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Autore: CathLan    16/01/2014    2 recensioni
Leslie all’inizio non aveva capito. Non riesco cosa?
Adesso sa, perché anche lui senza Jo non riesce.
Cosa?
Non riesce tutto.
Genere: Angst, Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Scolastico
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Un nome che ti trema dentro.
 

 
Gli capita spesso di pensare all’amore.
Leslie si dice che non è perché è innamorato, ma il modo in cui il suo stomaco sfarfalla certe mattine confermerebbe l’esatto contrario. 
Leslie ha sedici anni, lo spazio tra gli incisivi superiori e i capelli che d’estate non diventano chiari, ma tutto sommato è un ragazzo come tutti gli altri.
E’ solo che lui scorge cose che gli altri solitamente non notano. 
I suoi occhi scuri vedono troppo e questo forse è un male, perché se non avesse impresso nella mente tutte le differenti espressioni di Jo allora magari non avrebbe paura di ammettere che è innamorato. 
Leslie a sette anni credeva che l’amore fosse quando sei così abituato ad una persona che conosci tutto il contenuto del suo armadio, ogni singola tonalità del suono della sua voce e le curve della sua ombra incollata alla parete come potresti riconoscere la tua. 
Leslie di Jo conosce queste e tante – forse troppe – altre cose, ma si dice che non lo ama. 
Il punto è che il suo rapporto con Jo è troppo diverso da quello tra Raya e Ace che sono fidanzati e, Leslie ne è convinto, si amano dalla terza media. 
Eppure lui quando Jo entra in classe e si toglie il cappotto la sente l’emozione piegargli lo stomaco e la voglia matta di alzarsi e sussurrargli da vicino «buongiorno Jo» stringergli la gola. 
Non lo fa perché Jo è il suo insegnante di letteratura e in realtà non potrebbe neanche riferirsi a lui col nome. Lui lo fa nella sua mente e con i suoi amici solo perché assaporare quelle due lettere lo fa sentire più vicino all’uomo che non ama, ma a cui pensa ogni notte mentre ascolta i The Script nascosto sotto le coperte.
E allora magari va bene lo stesso.
Va bene anche se Jo lo sentirà sempre e solo pronunciare «professor Croft». 
Leslie ricorda quando a undici anni ha osservato nascosto dietro ad una tenda suo padre chinarsi e baciare il pancione di sua madre con una tale devozione che lui sua sorella non l’ha saputa odiare neanche quando quella ha cominciato a strappargli via tutto: dalle attenzioni, alla sua mamma.
E questo lo rattrista, perché non può fare a meno di pensare a Jo e alla fidanzata che ha lasciato a Philadelphia.
«Lei ha ricevuto una proposta importante in uno studio di avvocati a Philadelphia e mi è sembrato ingiusto ostacolarla. Ovvio, mi manca molto, ma la sento ogni giorno e l’anno prossimo tornerà qui. Forse le chiederò di sposarmi, chissà» ha rivelato una volta a fine lezione. Sorrideva sereno nel rispondere alle curiosità delle ragazze.
Era ingiusto. Perché dopo il matrimonio arrivano inevitabilmente i figli.
E Leslie lo sa com’è prendersi cura di un bambino, com’è quando lo senti pronunciare le sue prime parole o macinare i suoi primi metri sulle gambette malferme. Lo ha imparato con Jenny anche se lei ha già cinque anni e non è sua figlia.
Un momento hai tutto in mano e quello dopo la tua vita ruota attorno ad un esserino così piccolo che non sembra neanche vero. Il resto è niente.
E allora quando Jo un giorno avrà un bambino con la sua fidanzata che fine farà lui, che in effetti ha la metà dei suoi anni e non l’ha nemmeno mai potuto chiamare per nome?
Leslie non ne ha la più pallida idea.
Sa solo che a dieci anni voleva fare il Papa e sua madre ha riso fino alle lacrime. A undici voleva morire, ma c’era Jenny e adesso boh, il futuro gli sembra una strada deserta coperta da una fitta foschia.
