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Autore: Padmini    15/01/2014    8 recensioni
Prima di conoscere John Watson, Sherlock ha avuto un altro amico, il suo primo migliore amico, colui che lo ha ispirato per intraprendere la carriera di consulente detective, per scoprire la verità ovunque essa si nasconda.
Questa è la storia di Barbarossa.
Genere: Angst, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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Barbarossa


 


 


 

La pioggia ticchettava rumorosamente contro i vetri dell'aula ormai deserta, acuendo il silenzio assordante, rotto solo da qualche sporadico sbattere di porte in lontananza e, di tanto in tanto, il sospiro di un bambino.

Sherlock, sette anni, se ne stava seduto, completamente solo, nel suo banco accanto alla finestra, la mano a sostenere il mento, osservando le linee irregolari che le gocce di pioggia formavano precipitando sulla superficie liscia del vetro. Ogni tanto sospirava, intristito da come la mente umana potesse essere pigra e ottusa.

Anche quel giorno, come tanti altri, era stato messo in punizione dalla sua maestra, che lo aveva costretto a restare oltre le lezioni per poter, testuali parole "Riflettere sulle tue azioni, signorino. Non si risponde così ad un adulto. Non imparerai mai nulla se non riuscirai ad accettare che qualcuno ne sa più di te".

Peccato che quel qualcuno fosse una donna estremamente irritabile a causa del recente divorzio, cosa che Sherlock aveva notato osservando la linea più chiara sull'anulare sinistro. Quel giorno in particolare era ancora più arrabbiata perché il marito non le aveva ancora passato l'assegno per gli alimenti ed essere corretta da un bambino per un insignificante errore di distrazione era stata l'ultima goccia. Non era stato un errore grave, nessuno si sarebbe accorto che aveva sbagliato la data della caduta dell'Impero Romano d'Occidente, dicendo quattrocentosessantasette al posto di quattrocento settantasei. Aveva invertito due numeri, ma se n'era accorta troppo tardi. Quel bambino petulante aveva immediatamente alzato la mano e, con la sua vocetta irritante, l'aveva corretta, facendola arrossire. Da quel momento era iniziato un lungo scambio di battute sempre più serrato che, in conclusione, l'aveva messa a nudo di fronte alla classe. Non aveva potuto fare altro che punire quel marmocchio. Lo aveva obbligato a stare in classe, da solo, due ore oltre la fine delle lezioni, e aveva chiamato la madre perché lo venisse a prendere e la signora Holmes non era stata molto contenta di essere stata sottratta al suo lavoro e ancor meno quando aveva scoperto il motivo della chiamata.


 

L'eco dei passi della signora Holmes risuonò tra le pareti del corridoio che portava all'aula dove stava il figlio. Sherlock, assorto nei suoi pensieri, non si era reso conto che le due ore erano ormai passate. Se ne accorse solo quando vide il riflesso della madre proiettato sulla finestra. Si voltò di scatto e si ritrovò di fronte a due occhi arrabbiati, delusi. Non riuscì a sostenere quello sguardo e abbassò il suo, fingendo di raccogliere il suo zaino, e la seguì fuori per recuperare il cappottino e la sciarpa. Nessuno dei due parlò fino a quando furono arrivati a casa, e anche lì mamma Holmes non disse una parola. Lo aiutò a spogliarsi e, guardandolo imperiosa, indicò con un gesto drammatico le scale. Sherlock sapeva bene cosa voleva dire: fila dritto in camera tua, fai i compiti e resta lì, non pranzerai e non cenerai.

Il bambino chinò il capo e obbedì, chiedendosi come le cose potessero peggiorare. Quando arrivò davanti alla porta della sua stanza capì come. Ad attenderlo, appoggiato con la schiena sulla parete e con le braccia incrociate al petto, c'era Mycroft. Lo guardava sogghignando, come se si stesse pregustando qualcosa di speciale.

“Come sei stupido, Sherlock” lo apostrofò, scuotendo la testa “Sei davvero tanto stupido”

“Non sono stupido!” protestò lui, senza troppa convinzione nella voce.

“Sì che lo sei, Sherlock. Guardati” gli sussurrò Mycroft, sporgendosi appena “Cosa ti è appena successo?”

Sherlock abbassò lo sguardo, incapace di sostenere quello del fratello e, soprattutto, quella conversazione.

