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Autore: dilpa93    16/01/2014    8 recensioni
“Raramente i membri di una famiglia crescono sotto lo stesso tetto”
Richard Bach
*Parte della serie "Christopher Matthew Beckett"*
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio, Kate Beckett, Nuovo personaggio, Richard Castle
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nel futuro
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Christopher Matthew Beckett'
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“Fratelli e sorelle sono vicini come mani e piedi”
Proverbio vietnamita
 
 


Apre la porta di casa, le chiavi tintinnano poggiandole sul mobile anticato vicino all’ingresso. A prima vista si potrebbe pensare che stoni con i circostanti pezzi di arredamento relativamente più moderni, ma continuando ad osservarlo non si può non pensare quanto sia perfetto, come se fosse stato costruito apposta per stare lì.
Kate lo raggiunge velocemente sbarrandogli il cammino, incrociando per l’ennesima volta gli occhi con i suoi.
“Sei sicuro?” Sussurra a pochi centimetri dal suo viso.
Curioso che come più lei glielo domandi più lui si intestardisca.
Per settimane era stato costretto ad accettare la presenza di Pi nella sua casa, senza che nessuno gli chiedesse se fosse o meno d’accordo. Si era visto invaso nell’unico posto che aveva sempre sentito sicuro, avendo come unico ed ultimo rifugio il suo studio. Nel soggiorno ogni cosa aveva smesso di essere al suo posto. Il tappeto, così come anche il divano, era cosparso da pantaloni, magliette e biancheria intima. Nella sua stanza ogni giorno era un via vai di gente e la vista di Pi coperto unicamente da un asciugamano legato attorno alla vita lo disturbava non meno di sua madre intenta a fare un cosplay di Lady Macbeth nel soggiorno come era accaduto mesi addietro. L’allegria e l’entusiasmo anche per le più piccole cose della vita quotidiana di quel bizzarro ragazzo lo irritavano, specialmente la mattina presto e specialmente se erano accompagnati da strani intrugli omeopatici che, per compiacere la figlia, era costretto ad ingurgitare.
Perciò, sotto questo punto di vista, continua a ripetersi che se è riuscito a resistere a tutto quello, sicuramente non gli peserà avere il fratello della sua fidanzata ad occupare momentaneamente la stanza degli ospiti.
“Sono sicuro, smettila di preoccuparti.”
Le sfiora la fronte con le labbra calde. Si sente tremendamente piccola e indifesa quando lo fa e allo stesso tempo si sente protetta da quel semplice contatto.
“Fai tu gli onori di casa. Io metto su un po’ di caffè.”
Scivola lontano da lei, carezzandole appena il ventre con il braccio che prima le cingeva la vita.
Si riscuote mordendosi il labbro, come a voler cercare una sensazione reale che la riporti con i piedi per terra. Il lieve dolore nel sentire i denti affondare nella carne la fa arrivare al suo scopo.
Raggiunge il fratello, rimasto davanti alla porta di ingresso, ora chiusa, come fissato al pavimento. Una statua di sale con gli occhi persi nello scintillio delle luci che illuminano il soggiorno.
“Christopher...” improvvisamente si rende conto di non sapere cosa fare. Non aveva mai fatto entrare nessuno in casa sua che già non conoscesse bene, o che non conoscesse l’appartamento. È una detective della omicidi, per nulla una donna interessata alla vita ‘da casa’. Le presentazioni, l’ospitalità... non è mai stata brava in queste cose e quello è decisamente il momento meno opportuno per accorgersene.
Cerca lo sguardo complice di Rick, quello in grado di spronarla, capace di farle capire che può fare qualsiasi cosa, ma impegnato con il gorgoglio della moka non le presta attenzione.
Tende la mano verso Chris, invitandolo a seguirla. Si accomoda sul divano, non smettendo per un secondo di guardarsi intorno, seguendo le luci della città al di là della grande finestra. Il profumo forte del caffè gli riempie le narici scaldandolo.
Fa scorrere la zip della felpa. Cerca di compiere meno movimenti possibili, ancora in lieve imbarazzo, mentre la sfila adagiandola poi sulla sacca sgualcita ai suoi piedi.
Si schiarisce la gola prima di aprire bocca, umettandosi le labbra secche.
“Siete sicuri che non sia un problema avermi qui, io non voglio essere un peso.”
Versando il caffè nelle tazze, Rick scuote la testa divertito. Si somigliano davvero e non solo fisicamente.
Stessi occhi profondi, seppur di colori differenti.
Stesse espressioni facciali.
Stessi pensieri.
Tenendo salda nei palmi delle mani la ceramica bollente, si avvicina ai due. Il fumo esce veloce solleticandogli il viso sul quale comincia a spuntare una leggera ed incolta barba.
“Assolutamente, non ci sono problemi.”
“Non mi fermerò a lungo comunque. Il tempo di trovare un’altra sistemazione.”
“Tutto il tempo che ti serve.” Mormora Kate prima di portarsi il caffè alle labbra. I suoi occhi sorridono specchiandosi nel liquido scuro.
“Bene, io vi lascio. Sono stanchissimo”, mente fingendo uno sbadiglio, poggiando poi sulla spalla di Kate la mano che lei stuzzica e carezza con i suoi caldi polpastrelli. “Buona notte”, si china su di lei baciandola. Afferra dal bancone il bicchiere d’acqua riempito poco prima e sparisce nell’oscurità del piano superiore.
Entrando in camera accosta semplicemente la porta andando poi a poggiare il bicchiere sul comodino. Una volta spogliato, si infila i pantaloni del pigiama lasciandosi andare poi sul letto in compagnia del portatile, suo migliore amico nelle notti solitarie senza Kate e, se ha ben interpretato i pensieri della compagna, quella sarebbe stata una di quelle, ormai rare, notti.
Non ci vuole molto prima che le loro voci, provenienti dal salotto, arrivino leggere e ovattate alle sue orecchie.
Non riesce a prendere sonno, agitato ed eccitato per quello che sta accadendo a Kate. Sovraccarico di energie, ringrazia l’ispirazione per essere arrivata a bussare alle porte della sua mente in quel momento.
Sfrega i palmi della mani tra loro, ispira forte e, a seguito di quel rito consolidatosi in lui da anni, carezza la tastiera cominciando a picchiettare freneticamente sui tasti consumati.
 