Ci sono solo le due “J” della sua vita attaccate a dei fili metallici che fanno corrente. Non può toccarle veramente.
E’ che quando Jo gli si avvicina, lasciando per la classe un odore stucchevole di acqua di colonia,  semplicemente per Leslie comincia a non esserci abbastanza aria. I polmoni sfrigolano come se stessero andando a fuoco e socchiudere la bocca non è sufficiente. 
Suo padre prima di impiccarsi gli ha detto: «scusami, ma senza la mamma non riesco».
Due giorni dopo lo hanno trovato nella camera da letto coi piedi a penzoloni mentre di sotto si stava festeggiando il primo compleanno di Jenny.
Leslie all’inizio non aveva capito. Non riesco cosa?
Adesso sa, perché anche lui senza Jo non riesce.
Cosa?
Non riesce tutto.
Qualche volta vorrebbe dirgli che va bene se lo tocca, se gli va vicino per segnargli la frase che ha sbagliato a trascrivere, che va bene se lo chiama di notte e lo sveglia come faceva Jenny appena tornata dall’ospedale ed era lui ad andare da lei e non suo padre, ma non lo fa perché è sicuro che non lo sentirebbe. 
«Scusami, ma senza la mamma non riesco».
«Ci siamo io e Jenny».
Suo padre non l’ha sentito.
Leslie però ci pensa sempre a cosa farebbe, a cosa direbbe, a come sarebbe.
Non ha dimenticato neanche la prima volta che l’ha visto. Il modo in cui Jo si è mostrato alla classe con gli occhi verdi che brillavano come due foglie bagnate dalla rugiada e il petto largo su cui spiccava una cravatta rossa. 
Era nervoso, si è presentato a bassa voce e si è grattato la barba come se non sapesse cosa farci con le mani grandi e ruvide.
Nel movimento da sotto il polsino della camicia è saltato fuori un tatuaggio. 
Leslie lo ha notato subito, ancor prima che arrivassero la primavera e le maniche corte. 
«Il tuo nome?» è stata la prima cosa che Jo gli ha chiesto, sbattendo un paio di volte le ciglia sugli occhi chiarissimi.
Era dietro la cattedra e sorrideva, con una fossetta a bucargli la guancia destra. 
Leslie ha perso un battito di cuore, poi ha risposto e Jo ha annuito segnando qualcosa sul registro di classe.  
È iniziata così. Ancor prima di scoprire quanto Jo amasse insegnare la letteratura o quanto la sua voce fosse sensuale.
E anche se Leslie continua a ripetere a Raya che non sente assolutamente niente, qualcosa non combacia nel modo in cui dovrebbe. 
È tutto sbagliato, tutto confuso come la sua scrittura, la sua camera da letto o la nebbia che deve affrontare per diventare grande.
Ma non fa male, solo paura.
***
 
Qualche volta, soprattutto nei primi mesi passati ad osservare Jo, Leslie ha provato a far finta di nulla.
Si ritraeva in se stesso e si limitava a guardare l’insegnante con fare distaccato, senza soffermarsi sulle rughette che si formano ai lati degli occhi verdi di Jo quando sorride o sui movimenti ampi che fa con le mani quando spiega un concetto abbastanza complesso.
Durava forse quattro minuti, poi tornava a memorizzare ogni cosa. E così fino a quando ha deciso di lasciar stare.
E’ che Leslie ha imparato che le persone se ne vanno all’improvviso e tu devi prendere tutto ciò che puoi quando ne hai la possibilità, perché altrimenti finisce che non ti resta niente.
«Ma mi stai ascoltando?»
Leslie si volta verso Iain. «Scusa» dice, tornando alla realtà.
Il suo compagno di banco sbuffa e il ciuffo di capelli ricci color ruggine si solleva per poi ricadere verso il naso all’insù. «Sei sempre distratto»  esordisce, convinto, tirando fuori dalla tasca dei jeans un pacchetto di cicche.
Ne mastica una e poi prende dallo zaino il libro di biologia.