“La maestra ti ha messo in punizione” lo canzonò lui “e anche mamma ti ha messo in punizione. Non pranzerai – ti assicuro che la pasta al pomodoro era buonissima - e non cenerai – per stasera mamma ha preparato un dolce delizioso. Dimmi, adesso, quanto ti è convenuto fare ciò che hai fatto?”

Sherlock non rispose, tenne lo sguardo basso e iniziò a tormentarsi l'orlo del maglione, terribilmente a disagio. Avrebbe tanto voluto potersene andare in camera sua e starsene veramente da solo, ma a quanto pareva Mycroft faceva parte della punizione, anche se sua mandre sicuramente non lo aveva previsto.

“Non ci hai guadagnato nulla, Stupido” disse lui, sottolineando l'ultima parola con la voce “Solo il disprezzo della tua maestra, l'antipatia dei tuoi compagni di classe e una punizione da parte di mamma. Sei contento, adesso?” chiese, staccandosi dalla parete e avvicinandosi a lui e chinandosi per sussurrargli all'orecchio “Sei solo un bambino stupido, fratellino, e presto Barbarossa verrà a prenderti e ti mangerà quella linguaccia che ti ritrovi. Sai chi è Barbarossa?” chiese, prendendogli il mento tra due dita e costringendolo a guardarlo negli occhi "Barbarossa è un pirata. Un pirata con una folta barba rossa, e si diverte a strappare la lingua ai bambini cattivi ... cattivi come te!"

Sherlock, obbligato, lo fissò con gli occhi lucidi di pianto trattenuto, scatenando in lui una risata denigratoria.

“Oh! Guarda guarda! Piangi adesso? Sei proprio Stupido!”

Sherlock si morse il labbro inferiore per non cedere ai singhiozzi e, inaspettatamente, si ribellò a quella presa. Mosse il viso di lato e guardò il fratello con rabbia.

“Non sono stupido, Mycroft. Sei tu che sei cattivo con me!” disse, quasi gridando e, senza aggiungere altro, si chiuse in camera sua sbattendo la porta con violenza. Andò a buttarsi sul letto e si tappò le orecchie con le mani aperte per non sentire la risata del fratello oltre la porta e i pensieri che lo tormentavano e, quasi senza rendersene conto, si addormentò.


 

Si svegliò alcune ore più tardi, di soprassalto, mentre un pirata dalla folta barba rossa cercava di strappargli la lingua con una grossa tenaglia. Si guardò attorno e vide che ormai le ombre della sera avevano avvolto la casa e il giardino come una spessa trapunta. Scese dal letto e andò alla finestra. Fuori il cielo, che era stato coperto per tutto il giorno, era limpido, e si vedevano anche alcune stelle tremolanti e incerte. Tornò verso la stanza e guardò l'ora. Le otto di sera erano passate da qualche minuto e lui non aveva ancora fatto i compiti per il giorno dopo anche se, per sua fortuna, non erano poi così molti.

Sbuffando andò a prendere dallo zaino i quaderni e si arrampicò sulla scrivania per risolvere i problemi di matematica. Nel silenzio della stanza sentì le voci dei suoi genitori e di Mycroft, che parlavano e ogni tanto ridevano. Era ovvio che si erano riuniti per cena, una cena alla quale, per colpa di una stupida e ingiusta punizione, si era perso.

Un'ora dopo crisse l'ultimo numero sul quaderno e, con un sospiro di sollievo, richiuse il quaderno. Proprio in quell'istante sentì un rumore strano, una specie di gorgoglio. Non era la prima volta che sentiva quel rumore, era la sua pancia che reclamava cibo. Sapeva che non ne avrebbe ottenuto, non quella sera, così si rassegnò a mettere via i quaderni e a prepararsi per la notte, si sarebbe rifatto con la colazione del mattino seguente.

