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Autore: crazy_k    16/01/2014    0 recensioni
Luke dimostrava vent’anni. Li dimostrava quando io ne avevo cinque, li dimostrava quando ne avevo dieci, li dimostrava quando raggiunsi i quindici e anche se non potevo ancora saperlo, ne avrebbe dimostrati venti anche quando io ne avrei avuti ottanta. Per lui il tempo sembrava non passare mai e, forse, era davvero così.
Genere: Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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L’insostenibile Fragilità del Divino









La prima volta che lo incontrai fu quando avevo sei anni.
In un freddo giorno d’inverno, mi persi per le vie trafficate di Parigi.
A quanto mi ricordo, fu allora che lo sentii dire per la prima volta; Parigi è la città dell’amore.
 
***




Mia madre era una professoressa di letteratura. Amava la letteratura con tutta se stessa e in un certo qual verso, la letteratura amava mia madre, l’amava così tanto che la portò via. Mamma era una donna fragile, distrutta dalla sua grande passione, schiacciata dal peso di una vita trascorsa in un battito di ciglia, al chiuso, con la sola presenza della carta stampata a farle compagnia.
So però per certo che mi voleva bene. Lo so perché mi raccontava sempre delle storie meravigliose; miti e leggende di antiche culture.
Adoravo ascoltare quelle storie.

Una volta, la gente credeva negli dei.
Si credeva che le divinità vivessero altrove rispetto a noi, in un altro mondo, un posto precluso a noi infimi mortali. Tuttavia, era anche usanza pensare che queste divinità trovassero in qualche modo divertente scendere dal loro Olimpo e mischiarsi alla gente comune.
C’erano volte in cui, i più intraprendenti tra loro, s’impossessavano dell’anima di un mortale, non solo del suo corpo come avveniva più di frequente. Così facendo finivano con l’incarnarsi in un nuovo nato e vivere una vera e propria vita umana dall‘inizio alla fine. Dimenticavano di essere creature superiori, riacquistando la loro coscienza divina solo quando l’anima del mortale si staccava dal corpo, quando insomma avveniva quella banale cosa che noi uomini chiamiamo morte.
C’erano anche dei che si creavano un involucro il più somigliante possibile a un corpo umano e vagavano poi in giro per il mondo. Diffondevano il loro sapere, il loro odio e il loro amore per giorni, anni e perfino secoli. Non invecchiavano, non s’indebolivano, rimanevano sempre uguali.

Non so bene il perché ma… Ho sempre creduto a queste storie.
 
***




Abitavo a Parigi da pochi mesi e non conoscevo ancora né la lingua, né la città, quando persi di vista mio padre e i miei fratelli.
Ero poco più che un poppante, completamente solo, in un ambiente a me estraneo. Fu probabilmente per questo che la visione di quel braccio che si tendeva verso di me, mi sollevava da terra e stringeva al petto, venne considerato dal mio inconscio una sorta di miracolo celeste.

Era un giovane ragazzo che parlava italiano e con l’innocenza dell’infanzia capii che non poteva essere del tutto umano.
Lo guardai incuriosito come un bambino può guardare le cose più semplici: una nuvola, l’arcobaleno, il proprio riflesso in una pozzanghera, una coccinella o uno sconosciuto dal sorriso dolce e l’incavo del collo dove avevo appoggiato il naso che sembrava fatto apposta per quello. Aveva la pelle tiepida e profumata, chiara come la neve che quel pomeriggio pareva gravitargli attorno. Gli occhi erano due carboni incandescenti, incastrati alla perfezione nell’ovale del viso. Mi stringeva saldamente tra le braccia mentre sussurrava parole di conforto al mio orecchio e io mi sentii improvvisamente al sicuro. Lasciai che i miei singhiozzi si calmassero, tenendomi aggrappato alle ciocche di capelli candidi che mi solleticavano le guance per accertarmi che quella sensazione di calore non svanisse da un momento all‘altro come sembrava poter fare.

Ricordo che mi sentii come se improvvisamente fossi piombato in un sogno.
La realtà intorno a noi era come sbiadita. La percepivo distante, confusa. Una gran calma, un senso di pacato relax mi precipitò addosso. E’ strano come, anche dopo tanto tempo, certi piccoli dettagli rimangano impressi nella memoria.
Rimasi in quello stato simile alla trance fino a quando non avvertii l’abbraccio avvolgente di Morfeo e un sonno spossato abbattersi su di me.

Quando mi svegliai, lui non c’era più e io ero steso nel mio letto.
 
***




A quindici anni scoprii il suo nome.

Era seduto fuori dal cancello della scuola, nascosto all’ombra di un grande ombrello malgrado in cielo non ci fosse una sola nuvola.
Ero sicuro stesse aspettando me.

Lo riconobbi all’istante perché, malgrado fosse passato fin troppo tempo, non era invecchiato di un solo minuto.
Era lo stesso, identico ragazzo che ricordavo. Perfino la nebbiolina azzurra che ne circondava l’immagine, qualcosa che ero convinto fosse frutto della fantasia di un bambino, era ancora lì a donargli un che di soprannaturale.