«Puoi ripetere?» chiede Leslie.
Il tomo di Iain ha così tante orecchie che non sta neanche più chiuso. Biologia gli piace, è la sua materia preferita. «Ti ho chiesto se sai chi sta frequentando Robin». 
«Secondo te?»
«Lo vuoi sapere?» 
Leslie sorride e fa spallucce. La felpa gli è larga, gli cade continuamente da una parte. «Se ci tieni tanto».
«E’ inutile che fingi di non essere interessato» borbotta contrariato Iain, però non è offeso davvero.
«Dai dimmelo». 
Iain fa un verso stranissimo e dopo essersi voltato dall’altra parte per un solo misero istante ritorna con lo sguardo fisso su di lui. Ha gli occhi grandi di un romantico color celeste circondati da due profonde occhiaie grigie. Studia troppo. «Con Shen» mormora a bassa voce, come se si fosse arreso alle insistenze di Leslie.
«Cazzo» sibila sottovoce lui. Perché cazzo, Shen è uno studente del quinto ed è il capitano della squadra di Lacrosse.
Iain ammicca soddisfatto e si ravviva i ricci con una mano. «E hanno anche già scopato».
«Che troia». 
«Oh Les, sono sicuro che tu ti faresti Croft qui su questi banchi se solo ne avessi la possibilità».
Leslie ride, ma non nega. Ci ha pensato spesso a come sarebbe stare nudo su Jo, a gambe spalancate, magari sul divano di casa sua. O sul tavolo della cucina, o nella vasca.
D’altronde ha sedici anni, e il fatto che debba sorbirsi le lagne di sua nonna e i capricci di Jenny non vuol dire che non abbia mai tempo per pensare a sé.
«Praticamente Robb si è dichiarato e Shen gli ha chiesto di uscire, assurdo no?» domanda retorico Iain, masticando la gomma come un asino. «Magari se ci provi con Croft finisce che scopate nel suo loft, che ne sai. Ormai il mondo va al contrario».
Leslie grugnisce la sua disapprovazione, ma non sa cosa dire. Ha mal di stomaco e biologia non gli piace.
Nel momento in cui la professoressa fa il suo ingresso la nausea aumenta perché sta proprio guardando lui. Ha lo sguardo mezzo nascosto dalle lenti spesse puntato sulle sue guance pallide e non sembra affatto felice.
«Ross, ti dispiace uscire dalla classe un attimo?» dice la donna congelando il tempo.  
«Okay» farfuglia Leslie sbattendo le ciglia nere. Si alza in piedi e due secondi dopo è fuori dalla porta con la Sanders.  
Lei si alliscia la camicetta nera ed è serissima. Neanche quando lo interroga e lui non spiccica parola ha questa espressione cupa. «Premetto che non è niente di grave, ma tua sorella Jenny è caduta mentre giocava e l’hanno portata all’ospedale. Siccome conosco la tua situazione famigliare pensavo volessi saperlo per andare da lei» mormora con tono delicato. «Tua nonna ha chiamato qui e se hai bisogno del permesso per uscire due ore prima te lo compilo volentieri» aggiunge poi.
Leslie chiude gli occhi e ripercorre con lo sguardo la cartina mentale che si è fatto di Jenny.
E’ uguale a lui per molti aspetti, ma lei ha gli occhi della loro mamma: verdi dentro e ambrati fuori.
Leslie conta le pagliuzze e poi scivola sulla chioma nera legata in due trecce basse. Gliele fa la nonna ogni mattina dopo che Jenny si è lavata i pochi denti che le sono rimasti.
Ogni volta che ne perde uno lo mette sotto al cuscino e Leslie quando è sicuro che si sia addormentata lo prende e fa a cambio con una banconota del suo stipendio.
La mattina Jenny strilla come una pazza e riempie il suo barattolo con una gioia che è così infantile e pura da far sentire Leslie uno stronzo.
«Sì grazie» biascica.