Ormai in pigiama andò ad ifilarsi sotto le coperte, cercando di dimenticarsi le parole del fratello e le immagini che queste avevano creato nella sua testa di bambino. Dal momento che non aveva sonno prese il libro che stava leggendo in quel periodo e se lo mise sulle ginocchia così, illuminato solo dalla luce della lampada accanto al letto, si immerse nella lettura di 'Il GGG'. Sospirando sfogliava quelle pagine, mentre pensava che gli sarebbe piaciuto essere al posto di Sofia ed essere portato via da un grande gigante gentile, che lo avrebbe accettato per quello che era, non come suo fratello che gli dava continuamente dello stupido e lo spaventava con storie di paura. Stava quasi per arrivare al momento culminante del libro e la tensione era altissima, quando un rumore lo fece sobbalzare. Pensò si trattasse ancora del suo stomaco, ma posando una mano sopra l'ombelico, constatò che non era così. Posò il libro sopra il comodino e si mise seduto, in ascolto. Se l'era immaginato o era qualcosa di reale? Restò immobile qualche minuto e stava quasi per rilassarsi e tornare a leggere, ma proprio quando stava per riprendere il libro il rumore si fece sentire di nuovo. Ascoltando con attenzione capì che si trattava di una specie di fruscio, come se qualcuno si stesse muovendo tra i cespugli sotto la sua finestra. Istintivamente nascose la testa sotto le coperte. Barbarossa! Stava arrivando Barbarossa per strappargli la lingua! Non riuscì a trattenersi e iniziò a tremare per la paura. Restò sotto le coperte qualche minuto, sperando che il rumore cessasse, invece sembrava aumentare di intensità. Stava per mettersi a gridare, quando sentì un nuovo rumore. Assieme al fruscio percepì qualcosa che assomigliava vagamente ad un guaito. Si tolse le coperte dalla testa, stupito da quel nuovo rumore. Anche se la paura di incontrare il pirata lo faceva ancora tremare, decise che era giunto il momento di indagare. Scese dal letto, indossò velocemente le scarpe senza mettere i calzini e, afferrata la torcia che teneva sul cassetto del comodino, scese silenziosamente le scale per non farsi sentire dai genitori. Pochi minuti dopo arrivò in giardino e, puntando la torca di fronte a sè, si avvicinò ai cespugli sotto la finestra della sua camera da dove, ormai ne era certo, provenivano quegli strani rumori.

A conferma di ciò arrivarono proprio questi che, man mano che si avvicinava, diventavano sempre più forti e frequenti. Insieme al fruscio aumentò anche il guaito e la sicurezza di Sherlock. Puntando la luce verso il cespuglio, vide la fonte di tutto quel chiasso e, suo malgrado, si mise a ridere. Non si trattava di un demone o di un pirata malvagio. Era un cucciolo, un piccolo cagnolino dal pelo rosso mogano che, a quanto pareva, era spaventato a morte. Si chinò verso di lui e gli porse la mano perché potesse annusarla.

"Non avere paura" gli disse, cercando di suonare il più rassicurante possibile "Non ti farò del male, te lo prometto ... Mi chiamo Sherlock ..."

Il cagnolino sembrò titubare, in fin dei conti non poteva sapere se fidarsi di quel gigante che, tutto ad un tratto, si era parato di fronte a lui, ma fu il bambino a decidere. Senza esitare lo prese in braccio, incurante del fango che ricopriva il suo pelo e che aveva iniziato ad imbrattare anche la maglia del suo pigiama, e lo portò in casa. Si era così intenerito alla vista di quei due occhioni che si era dimenticato di essere in punizione, così entrò in casa come se nulla fosse, deciso a pulire il cucciolo e a dargli da mangiare. Non fece in tempo a raggiungere il bagno perché la madre, insospettita dai rumori insoliti provenienti dal giardino, era andata a controllare, così lo intercettò prima che potesse correre via.

"Tu dovresti essere in punizione, signorino! Non ..."

Violet si fermò con il dito puntato contro il figlio perché si era resa conto solo in quel momento del fagottino che il bimbo stava portando tra le braccia. Il cucciolo, che nel frattempo, ascoltando il battito regolare del cuore di Sherlock si era calmato, scodinzolava felice tra le sue braccia, rinfrancato anche dal calore della casa.

"Sherlock ..." continuò la donna, inginocchiandosi davanti a lui e fissando alternativamente il figlio e il cane "Dove lo hai trovato?"

"Qui fuori, mamma" rispose diligentemente lui "Ho sentito dei rumori e sono venuto a controllare. Avevo paura che fosse Barbarossa, il pirata che strappa la lingua ai bambini cattivi, ma ho sentito guaire e ho scoperto che si trattava solo di un cucciolo!" concluse ridendo "è tutto solo, mamma! Posso tenerlo? Sarà mio amico e ti prometto che mi prenderò cura di lui!"