Luke. Così si chiamava.
Me lo disse quando gli chiesi come mai avesse aperto l’ombrello. - Gli dei sono esseri fragili qui sulla terra, il sole ci fa male. A proposito, io mi chiamo Luke.
Solo in seguito mi resi conto di non essermi mai presentato a mia volta. Luke però mi ha sempre chiamato con il mio nome.

Da quando venne la prima volta, per tutti gli anni della scuola lo trovai sempre all’uscita ad aspettarmi. Con il sole e l’ombrello aperto, con la pioggia che non lo bagnava, con la neve che gli gravitava attorno, con la nebbia che lo illuminava di una luce bluastra, con il vento che lo accarezzava, lui era sempre lì. A volte era seduto, altre volte in piedi… Spesso guardavo dalla finestra dell’aula per cercare di cogliere il momento esatto nel quale arrivava, senza tuttavia riuscirci mai. Quando suonava la campana dell’ultima ora, Luke non c’era. Tempo di scendere le scale a rotta di collo e uscire dal grande portone, zigzagando tra la marea di adolescenti, e lui era lì. Era lì che mi aspettava e sembrava essere lì da secoli, sembrava quasi parte integrante del paesaggio, qualcosa che dall’inizio del mondo era stato deciso dovesse essere messo lì, che quello doveva essere il suo posto… Suo. E di nessun altro. 

Luke mi accompagnò a casa tutti i giorni e io finii col raccontargli la mia vita in modo del tutto naturale. 
Mano a mano che il tempo passava mi rendevo sempre più conto di quanto poco io sapessi di lui e di quanto questo iniziava a farmi soffrire.
Luke divenne tanto presto, quanto inconsapevolmente, l’unica persona di cui m’importasse veramente.
 
***




Avevo tre fratelli maggiori. Avevo perché un incidente d’auto me li ha portati via tutti e tre in una volta sola. Mio padre che non superò mai davvero la morte della mamma, non resse all’ennesimo colpo e si suicidò la primavera dopo i funerali.
Appena maggiorenne finii dunque col trasferirmi in un monolocale in affitto per intraprendere la vita di un giovanissimo scapolo, senza soldi, senza famiglia, con un misero diploma di maturità in tasca e un lavoro pidocchioso come commesso in una libreria malmessa. 

Luke non veniva mai a trovarmi, ero sempre io ad andare da lui.
Lo trovavo a qualsiasi ora del giorno o della notte sempre nello stesso posto, un piccolo parco nel centro della città. Non riuscii mai a capire come fosse possibile che ogni volta che volevo vederlo lui era lì per me, senza un avviso, una chiamata… Niente. Era lì e basta.
Sono sempre stato segretamente convinto che non avesse una casa; per come la vedevo io, lui abitava in quel parco.

 
***




Luke dimostrava vent’anni. Li dimostrava quando io ne avevo cinque, li dimostrava quando ne avevo dieci, li dimostrava quando raggiunsi i quindici, e anche se non potevo ancora saperlo, ne avrebbe dimostrati venti anche quando io ne avrei avuti ottanta. Per lui il tempo sembrava non passare mai e, forse, era davvero così.
Mi resi conto che presto avremmo avuto la stessa età e inizia ad attendere  quel momento con ansia sempre crescente. In fin dei conti, adesso posso ammettere di essere sempre stato inconsciamente convinto che, non appena fossimo diventati coetanei, sarebbe capitato qualcosa d‘importante.

E così fu.
 
***




Compii vent’anni in estate e trovai solo all’ora il coraggio di confessare i miei sentimenti.
Non mi ero mai posto il problema che sia io che Luke fossimo ragazzi, non l’avevo mai nemmeno concepito come un problema. Nella mia visione rosea del mondo, l’amore era tutto ciò che contava.

Presi coraggio. Mi feci forza pensando che finalmente potevo parlargli da pari a pari.
Dissi a Luke quello che provavo.
Gli aprii il mio cuore e diedi voce a tutte le emozioni che teneva nascoste da tanto tempo. Gli dissi che avrei voluto passare la mia intera esistenza con lui al mio fianco.