Sistema le cose nello zaino velocemente, ma con attenzione, e fa un cenno del capo a Iain che sembra più preoccupato che mai. «La nonna?» gli chiede infatti.
Leslie scuote la testa. «Ti invio un sms dopo» taglia corto.
Una volta finito di preparare l’Eastpack recupera il permesso dalla Sanders ed esce da scuola con lo zaino in spalla e le gambe che sembrano non reggere più il peso dei pochi libri che ci ha ficcato dentro.
«Tutto bene Leslie?»
E’ così concentrato sul viso di sua sorella che quando si volta e incontra i lineamenti maschili di Jo non riesce neanche a spaventarsi. E’ un miscuglio di facce differenti, per un momento gli sembra di vedere anche sua madre.
«Sto andando via» mormora indicando col pollice il cancello arrugginito della scuola. Mancano circa sei metri. Dopodiché potrà mettersi a correre come un disperato.
«Non stai bene?» chiede Jo facendo brillare gli occhi. «Vuoi un passaggio fino a casa?»
Leslie si sente svenire. Si aggrappa al niente e gli rivolge un sorriso tirato. «Devo andare all’ospedale».
Jo annuisce, tira fuori le chiavi della macchina dalle tasche dei jeans e poi fa strada fino al parcheggio.
Non chiede niente, ma lo fa salire e mette in moto come se avesse fretta.
Leslie vorrebbe dirgli «grazie Jo», ma resta in silenzio.  


Jenny quando lo vede salta giù dalla sedia come se avesse preso la scossa e gli corre incontro facendo troppo chiasso.
L’ospedale è silenzioso quanto un cimitero, ma Jenny lo anima.
La bambina ha un braccio ingessato e due punti sulla fronte, ma non sembra curarsene minimamente.
Le mancano così tanti denti che quando sorride sembra la nonna, ma a Leslie non viene da ridere come al solito. Si china e l’afferra al volo tirandola su come se pesasse due chilogrammi.
La stringe forte e le gambe magre di lei gli cingono la vita naturalmente.
Jenny sa di shampoo al cocco e detersivo alla vaniglia.
«Les» sbuffa lei, sbagliando l’accento, quando lui le solletica il collo respirandole addosso.
Poi comincia a piangere come quando lui le ha detto «papà ha raggiunto la mamma» il giorno dopo il suo primo compleanno e tutto frana verso il basso.
Leslie si appoggia al muro come fece quella volta che pensava che lei non avrebbe capito e rintraccia con il pensiero il viso di sua madre.
Quando ricordarla comincia a diventare più difficile Leslie tira fuori la foto che ha nel portafoglio e la fissa finché non è di nuovo tutto a posto, tutto fermo lì nel suo cervello.
Smette di provare a rammentare solo perché gli sta venendo mal di testa e Jenny gli sta bagnando la manica della felpa.
Però è okay. Anche lui avrebbe voluto piangere quella volta, e magari anche adesso.
«Va tutto bene Jey» sussurra accarezzandole i capelli sciolti. «Vuoi che ti rifaccio le trecce?»
Lei tira su col naso e scuote il capo. Si sistema nel suo abbraccio in modo che resti voltata a tre quarti e smette di piangere. «E’ tuo amico?» domanda come niente fosse appena accaduto, scannerizzando con gli occhi vispi la figura di Jo.
Leslie non sa cosa dire, ma fortunatamente Jo agisce prontamente. Si avvicina ad entrambi e sorride serafico. «Piacere, io sono Jo» dice, sfiorando con una nocca la gota bagnata di Jenny. L’asciuga e poi si ritrae di un passo.
«Io mi chiamo Jenny» risponde lei educatamente. «Les ha pianto?»
Jo non ride come Leslie si aspetta che faccia, ma si irrigidisce. Fissa il suo sguardo smeraldino sul suo volto pallido e «no, Leslie non ha pianto» mormora serio.
Jenny si gira verso di lui e gli bacia la tempia come una madre orgogliosa del figlio. «Les non piange mai, per questo volevo saperlo» aggiunge con la vocina infantile. «Siete amici?»