Violet aveva ascoltato sempre più stupita il racconto del figlio. Barbarossa? Pirati che strappano la lingua? Sicuramente doveva essere stato Mycroft a mettergli in testa quelle idee, lo avrebbe sgridato per quello, ma in quel momento aveva altro a cui pensare. Due paia di occhi dolcissimi lo stavano fissando, implorandola. Nessuno, nemmeno l'uomo più cattivo del mondo, avrebbe potuto rifiutare vedendo quei due musini. Riflettendo qualche secondo, Violet pensò che gestire un cane sarebbe stato difficile per un bambino, ma il suo Sherlock non era un bambino come tutti gli altri e forse accudire un essere vivente lo avrebbe aiutato ad diventare più responsabile. Finse di pensarci ancora un po', giusto per godersi la faccia del figlio, poi annuì ridendo.

"Va bene, bricconcello! Puoi tenerlo! Ora però andiamo in bagno e lo laviamo per bene da tutto questo fango e poi ti cambi anche tu, sei d'accordo?" gli chiese, carezzandogli delicatamente i riccioli corvini.

"Sìììì!!!" esclamò lui, saltellando per la gioia, mentre il povero cucciolo cercava di non cadere dalle sue braccia, aggrappandosi con le zampine al tessuto della maglia.

Violet prese per mano il figlio e insieme andarono nella stanza da bagno. Nel giro di un quarto d'ora il cucciolo sguazzava allegramente in una bacinella d'acqua mentre Sherlock, con un pigiama pulito, lo osservava. Stava per tirarlo fuori quando arrivò la mamma e lo fece lei.

"Ora dobbiamo asciugarlo" spiegò "Altrimenti prenderà freddo"

Sherlock la osservò sollevarlo e posarlo sul mobile e, presa una salvietta e il phon, iniziare ad asciugargli il pelo. Non ci volle molto perché, essendo ancora un cucciolo, il pelo era molto corto così, una volta asciutto, prese di nuovo per mano il figlio e andò in cucina.

"Scommetto che sarà molto affamato" disse, versando un po' di carne avanzata dalla cena su un piatto " ... e anche qualcuno di mia conoscenza!" aggiunse, servendogli una fetta di torta.

Sherlock si arrampicò sulla sedia e osservò quel trionfo di cioccolato e panna, imitato dal cucciolo, divorò la sua cena.

Quando entrambi ebbero finito di mangiare, Violet posò i piatti vuoti sul lavello e tornò da lui. Il cagnolino zampettava allegramente sul tavolo e ormai sembrava perfettamente a suo agio tra di loro. Restarono ad osservarlo qualche minuto, poi fu Violet a rompere il silenzio.

"È un setter irlandese" disse, accarezzandolo lievemente dietro un orecchio per controllare che non avesse un tatuaggio "A quanto pare è stato abbandonato" concluse, notando che non ce n'era traccia. Direi che puoi tenerlo tu, se te la senti di prenderti cura di lui ..." gli disse, per metterlo alla prova.

"Mi prenderò cura di lui!" esclamò il bimbo, con un'insolità solennità "Te lo prometto, mamma!"

La donna, intenerita, sorrise.

"Molto bene, allora" disse "Che nome vuoi dargli?"

Sherlock restò qualche istante immobile. Non aveva pensato a quel dettaglio. Improvvisamente, come tutte le idee geniali, gli venne il nome giusto per lui. Aveva avuto paura che fosse Barbarossa, il pirata di cui gli aveva raccontato Mycroft ma, con un po' di coraggio, aveva scoperto che così non era. Capì in quel momento che le paure possono essere sconfitte solo quando si decide di affrontarle a viso aperto e quel cucciolo glielo avrebber ricordato per sempre.

"Si chimerà Barbarossa, mamma" concluse, prenendolo in braccio e avvicinandoselo al viso e, mentre lui gli leccava festosamente le guance, si ritrovò a ridere di felicità "Benvenuto a casa, Barbarossa!"


 


 

Passò qualche anno. Sherlock ormai aveva dodici anni e lui e Barbarossa erano diventati inseparabili. Come aveva promesso alla mamma, se ne era preso cura, gli aveva dato da mangiare, lo aveva accudito, pulito e aveva giocato con lui. Insomma, quel cucciolo gli aveva regalato una vita più serena e stimolante. Anche se a scuola continuavano a prenderlo in giro, anche se le maestre a suo dire erano sempre più stupide, anche se Mycroft continuava a infastidirlo, nulla di tutto ciò sembrava turbarlo più oramai, perché sapeva che ad attenderlo c'era sempre Barbarossa, che gli voleva bene sempre e comunque.