Luke sorrise come sorrideva sempre e mi regalò una storia.
Parlò per quasi un’ora ininterrottamente quando, di solito, non pronunciava che pochi monosillabi incastrati gli uni negli altri in risposta alle mie domande.
Che non amasse parlare l’avevo capito da subito ma di Luke c’è da dire che non si esprimeva mai a parole. Dialogava attraverso i gesti, sfruttando i movimenti lenti e fluidi di un corpo che non sembrava avere materia, fatto di inconsistenza come inconsistente sono il fumo di una sigaretta, le nuvole, l’aria frizzante dell’inverno e la dimensione onirica dei sogni. Luke aveva un corpo evanescente, e evanescenti erano anche i suoi gesti, aggraziati e delicati. Ogni suo movimento era il movimento dei più bravi ballerini mai esistiti e l’intero universo pareva mettere freno al suo moto per non disturbare l’espressione artistica di quel corpo.
Luke mi raccontò degli uomini. Mi raccontò la storia dell’umanità così come mia madre mi aveva raccontato la storia di coloro che popolavano i cieli, ma parlò con una tal certezza e dovizia di particolari che quella storia sembrava l’avesse vissuta in prima persona.
Parlò degli antichi Aztechi, della medicina maya, dell’architettura inca, degli Egizi e delle grandi piramidi, delle antiche civiltà della Mesopotamia come i Sumeri, i Babilonesi, della loro arte, dei loro costumi, della società, della cultura così diversa da quella che siamo abituati a vivere noi ai nostri giorni. Parlò delle grandi menti greche, dei soldati persiani, delle ricchezze di un mondo dimenticato, passato, di strade perdute, non più battute da secoli. Raccontò della grande, immensa e potente civiltà romana così come raccontò del più piccolo villaggio indigeno disperso in una parte nascosta del mondo. Dava la stessa importanza alle donne, agli uomini, ai popolani, ai re, alle regine, agli eroi di guerra, ai mercanti di seta e spezie, ai corsari, ai nativi delle terre sconosciute… E così via, così discorrendo. Parlò di ogni parte del mondo, di posti esotici, posti caldi, freddi, aridi, deserti… Parlò di ogni persona del mondo, anziano o bambino che fosse, di ogni epoca che il mondo avesse vissuto.
Mi raccontò di come la mente umana era stata creata, di come era cresciuta, di come si era sviluppata nel corso dei millenni.
Mi raccontò tante cose; cose grandiose, bellissime o terribili, cose che non capii completamente. 
Luke parlò, e parlò, e parlò, e quando finì di parlare degli esseri umani e della Terra iniziò a raccontarmi di sé.
Mi venne detto che non era un semplice mortale, che in lui c’era qualcosa di più, che veniva da un posto al di là del cielo.
Mi venne detto che abitava la terra degli spiriti Kitsune, di Cristo, Giove e Afrodite.
Mi venne detto che anche lui mi voleva bene ma che non avrebbe mai potuto darmi quello che volevo perché il suo interesse per me era prettamente autoconservativo.
E quando terminò il fiume delle sue parole, senza darmi il tempo di oppormi, senza darmi il tempo di prendere coscienza di ciò che stava avvenendo, Luke scomparve e come lui, scomparvi anch’io.
 
***




Queste sono le parole mai articolate di una mente che sta svanendo, la testimonianza di come un angelo comparve davanti a me con un corpo evanescente, eroso dalle pesanti onde del tempo, di come scomparve in me per ritrovare la consistenza di ieri in oggi e di come io stesso mutai il mio essere fino a annullarlo del tutto.

C’è una cosa che miti e leggende trascurano di evidenziare, anche se alcuni provano a mettere i mortali in guardia.
Gli dei non sono come noi; non danno importanza a quello che noi consideriamo importante, la loro essenza non è comprensibile agli occhi degli uomini, noi non siamo in grado di trovare una spiegazione alla loro natura perché la loro natura e distante anni luce dalla nostra. Non sono esseri cattivi, perché non sanno cosa sia buono e cattivo, non provano emozioni né sentimenti perché non ne conoscono. 
Un essere divino è e rimarrà sempre un essere divino, indipendentemente da quanto tempo trascorre lontano dalla sua casa. E un essere divino è un essere fragile sulla terra. Ha bisogno di un contenitore abbastanza capiente per continuare ad andare avanti, un contenitore che non rifiuti un’essenza che non gli appartiene. Ecco come successe che lui divenne me e io divenni lui. Si servì del mio corpo come involucro per sé stesso, dei miei sentimenti come mezzo di transito, per perdurare la sue esistenza in questo nostro mondo.
 
Luke scomparve venendomi incontro.
Se avessi potuto sentire la volontà del dio, avrei sentito l’eterna promessa che scambiò il suo essere con il mio. 

Luke non voleva morire. Voleva continuare a esistere.
Non sentii dolore, non mi accorsi nemmeno di ciò che stava accadendo. Fu come un abbraccio, un abbraccio completo e totale. Inglobò il mio corpo, il mio cuore, la mia anima, e la mia stessa natura di uomo. In un attimo, in una frazione di secondo che sembrò dilatarsi nel tempo come infinite ere, persi coscienza di me, persi me stesso e la mia esistenza. 
Le due essenze si fusero l’una nell’altra. Cambiarono. Si trasformarono in altro e non fummo più Luke e io ma un diverso essere semidivino, frutto dell’unione delle nostre due nature.
 
***




Nacque dall’immolazione volontaria di un cuore innamorato e dal desiderio di un angelo dell’Inferno, che un essere umano definirebbe egoistico, uno delle tante creature che vagano per le terre e i tempi, uno dei tanti che invecchiano lentamente, uno dei tanti la cui essenza canta in eterno un triste inno alla gioia.









The End




















Ave Popolo!
Non ha senso, lo so. Non ha trama, lo so. Non ha inizio, né conclusione, né tautomero uno sviluppo, lo so. E’ prettamente fine a se stesso e in sé stesso trova inizio e conclusione.
Tutto qui, goodbye!
   
 
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