«E’ il mio professore di letteratura».
«Ma siete amici?»
Leslie è sul punto di chiederle che cavolo abbia, ma Jo ride. E la sua risata fa librare in aria le farfalle.
«E se dicessi che siamo amici?»
Jenny alza un sopracciglio. «Non ci credo» ribatte come se fosse ovvio.
Poi vuole scendere e quindi Leslie la mette giù. Le stringe la mano libera dal gesso e prende le carte che dovrà compilare la nonna in quanto tutrice legale.
Mentre escono dall’ospedale Jenny non fa altro che parlare, ma almeno sta attenta a dove mette i piedi.
«La nonna si è preoccupata?»
«Non l’ho ancora sentita».
«Tu eri preoccupato?»
Leslie la carica dietro e le allaccia la cintura che è troppo grande per lei. Le sfiora coi polpastrelli il cerotto sulla fronte e «sì» sospira chiudendo la portiera.
Quando si siede dal lato del passeggero si sente sollevato, ma anche un po’ come un jamais vu[i].
Come quando a undici anni ha scoperto che la sua mamma era morta per dare alla luce Jenny.
Era un dolore nuovo, insolito. Per niente familiare. Non sapeva come gestirlo.
In quel momento si è sentito estraneo a se stesso.
«Dove vi lascio?» è la voce di Jo a smorzare il fischio sordo che gli stoppa le orecchie.
Leslie si guarda le dita e le muove. «Dove ti è più comodo».
«Dimmi l’indirizzo di casa tua».
E’ Jenny a dirglielo, tutta fiera di saperlo a memoria.
Leslie sta in silenzio per il resto del viaggio. Man mano che le strade si fanno conosciute il senso di jamais vu scompare.
Di fronte a casa Jenny si slaccia la cintura e saluta la nonna che è fuori in giardino.
Leslie la fa scendere e poi si mette davanti alla portiera del conducente. Jo abbassa il finestrino e sta sorridendo.
«Stai bene?» chiede e d’un tratto la sua bocca è una linea dritta.
Passarci sopra un dito sarebbe troppo, ma neanche abbastanza. «I bambini sono fatti di gomma» ripete, in una brutta imitazione di suo padre.
Lo diceva quando lui si faceva male e sua madre andava in panico. Quella frase la faceva sbuffare, ma almeno non chiamava l’ambulanza per niente.
«Dico sul serio, stai bene?»
Leslie annuisce. «Sto okay».
E Jo fa qualcosa che Leslie non avrebbe mai pensato potesse accadere. Tira fuori il cellulare e dice «ti do il mio numero, se hai bisogno chiamami».
E’ tutto così assurdo, un po’ come la storia di Shen e Robin.
Il mondo forse sta davvero girando al contrario.  
***

Sono passate due settimane e Leslie il numero di Jo l’ha fissato e basta.
Quando Raya gli ha chiesto perché non lo chiamasse anche solo per sentire la sua voce Leslie ci ha pensato per dieci minuti, poi ha chiuso gli occhi e ha riso.
«Mi immagino lui seduto sul divano che aspetta la telefonata della sua ragazza, il cellulare squilla, ma quando guarda sono io e non lei. Mi immagino la delusione sul suo viso» ha risposto, mettendo le braccia dietro la testa. «Non mi sento abbastanza importante da fargli suonare il telefono, capisci?»
«Quindi cosa farai?» ha domandato Raya, aprendo la porta.  
«Nulla».
Raya se n’è andato perché doveva incontrare Ace e lui è rimasto solo.
Ha acceso l’iPod e si è addormentato.
Adesso sta lavorando al bar perché è sabato sera e sembra tutto strano.
Aprire e chiudere la lavastoviglie non ha senso. Asciugare i bicchieri neanche. Servire i clienti lo disturba.
«Una birra» ordina un uomo.
E la voce Leslie la conosce, per questo gli scivola di mano lo strofinaccio ed è costretto a chinarsi.
Quando si rialza Jo è davvero al bancone.