Quando tornava a casa da scuola era lui il primo ad accoglierlo. Gli correva incontro in giardino e lo faceva quasi cadere a terra dall'entusiasmo che ci metteva per fargli le feste, posandogli le zampe sulle spalle e leccandogli tutto il viso. Si divertivano tanto quando giocavano a casa, ma aveva pensato che fosse il caso di spingersi un po' più oltre. Anche se disponevano di un ampio giardino, voleva mettere alla far crescere Sherlock, mettendo alla prova la sua responsabilità.

"Potrai portare Barbarossa al parco una mezz'ora" gli aveva detto il primo giorno d'estate "Gli farai fare una passeggiata, i bisogni e poi lo porterai di nuova a casa. Pensi di potercela fare?"

Sherlock, impaziente di vivere nuove avventure, aveva accettato di cuore e così, giorno dopo giorno, aveva iniziato a portare Barbarossa al parco, sotto lo sguardo discretamente vigile della madre.

Quel giorno era particolarmente soleggiato e Sherlock si sentiva ancora più entusiasta di portare il suo amato cagnolino al parco.

"Mamma!" gridò, per richiamare l'attenzione della donna "Io e Barbarossa andiamo al parco!"

"Va bene, Sherlock. Fai attenzione, mi raccomando!"

Il bambino annuì correndo fuori, seguito a ruota dal suo inseparabile amico. Il parco si trovava giusto davanti casa e bastava solo attraversare la strada, non molto trafficata tra le altre cose, per ritrovarsi immersi negli alberi. Ogni giorno gli piaceva percorrere una strada diversa, in modo da non annoiarsi mai. Quando finalmente arrivava alla radura centrale lasciava libero Barbarossa, in modo che potesse rincorrere gli scoiattoli, tanto poi sapeva che tornava da lui.

Era appena arrivato e stava per lasciarlo andare, quando sentì ridere alle sue spalle.

"Guarda chi c'è qui" sentì dire "Lo strambo!"

Si voltò di colpo, capendo che si stavano rivolgendo a lui, e si aggrappò disperatamente a Barbarossa che, intuendo le intenzioni ostili di quei ragazzini, aveva iniziato a ringhiare nella loro direzione.

"Hai ragione" disse un secondo ragazzo "è proprio lui! Avevo sentito dire che andava in giro con cagnaccio rognoso ... e a quanto pare avevano ragione!" aggiunse, per poi rivolgersi direttamente a Sherlock "Sei ridicolo, lo sai?"

Sherlock era abituato ormai a quel genere di insulti e anche a peggio, ma Barbarossa non aveva mai visto il suo amico essere preso in giro così e fissava i due senza smettere di ringhiare.

"Buono, Barbarossa" cercò di rassicurarlo Sherlock "Non fa niente, sono due idioti ... Lasciali perdere"

Non fu una mossa molto fubra chiamarli così. I due si guardarono stupiti, poi uno di loro, quello più grosso, si avvicinò e, posato il piede sulla schiena di Sherlock, lo spinse e lo fece cadere a terra. Non fu una caduta molto grave e Sherlock non si fece nemmeno male ma Barbarossa, vedendo che qualcuno stava attentando alla sua sicurezza, scattò d'istinto e, senza nemmeno abbaiare, morse il polpaccio del ragazzo che aveva osato far del male al suo Sherlock.

Fu questione di istanti. Un minuto prima erano lì, un minuto dopo entrambi stavano fuggendo, gridando e giurando vendetta nei confronti di quel 'marmocchio odioso' e del suo 'cagnaccio bavoso'.

Sherlock sorrise e, senza poter immaginare le conseguenze di quel gesto, tornò a casa.


 

Passò qualche settimana senza che nulla accadesse, e Sherlock si era completamente dimenticato di quel piccolo incidente al parco, al quale non ne erano seguiti altri. Quella sera, però, era destinata a cambiare la sua vita per sempre.

Quando la madre lo chiamò per la cena trotterellò in cucina seguito dal fedele Barbarossa, impaziente di mangiare dopo una giornata di studio e giochi, ma quando incrociò lo sgurado del padre, il suo sorriso svanì come se fosse stato lavato via da un colpo di spugna. Il padre intuì il suo turbamento e si affrettò, per non peggiorare la situazione, a dirgli ciò che doveva.