In salone Kate ride rilassata. La schiena poggia al bracciolo, le gambe sono strette contro il petto. Di fronte a lei Christopher le racconta la sua vita, o quello che di essa ricorda. I primi mesi dopo il rapimento sono ancora oscuri. Solo brevi sprazzi che non riesce a collegare tra loro.
Gli parla degli anni di studi in quella casa, quasi come fosse una prigione.
Una prigione lo era davvero, ma lui non lo sapeva.
La rassicura notando l’ombra che le si è posata sul viso. Ha avuto un’infanzia felice nonostante alcuni giorni, quelli di pioggia, freddi, quando si incantava a guardare fuori dalla finestra il giardino coperto di brina, in cui si sentiva terribilmente solo.
Le descrive i luoghi che ha visitato, le esperienze più disparate da quando era riuscito finalmente a lasciare quella casa. I lavori che aveva dovuto fare per mantenersi, lui che, nonostante il diploma, aveva rinunciato ad un posto fisso per poter vedere il mondo e trovare se stesso. Lo ascolta ammaliata non riuscendo ad impedire al suo cuore di provare un certo rammarico per non essere potuta crescere con lui accanto.
Ridono fino a sentire le lacrime agli occhi, come quando erano bambini.
Come nei pochi ricordi che entrambi hanno della loro infanzia.
Quando il suono delle loro risate lentamente si affievolisce, arriva a scuotere Kate quel peso di cui solo poco prima credeva di essersi liberata. Giunge il momento di affrontare la realtà, parlare del dolore che è arrivato da quando lui è sparito e che si è legato alla loro famiglia non volendola più lasciar andare.
Le difficoltà sopraggiunte e superate, e poi quando gli anni erano trascorsi e la sofferenza si era affievolita ecco l’ennesima pugnalata, la morte di Johanna che aveva buttato tutti gli sforzi fatti per cercare di essere ancora felici.
Gli parla di loro padre e di quella dipendenza di cui si è sbarazzato a fatica. Di quanto sia fiera degli sforzi da fatti da Jim, e lui non può fare a meno di domandare a se stesso se le cose sarebbero andate diversamente se fosse stato presente.
Prestando attenzione a quella storia si fa chiaro in lui il perché sia diventata una detective, ed è proprio lei a confermare la sua ipotesi raccontandogli della scelta di lasciare legge e dedicarsi alla polizia, scelta che alla fine li ha condotti a ritrovarsi.
 