«’sera» sussurra Leslie, mentre l’insegnante sgrana gli occhi incredulo.
Tiene sotto le dita una banconota e ha addosso una camicia bianca sbottonata sul collo. Indossa delle bretelle che stanno facendo un po’ perdere il filo dei pensieri a Leslie e ha i capelli scombinati come se ci avesse passato ripetutamente le dita in mezzo.
«Da quanto lavori qui?» domanda, distendendo le labbra in un sorriso. «Non ti ho mai visto prima».
Leslie conta e fa spallucce. «Un mese, credo».
Jo annuisce e «dammi una birra media, grazie» ripete.
Riempire un boccale medio sembra essere molto più complicato del previsto. Gli tramano le mani e la schiuma è troppa.
«E’ okay?» chiede mentre passa il bicchiere all’uomo.
Gli occhi di Jo brillano quando sfiorano il suo corpo longilineo. «Perfetta» assicura, ingollando un lungo sorso.
Leslie stira le labbra e avvicina lo sgabello al bancone. A dividerli sono un’asse di legno e un bicchiere di birra.
«Vieni qui spesso?»
«A quanto pare non venivo qui da un mese» risponde Jo, ma sta ridacchiando. «In realtà ci vengo quando sono stressato».
«Perché?»
«Per bere».
Leslie alza gli occhi al cielo. «Perché sei stressato?»
«L’amore è grande fonte di stress».
Cala un silenzio disarmante. Jo beve ancora e Leslie osserva un cliente prendere le sue cose e uscire. Ha pagato? Non lo ricorda.
 «Ne vuoi parlare?» chiede, tanto per non lasciare scivolare tutto in un buco nero.
Jo alza il mento barbuto verso l’alto e sbuffa. «Perché dovrei?»
«Non so, buttare fuori le cose fa star bene».
Jo torna con il viso alla sua altezza. «Ma tu non mi hai chiamato».
Siccome Leslie non sa che cosa rispondere distoglie lo sguardo.
Dopo un po’ si alza, riempie un altro bicchiere di birra e glielo porge. «Questo te lo offro io» butta lì.  
«Grazie».
«Allora me lo vuoi dire che succede?»
«Le donne sono strane» afferma teatralmente Jo spalancando le braccia. Le maniche della camicia le ha arrotolate fino ai gomiti. I tatuaggi sono visibili, egocentrici. «Immagino tu già l’abbia capito. D’altronde sei un bel ragazzo».
Leslie è così sorpreso che arrossisce. E’ gay da quando ne ha memoria. «Già, sono strane» sussurra.
Le sopracciglia di Jo hanno uno scatto, forse involontario. «Sei una bugia vivente, a partire dal tuo nome».  
Nessuno gliel’ha mai detto prima. Insomma, non che il suo nome finisce con la parola “bugia”, ma che è  un bugiardo.
Non ha mai pensato di esserlo. Altrimenti avrebbe detto a Jenny che il loro papà era in Australia per lavoro, no?
«Se Danielle sapesse che un ragazzino di sedici anni si è preso una cotta per me penso smetterebbe di tenermi il muso. Anzi, si farebbe una bella risata».
E Leslie non capisce. O forse sì è tutto chiaro, ma fa paura. E anche male.
«Quando l’ho pensata non era così brutta» aggiunge subito Jo. «Mi dispiace, cazzo».
Ma le sue gambe si sono già mosse e lo stanno portando fuori dal locale. Il proprietario lo guarda, ma non dice niente. Si conoscono da un po’ e anche se lo licenziasse Leslie cercherebbe un altro lavoro. Ne ha già cambiati sei e ha fatto di peggio che andarsene senza avvisare.  
L’aria della sera è fredda contro le guance, ma vivibile.
Aumenta il passo quando sente qualcuno seguirlo e si infila le mani sotto le ascelle per cercare un po’ di calore. Ha sempre freddo, anche quando è primavera e ci sono venti gradi.
Ha freddo da quando sua madre è morta e suo padre si è arreso.