"Sherlock, oggi ho ricevuto una telefonata molto brutta" disse, guardandolo fisso negli occhi "Il padre di quel ragazzino, Anderson ..."

A Sherlock sembrò che il sangue gli si fosse gelato nelle vene, avendo capito immediatamente cosa quell'uomo avesse voluto comunicare a suo padre.

"Mi ha raccontato che Barbarossa ha morso suo figlio, qualche settimana fa. Fino a stamattina non ne aveva saputo nulla perché era all'estero per un viaggio di lavoro, ma non appena il figlio lo ha informato mi ha chiamato, chiedendomi esplicitamente di ..."

Si interruppe, cercando le parole giuste negli occhi della moglie che, da brava mamma, prese con coraggio la responsabilità di dire la verità al figlio.

"Sherlock, quello che papà sta cercando di dirti è che ..." disse, esitando anche lei.

"Lo uccideranno, Sherlock" concluse Mycroft per la madre, con un tono che avrebbe voluto essere pacato ma era solo cinico.

"L-lo ..." iniziò il bambino, ormai sull'orlo delle lacrime, mentre Barbarossa, intuito il suo dispiacere, gli leccava la mano per consolarlo.

Violet, che sentiva il cuore spezzarsi vedendo il figlio in quelle condizioni, annuì.

"Sì, tesoro. Il papà del tuo amico vuole che uccidiamo Bararossa perché dice che è pericoloso e ..."

"Non è vero!" sbottò Sherlock, scoppiando a piangere, mentre il cane al suo fianco posava il muso sulle sue gambe "Barbarossa è buono! Lo ha morso per proteggermi! Per difendere me! Philip mi aveva spinto a terra e lui mi ha difeso, ma è buono! È buono! Lo giuro! È buono!!"

Ormai gridava come se ne andasse della sua stessa vita, e i suoi genitori non sapevano come spiegargli che, nonostante tutta la loro buona volontà, non c'era nulla che potessero fare per evitargli quel triste destino.

"Devi rassegnarti St ... Sherlock" lo rimproverò Mycroft, fermandosi in tempo prima di chiamarlo 'stupido' davanti ai genitori "Sai chi è il padre di Anderson? È un giudice. Ha detto che se non ci liberiamo di quel cagnaccio" continuò, prendendosi un'occhiataccia da parte del fratellino "Papà avrà dei problemi sul lavoro"

Sherlock sgranò gli occhi per lo stupore e l'indignazione. Era possibile che un uomo, un adulto, potesse essere così cattivo? Era consapevole che si trattava di una mera esibizione di potere, che in realtà al signor Anderson non importava nulla del suo cane nè di vendicare il figlio, eppure non riusciva a calmare la rabbia.

"Mi dispiace, tesoro" gli disse il padre, cercando di essere dolce "Non abbiamo scelta ..."

Non restò ad ascoltare il resto del discorso, corse via, diretto in camera sua, seguito da uno stordito Barbarossa, che voleva solo consolarlo. Siger, in preda al panico, stava per alzarsi, ma la moglie lo tenne seduto.

"Lascialo solo per un po', ha bisogno di sfogarsi" gli disse e, sospirando per la tristezza, servì la cena, ma ormai la fame era passata a tutti.

Nel frattempo Sherlock, in camera sua, piangeva disperato, tenendo abbracciato Barbarossa.

"Non possono ucciderti, non possono! Sei il mio migliore amico, Barbarossa! Non possono ucciderti!"

Continuò a ripetere quella litania all'infinito, fino a quando non arrivò suo padre che, staccatolo dolcemente dall'abbraccio con il cane, lo fece sedere a letto e lo abbracciò stretto.

"So che sei triste anzi, che sei disperato, ma devi capire che ci sono cose nella vita che non possiamo evitare. La vita è piena di tragedie e prima o poi dovrai affrontarle anche tu. Sei ancora piccolo, ma questo non è altro che una prova di ciò che la vita ti potrebbe riservare. Lutti, malattie, incidenti, sono cose che non possiamo prevedere, eppure accadono!"

"Questa non è una cosa che ha deciso il destino" protestò il bambino, gridando per la rabbia "Questa è la volontà di un uomo cattivo!!"

