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Autore: manies    15/01/2014    1 recensioni
Il racconto di un’amore durato una vita e forse qualcosa in più.
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“I could hear my heart beating. I could hear everyone’s heart. I could hear the human noise we sat there making, not one of us moving, not even when the room went dark.”
—     Raymond Carver    
 
 
 
Occhi Bionici
Il racconto di un’amore durato una vita e forse qualcosa in più.
 
Mi ricordo che faceva male, che faceva male guardarla.
Aveva dei bellissimi capelli castani che si aprivano sul cuscino latteo come le onde fanno sulla sabbia. Delle volte, restavo sveglio la notte per osservarli. Li sfioravo con i polpastrelli e, ogni singola volta, rimanevo sorpreso della loro morbidezza. Mi scivolavano tra le dita come se fossero stati creati proprio per quello, come l’acqua ghiacciata del mare in inverno quando la sfiori con il palmo della mano. 
Puntualmente, dopo ogni riflessione, mi giravo su di un fianco e sgranavo gli occhi per osservarla: Quando dormiva, sembrava un angelo. Aveva la pelle così chiara da sembrare quasi trasparente, che poi andava ad arrossarsi sulle gote. Le lunghe ciglia scure, ricoperte di mascara, andavano quasi a posarsi sulle guance cosparse di lentiggini. Amavo di lei persino il modo in cui il trucco si scioglieva e si radunava agli angoli degli occhi. Era così esile, così piccola da sembrare una bambina. 
Durante la notte le gocciolava il sangue dal naso. 
Toc, toc, toc
Le gocce si posavano rumorosamente sulla copertura chiara del cuscino e si espandevano man mano come per magia. Lei non se ne accorgeva; Lei rimaneva stesa lì, con un sorriso dipinto sulle labbra, beata nel sonno.
Mi ricordo che mi voltavo dall’altra parte per allontanarmi da quel liquido cremisi, da tutto ciò che esso significava. Calavo le palpebre e pensavo, pensavo a quanto fosse crudele il mondo. E’ stato per lei che ho smesso di credere in Dio, ed in tutto ciò che le persone continuano a raccontare sulla sua esistenza. 
Il suo nome era Ruby, e frequentava il college con me. 
Lei, durante i suoi pochi diciannove anni, ne aveva passate tante: I suoi genitori avevano divorziato e con la madre non aveva un buon rapporto; A quindici anni aveva scoperto di essere malata, e da allora viveva tutti i suoi giorni come se ognuno di questi fosse l’ultimo.
 Era quel tipo di ragazza che non credeva nell’amore finché non lo provava.
Lei era un po’ un maschiaccio, non riusciva ad essere femminile neanche se ci provava con tutta sé stessa - e questa era una cosa che, in un certo qual modo, mi aveva sempre fatto ridere: La trovavo buffa. 
Quando ci conoscemmo, mi svelò che le sue amiche le avevano sempre detto che, con i suoi modi di fare, non avrebbe mai trovato un ragazzo: Per i loro gusti così sofisticati, Ruby era una cattiva ragazza. Ciò perché si fumava qualche canna e le sigarette erano un’abitudine, ed anche un po’ perché poteva essere definita dai facili costumi. 
Poi l’ho conosciuta meglio, ed ho capito quanto in errore si trovassero quelle persone: Ruby era quel tipo di ragazza che, in un modo o nell’altro, riesce sempre a tirarti fuori un sorriso. Non era affatto cattiva, era solo diversa. Diversa in quel modo che alla gente normale non piace, perché - per loro - rasenta l’assurdo. 
Aveva degli occhi cerulei che potevano penetrarti l’anima e lacerti il cuore, ed un sorriso che t’invadeva di raggi di sole tant’era bello. 
Le piaceva mangiare la pizza sul divano e bere la birra, sedendosi scomposta per poi masticare la gomma con la bocca aperta e commentare i film d’amore in modo negativo. Lei, in quest’ultimo, proprio non ci credeva. Aveva visto le persone stare insieme e poi aveva capito che, anche quelle che più si amavano, finivano per lasciarsi. La sua paura più grande era proprio perdere la persona di cui si sarebbe potuta innamorare, ma non aveva neanche idea di quanto sarebbe stato struggente per una persona che l’amava, perderla. Non ci aveva mai pensato, lei partiva con l’aspettativa di non essere importante per nessuno.
Leggeva tanto che poi le bruciavano gli occhi. Si addormentava con i libri sulla pancia e le lacrime che le rigavano le gote. Leggeva dell’amore, delle avventure, dei racconti del terrore. Leggeva di tutto ciò che, ne era sicura, non avrebbe mai visto né provato.
Lei era fantasiosa. Amava viaggiare con la mente. Sognava un mondo migliore dove poter essere sé stessa. Un mondo senza malattie. Un mondo dove la vita non sarebbe stata solo un benefit per le persone fortunate.
Era sensibile, anche se non l’avrebbe ammesso mai.
Ricordo che quando la guardavo mi veniva in mente tutto questo.
Ricordo che faceva male.
L’avevo conosciuta fresca e giovane, per poi vederla appassire così in fretta da far male al cuore.
Adesso non ricordo bene il suo viso. Quando chiudo gli occhi mi appare sfocato, come il ricordo di una gita al primo liceo, ma non mi va di guardare le nostre fotografie per ricordarla - così sembra più reale. E fa male anche questo.
Ricordo ancora il suo sapore: Sapeva di albicocche, zucchero filato ed una spezia tutta sua. Quando la baciavo, la sua pelle candida era così morbida da far quasi impressione.
Provavo dolore ogni volta che la stringevo al petto e che aspiravo il profumo dei suoi capelli, ché sapevo bene che non sarebbe affatto durato a lungo. Riuscivo a sorriderle solo perché cercavo di indurle la forza di andare avanti, di continuare a lottare per la sua stessa vita - anche se lei non ne aveva alcun bisogno, no, perché era così coraggiosa da affrontare la sua malattia, il cancro, a testa alta. Non le importava dei capelli che man mano divenivano sempre di meno, e neanche delle ossa del corpo ch’erano sempre più sporgenti. A lei interessava solo continuare a vivere, almeno un altro po’.
Mi faceva male guardarla perché mi veniva da pensare a tutto quello che non avrebbe visto, né vissuto, mai: La gioia di vedere nascere il proprio bambino, il matrimonio, il primo nipotino…
La chiamavo Occhi Bionici.
Le piaceva il mare.
Odiava il Natale.
Amava le grandi città caotiche come Londra e detestava profondamente il piccolo paesino in cui entrambi siamo cresciuti.
L’ho tenuta stretta tra le braccia fino al suo ultimo ansimo.
Io l’ho vista soffrire, ed ho sofferto con lei. L’ho vista piangere e ridere e penso che lo rifarei altre mille volte.
Quando è morta ho sofferto parecchio. Sono stato mesi in terapia e credo di non aver mai superato lo shock di averla persa. Oggi, però, a distanza di circa trent’anni, penso che sia stato meglio che lei sia morta: Era arrivato un momento in cui provavo dolore nel solo guardarla, ché la sua vita era un continuo soffrire ed io non ne potevo più per lei, anche se Ruby continuava a dire che era tutto okay.
Ma non era tutto okay, altrimenti sarebbe ancora qui.
Fa ancora male, male pensarci.
   
 
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