Ha freddo perché nessuno lo abbraccia e la stretta di Jenny è troppo debole anche quando si sforza di fargli male.
«Leslie non volevo dire che riderebbe di te» grida al vento Jo. «Non era quello il senso».
«Lascia perdere, è okay».
La mano di Jo attorno al suo avambraccio è autoritaria. Lo ferma senza sforzi e «ho aspettato per due settimane che mi chiamassi e tu non l’hai fatto» sussurra, rigirandolo verso di sé.
Le sfumature dei suoi occhi si accendono dentro quelli scuri di Leslie. L’autunno non è male, ma è troppo arido. «Ho pensato di non averne diritto».
«Perché?»
«Sono un ragazzino di sedici anni e tu sei il mio insegnante, per di più fidanzato».
Una folata di vento scuote i rami degli alberi e spazza via le foglie secche. «Posso lasciarla».
«Per me?»
«Perché no?» la risposta di Jo è semplice, coincisa. Forse un po’ troppo.
«Ho sedici anni. E sei il mio insegnante».
«A dicembre ne compi diciassette. L’anno prossimo diciotto».  
Leslie sorride. «Il mondo va al contrario».
E Jo non sa minimamente di cosa stia parlando, non può certo saperlo, eppure ride e «dimmi che posso baciarti» domanda, o forse afferma, non si capisce.
«Puoi baciarmi».
Le labbra di Jo sono calde, la barba pizzica ma non è fastidiosa e le sue mani ruvide sulle guance pallide di Leslie sono piacevoli. La sua saliva gli cola sul mento, i suoi denti gli mordono il labbro inferiore e poi scivolano verso il basso. Quando Jo gli morde il mento e poi gli dà un bacio proprio lì dove ha un neo a forma di chicco di riso Leslie ride.
Ci ha pensato tanto e ora è tutto vero. Forse anche Robin si è sentito così quando ha scopato con Shen.
«Dimmi che posso chiamarti Jo».
La bocca dell’uomo si posa sul suo collo lungo, appena sotto all’orecchio. «Puoi chiamare alle tre di notte anche solo per dirmi “Jo” e poi buttare giù, a dire il vero».
«Come te ne sei accorto?»
Jo si tira in piedi. Se Leslie è alto uno e settantasette, Jo deve essere uno e ottantacinque. «Perché dici le bugie, ma non sai mentire».
«Cavolo» dovrebbe essere un lamento.
«E’ da quando mi hai detto come ti chiami che mi rigiro il tuo nome nella mente» sospira Jo. Gli prende una mano e incrocia le loro dita insieme. «Con la mia fidanzata va male da tanto tempo. Non ci possono stare due persone nello stesso cuore».
«Perché non me l’hai detto prima?»
Jo gli bacia il dorso della mano e sorride. «Non ci riuscivo».
E Leslie forse non l’ha mai capito davvero quel «senza la mamma non riesco», ma riesce a comprendere chiaramente ciò che sta dicendo Jo.
Anche lui non riusciva. Non riusciva ad ammettere di amarlo non perché lui non ci fosse, non perché a separarli ci fosse il cielo, ma perché semplicemente era difficile rivelare qualcosa di tanto grande quando le parole rimpiccioliscono tutto. Perfino i sentimenti.
«Jo?»
«Dimmi».

Leslie sorride. «Niente».
 
[i]  Jamais vu: Esiste il contrario di déja vu. Lo chiamano jamais vu. È quando incontri le stesse persone o visiti gli stessi posti in continuazione, ma ogni volta è come fosse la prima. Tutti sono sconosciuti, sempre. Niente risulta mai familiare. [Chuck Palahniuk]


Note autore: Buonasera! 
Questa One Shot è nata da una conversazione con un'amica conosciuta su Tumblr, quindi la dedico a lei.
Ale sei bellissima, sii forte per te stessa, non per gli altri. 
Ringrazio Sara per l'appoggio e nulla, spero di avervi regalato due battiti di cuore in più.
Un bacione, a presto.
La vostra CathLan. 
  
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