 
Il sole filtra dalla finestra dando inizio ad un nuovo giorno, disturbando così il sonno di Castle. Stiracchiandosi si volta dal lato di Kate, pronto ad abbracciarla, avendone sentita la mancanza durante la notte, ma accanto a sé, malamente coperto dalle lenzuola, trova solo il portatile.
Manda giù quello che resta dell’acqua della sera prima. In bagno si sciacqua rapidamente il viso e sfregandolo sente la barba pungergli i palmi. Lancia un’occhiata furtiva al rasoio, fa per prenderlo, ma la mano si blocca a metà strada cadendo poi nel vuoto. Potrebbe fargli bene cambiare qualcosa, lasciarla crescere un po’ non sarà poi tanto male. Chissà che anche Kate non apprezzi.
Con l’asciugamano tampona la pelle ancora bagnata adagiandolo poi sul bordo della vasca. Indossa una t-shirt, si concede un ultimo sbadiglio e si appresta a scendere.
Sulle scale intravede le loro sagome, la testa di Kate poggiata sulla spalla del fratello con il capo che ciondola sullo schienale. Entrambi ancora profondamente addormentati, il respiro pesante che riempie il silenzio mattutino del loft.
Non avrebbe potuto immaginare nulla di più perfetto.
Cercando di fare meno rumore possibile si mette al lavoro per la colazione, ma inevitabilmente il profumo di uova e caffè sveglia l’olfatto ben allenato di Kate.
Allontanandosi cauta dal fratello, si alza indolenzita. Sussurra un buongiorno al suo uomo alle prese coi fornelli e l’impasto per i pancake. Li trascura qualche secondo per voltarsi e baciarla per un buon giorno come si deve.
“Come è andata la nottata in bianco?” Ammicca riferito alle occhiaie della donna.
“Già...” ridacchia quasi imbarazzata per quel pigiama party improvvisato, “non abbiamo dormito granché. È stato bello. Mi ha detto tutto di lui.”
“E tu, gli hai raccontato tutto di te?” Chiede rivoltando i pancake che avevano cominciato a sfrigolare accompagnati da piccole bolle sulla superficie ancora chiara.
“Mh, quasi tutto”, prende una fragola dalla ciotola sul ripiano portandola alla bocca lentamente.
Se solo Christopher non fossi a pochi passi da loro, probabilmente lascerebbe bruciare la colazione e la farebbe sua in quel momento, lì in cucina. Sul bancone, sul tavolo, per poi condurla al divano in quel gioco dolce e al contempo selvaggio. Soprassiede a quel desiderio, sorridendo sornione felice del fatto che anche suo fratello si debba mettere in fila per conoscere ogni strato della complicata Kate Beckett.
“Gli ho detto di nostra madre...” Sussurra lei, tutt’un tratto.
“Come l'ha presa?”
“Meglio di quanto pensassi, almeno credo. Non lo so”, si volta per riuscire a vedere la sua figura ancora addormentata, “praticamente non lo conosco, non riesco ancora a capirlo.”
“Andrà meglio. Avete tutta la vita per conoscervi, avrete giorni interi per parlare.”
“Scusami.”
“E di cosa?”
“So quello a cui stai pensando, non devi nascondermelo, mi dispiace di averti fatto ripensare a tuo padre.”
Da quando anche lui è diventato così prevedibile e trasparente ai suoi occhi?
Se lo avesse fatto chiunque altro si sarebbe sentito quasi a disagio, ma con lei è tutto un altro discorso. “Va tutto bene. Abbiamo avuto il nostro momento, seppur breve.” Le dà un bacio fugace, finendo poi di impiattare le uova. “A proposito di padre... quando lo direte a Jim?”
“Non si sente ancora pronto. Non vuole saperne per ora di vederlo. È spaventato e lo capisco, ma non posso tenerglielo nascosto. È mio padre, è nostro padre, devo dirglielo.”
“Lo so”, risponde semplicemente, “ e so anche che non hai intenzione di aspettare un minuto di più per farlo.” Cala il silenzio, resta a guardarlo incapace di dirgli anche solo ‘si’. “Vai... sul serio, a lui ci penso io. Colazione e quattro chiacchiere. Nulla di imbarazzante, te lo prometto.”
“Dici davvero?”
“Davvero. Coraggio, o non farai in tempo a passare prima di andare al distretto.”
“Grazie e scusa per la colazione.”
“Ci sarà la cena con cui rifarsi.”
Corre verso la porta afferrando al volo le chiavi della macchina e la giacca, mandandogli un bacio prima che la porta si chiuda seguita dall’eco dello scattare della serratura.
 