Siger sospirò, colpito dalla verità delle parole che il figlio aveva saputo pronunciare. Aveva sempre saputo che Sherlock era molto maturo e intelligente per la sua età, ma un discorso del genere lo aveva davvero messo in difficoltà. Annuì tristemente e sciolse l'abbraccio per poterlo guardare negli occhi.

"Hai ragione tu, Sherlock, ma le persone cattive esistono come esistono le disgrazie, e non c'è niente che possiamo fare per evitarlo" concluse, rassegnato.

"Non è vero!" esclamò Sherlock "Quando sarò grande troverò tutte le persone cattive e gliela farò pagare! Voglio risolvere i misteri e aiutare le persone in difficoltà come me adesso!"

Scoppiò ancora a piangere e Siger lo abbracciò ancora, più stretto, finché non lo sentì addormentarsi tra le sue braccia. Solo allora, quando fu certo che dormisse profondamente, lo svestì e lo mise sotto le coperte e uscì silenziosamente dalla stanza, portandosi dietro il cane che, ingenuamente, non oppose resistenza.

Siger e Mycroft, prima di dare la brutta notizia a Sherlock, si erano messi d'accordo per uccidere Barbarossa quella sera stessa, in modo che la mattina dopo fosse già tutto finito. Lo portarono in giardino, senza saperlo proprio accanto all'aiuola dove Sherlock lo aveva trovato e, armati di coltello a serramanico si apprestarono a porre fine alla vita della povera bestiola che, intuendo ciò che gli stavano per fare, iniziò a guaire ed abbaiare.

Sherlock, che nel frattempo si era svegliato, sentì il richiamo del suo amico e, senza preoccuparsi di essere in pigiama e scalzo, corse ingiardino, giusto in tempo per vedere Mycroft tagliare la gola a Barbarossa. Il pelo del cane, già rossiccio di suo, si tinse del vermiglio del suo stesso sangue, mentre la luce degli occhi della bestia svaniva lentamente. Piccole gocce di pioggia iniziarono a cadere sulle foglie, sul prato, sul pelo di Barbarossa, sui capelli di Mycroft, sul coltello insanguinato e infine sulle guance di Sherlock, dove andarono a confondersi con quelle delle sue lacrime che, lentamente, avevano iniziato a sgorgargli dagli occhi. Era rimasto immobile, paralizzato dal terrore e dalla disperazione, gli occhi fissi verso quello che era il suo migliore amico.


 


 


 

20 anni dopo

"Sherlock? Sherlock?! Per l'amor del cielo, Sherlock! Cosa ti prende?!

Pioveva quel giorno, anzi, aveva appena iniziato a piovere. Piccole gocce trasparenti aveano iniziato a inumidire il cappotto di Sherlock che se ne stava immobile, come pietrificato, sotto lo sguardo preoccupato di John.

Erano stati chiamati per indagare su un furto con scasso avvenuto in una villa della Belgravia. Da quanto avevano raccontato i propietari, i ladri si erano introdotti in giardino, apparentemente consapevoli di tutti i sistemi di allarme della casa. Ciò che non avenano previsto era il cane, un setter irlandese, che aveva appena fatto in tempo ad abbaiare un paio di volte, senza tra l'altro svegliare i padroni, prima di essere brutalmente ucciso con un un secco colpo di coltello a serramanico alla gola.

Sherlock era lì, di fronte al cane, in cerca di impronte. Era presente in fisico, ma la sua mente era tornata indietro a venti anni prima e lui non era più il famoso consulente detective con il cappello buffo, non era più il freddo ragionatore che sapeva dedurre la vita degli altri al primo sguardo.

Era Sherlock.

Un bambino al quale era stato sottratto il suo migliore amico.

Senza parlare, quasi in stato di shock, Sherlock si avvicinò al cane e, sotto lo sguardo stupito di John, si inginocchiò e lo abbracciò, senza preoccuparsi di macchiarsi di fango e sangue rappreso e finalmente, dopo anni di auto repressione, scoppiò in lacrime.

"Mi manchi, Barbarossa ... Mi dispiace, è stata tutta colpa mia ... Non ho saputo difenderti da quell'uomo cattivo ..."

John, sconvoltò, ascoltò quella confessione e da quello straziante ultimo saluto e, pur non capendo cosa stesse succedendo, abbracciò invece Sherlock mentre la pioggia continuava incessantemente a cadere.

   
 
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