno te stessa, e con la coda dell’occhio vedi la tua immagine riflessa nello specchio.

D’altronde come si potrebbe non vederla, sei enorme.

Non ti vuoi guardare, non vuoi proprio farlo. Un paio di pantaloni larghi della tuta, una felpa di due taglie più grande ed un elastico per domare quell’ammasso di ricci che ti ritrovi come capelli.
Sciatta, direbbe tua madre. Trattieni il respiro per un attimo, pensandolo.

Quanto vorresti essere stata bella come lei.

Lo sguardo ti si posa sul mobiletto del bagno dove tieni quei quattro trucchi che no usi mai.
Magari oggi potresti metterti un po’ di matita nera…in fin dei conti hai dei begli occhi.

Dello stesso colore del cielo, diceva nonna  accarezzandoti i capelli.

Ti avvicini, e con la mano d’artista mancata segni una linea sottile sulla palpebra. Sei precisa, attenta, perché le cose le fai solo se sono fatte bene.
Ti allontani un poco per vedere il risultato: carina, diresti tu.

Oscena, tutto il resto del mondo.

Sì, hai dei begli occhi, ma chi si potrebbe mai accorgere di loro con quel naso che ti ritrovi?
Ed ancora una volta ti dai della stupida, cercando di struccarti con una veemenza che rasenta la violenza.
Ecco, ora hai la pelle tutta arrossata e gli occhi gonfi e contornati da un alone nero.
Ancora peggio di prima.

Ma tanto, a chi importa.
 
 
 
 
 
 

Il binario è affollato, come ogni venerdì sera del resto, e ti senti di troppo.
Anzi, sei troppo.
Camminando sbatti contro le persone, ed a nulla servono i tuoi “scusi” sussurrati: tanto nessuno ti ascolta.
Anche il rumore del tuo trolley che scorre sul pavimento ruvido sembra essere più forte di quello degli altri.
Ecco il treno che arriva, e la calca sembra animarsi come un’unica entità, mentre tu inciampi sui tuoi stessi piedi.

Sali. L’unico posto libero per te e la tua valigia è di fianco ad un ragazzo.
 
Bello, suggerisce la tua mente.
 
Troppo, per te.
 
Ti avvicini a testa bassa, urtando con la borsa una vecchia signora che ti lancia uno sguardo di disappunto.

Ingombrante, ecco cosa sei.

Ti fermi a pochi centimetri da lui aggrappandoti al palo, rossa in volto per il caldo e la fatica, ma non hai il coraggio di toglierti la sciarpa ed il cappotto.
Non serve che tu gli faccia vedere anche ciò che puoi coprire.

Una smorfia ti accartoccia il volto, mentre ancora tenti di sparire, e da sotto gli occhiali ti azzardi a guardarlo meglio.
Alto, almeno venti centimetri più di te, e con folti capelli scuri. È intento a leggere un libro dalla copertina bianca, le mani grandi e nodose.

Da musicista, suggerisce la tua mente.

Di tanto in tanto corruga la fronte, come se quello che sta leggendo non gli stia piacendo, concentrato.
Ti sporgi un poco in avanti, curiosa, per vedere il titolo ma un’improvvisa entrata in una galleria ti fa ridestare dal momento di follia.
Volti di scatto la testa verso il finestrino, incredula per tanta sfrontatezza.

Sciocca, avrebbe potuto vederti.

Non sai per quanto tempo rimani così, ma speri solo che una volta girata lui non si sia accorto di nulla.
Ti prego, ti prego, non mi guardare. Non sopporterei di vedere anche il tuo giudizio.

Ed invece eccoli là: due occhi, neri e profondi come solo il mare di notte sa essere, che ti stanno guardando.
Arrossisci, imbranata, incapace di reagire.
Invece è così che lui ti sorride, mostrando dei denti tra i più belli mai visti.
E tu non puoi fare altro che ricambiare, con le labbra ben strette tra loro.

Non serve che veda quanto invece i tuoi siano storti.

Il vostro incontro termina così, senza grossi imbarazzi.
E tu, anche se non lo vorrai mai ammettere, senti ancora una morsa allo stomaco al ricordo del vostro “ciao” quando siete scesi alla stessa fermata.


 
 
 
 
Passano le settimane, passano come sempre: monotone e amare, e con esse passano anche i venerdì in treno con lui.
Non vi siete più parlati davvero, solo qualche cenno con la testa e qualche sguardo d’intesa, come a dire “ti stavo aspettando”.

Ma, in fondo, a te basta così.

Oggi hai anche deciso di metterti un po’ di mascara, giusto perché ti andava.
Non certo perché sapevi che lo avresti visto.
Sali con il battito leggermente più rapido del normale, stupida, ed il cuore sembra quasi fermarsi quando non lo vedi.
Abbassi subito lo sguardo, il sapore della delusione in bocca.

Delusione per cosa, poi?

Arranchi lungo il corridoio per l’ennesima, schifosissima volta con quel bagaglio troppo grande, dirigendoti verso il “vostro” angolo, mesta.
Ed è proprio a pochi passi da te che lo vedi, seduto vicino al finestrino e con il giubbotto appoggiato al posto vuoto accanto a lui.

La parte più illusa di te decide di prendere il sopravvento, dicendoti “è lì per te”, ma ciò che ti farebbe urlare è che sembra essere davvero proprio lì, proprio lui, ad aspettare te.
Ti vede e sorride, timido, liberando il sedile e facendoti segno di sedere.
Sgrani leggermente gli occhi, sorpresa, ed è nel momento in cui ti accomodi accanto a lui, sempre più perplessa ed insicura, che scorgi per la prima volta il titolo del libricino che da mesi ormai lo vedi sfogliare.

Il piccolo principe.

Lui segue il tuo sguardo, chiedendoti se tu l’abbia mai letto.
Annuisci, guardando il punto dove il suo segnalibro fuoriesce.

Il dialogo del principe con la volpe. Il tuo preferito.
Vi guardate negli occhi, per un istante eterno, per la prima vera volta.

“Sai, leggendolo stavo proprio pensando a te” ti dice, torturando il bordo di una pagina.

Ed è in quel momento che sorridi, non più enorme ma piena.
Piena di felicità…e per un attimo, per un bellissimo attimo, pensi di non essere poi così male.

Lui ti osserva di nuovo, arrossendo e toccandosi la nuca, impacciato.
Sì, magari per lui non sei così male.

E sorridi, sorridi davvero, senza paura di quei denti che, in fin dei conti, non sono nemmeno più così tanto storti.

Tanto…
A chi importa?
 
 
 
   
 
Leggi le 0 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: Attide