 
Non si aspettava una sua visita, non a quell’ora comunque.
Le apre la porta facendola accomodare. Prova ad offrirle un caffè, un succo o qualcosa di più sostanzioso che possa mettere sotto i denti, ma la vede rifiutare negando con il capo ogni sua offerta. Si siede sulla poltrona, la stessa che occupava quando viveva ancora con lui e la sera guardavano un film insieme.
Jim nota il suo viso. Conosce quell’espressione, conosce il significato di quell’espressione sul volto di un poliziotto.
“Vuoi dirmi cosa succede Katie o devo tirare a indovinare come quando eri piccola? Devo preoccuparmi?”
“Perché non ti siedi anche tu?”
Si gratta nervosamente la nuca, sedendosi poi sul divano in pelle nera. Fissa il pavimento per qualche secondo, le dita della sue mani intrecciate tra le gambe divaricate, puntando infine ancora lo sguardo sulla figlia.
“Che cosa sta succedendo?”
“Ho bisogno che resti calmo. Non è niente di brutto, te lo assicuro. Anzi, è una bella notizia, ma ho bisogno che tu abbia la mente aperta e che non ti agiti.”
“Katie, che succede? Non starai cercando di dirmi che sei incinta?” Domandandoglielo uno sprazzo di felicità gli attraversa gli occhi chiari.
“Cosa? No, no, io e Rick non pensiamo... cioè noi... no.” Imbarazzata dal commento del padre si porta nervosamente una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Non che dal suo ritorno da Washington e da quando le cose con Rick si sono sistemate per il meglio non le sia mai passata per la testa l’idea di allargare la famiglia. Ma è stato un pensiero, nulla più. “Sicuramente accadrà un giorno, ma non ora”, decisamente non ora aveva aggiunto nella sua mente.
“Papà, non so davvero come dirtelo. Non c’è un modo giusto...” Cerca le parole, le cerca in se stessa, ripensa ai libri che ha letto, a il modo di parlare di Rick, a tutto ciò che potrebbe aiutarla a formulare un pensiero sensato, o per lo meno grammaticalmente corretto. La sua mente è come una lavagna, ogni frase che si forma la sua testa la cancella in automatico. Tutto sembra sbagliato e futile. Come si fa a dire una cosa del genere, non ci sono parole adatte, ma un solo modo, sfortunatamente il più diretto e forse doloroso.
“Abbiamo trovato Christopher. Era il sospettato del caso a cui stiamo indagando. Non so come. È stato strano fin dall’inizio. Sentivo che c’era qualcosa in lui, e il suo sguardo era incredibile, così familiare. E poi, d’un tratto... ti ricordi il dono che aveva preso dalla nonna e cosa mi diceva sempre? Che ero il rosso. Lo ha detto così, all’improvviso, e tutto è stato veloce. Non potevo crederci, ma era lui, è lui. E... papà”, arresta il fiume di parole in piena osservando lo sguardo vuoto del padre, “ti senti bene?”
“Dov’è?”
Inspira, felice che non sia sotto shock per la notizia.
“A casa... con Rick. Starà da noi per un po’.”
“Portami da lui”, si alza andando ad armeggiare nell’armadio cercando il soprabito.
“Papà aspetta.” Lo segue, poggiandosi all’anta aperta dell’armadio in ciliegio. “Lui... Chris non se la sente.”
“Non se la sente, di fare cosa, di vedere suo padre, la sua famiglia? Katie, per favore!”
“Cerca di capirlo, è stato lontano a lungo. Non deve essere facile neanche per lui. Chi lo ha portato via gli ha tolto tutto.”
“A noi è stato tolto lui.”
I ricordi dei giorni immediatamente seguenti al suo rapimento tornano ad annebbiargli la mente prepotenti. Il volto di Johanna rigato dalle lacrime che affondavano senza sosta nel tessuto del pesante maglione, sdraiata sul letto, rannicchiata come a volersi proteggere dal mondo. Vedere la sua forza svanire in un istante sotto il suo sguardo impotente, leggere sul suo viso l’espressione di paura mista alla speranza che si affievoliva ogni giorno di più, ma che aveva continuato ad albergare nei loro cuori e che aveva impedito ad entrambi di andare avanti con le loro vite in modo normale. Perché le cattive notizie ci fermano per un po’, ma la speranza... la speranza è paralizzante.
Il fare finta di niente con la loro bambina. Si accorge solo ora di non averle mai chiesto cosa provasse al ricordo di suo fratello. Mai una volta avevano davvero parlato con lei dell’accaduto, troppo piccola per capire e poi, quando era cresciuta, troppo dolore nel riaprire quel capitolo.
“Ma noi eravamo insieme, lui era solo. Pensa a quanto deve essere stato confuso e spaventato allora e quanto lo sarà adesso. Sono passati trent’anni. Dagli tempo. Non facciamogli pressione.”
Gli posa la mano sulla sua, ancora salda alla stampella a cui è appeso l’impermeabile. Lentamente la sente abbassarsi trascinando anche la sua con sé.
“Forse hai ragione tu, ma...”
“Lasciami qualche giorno, proverò a convincerlo. Fidati di me papà.”
Le carezza il dorso con le sue dita ormai invecchiate. Lo porta a contatto con le labbra in quel gesto paterno, catturandola poi in quell’abbraccio in cui spera presto di poter stringere nuovamente anche suo figlio.






Diletta's coroner:
Nuova ff, breve, molto breve, brevissima. Tre capitolettie  vi sbarazzate di me ;)
Christopher è tornato, vedremo come reagirà all'incontro con Jim!
Buona serata
Baci
  
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