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Autore: purepura    17/01/2014    0 recensioni
Sono passati anni. Kyle, come sappiamo, è in giro per il mondo, in compagnia temporanea di Declan*, ad aiutare. Josh e Andy sono lontani, al college per studiare, mentre Lori è tornata in città, a Seattle, per seguire le orme della madre, studiando psicologia. Kyle ha lasciato Amanda. Non volendola esporre a inutili pericoli, continuava a mentirle, finché si è reso conto che non avrebbe più potuto proseguire (la produzione aveva detto che sarebbe stato solo, sentimentalmente, e così è). Decide di lasciarla in un giorno di sole. Poco tempo dopo parte. Resta solo per un po’, venendo in seguito raggiunto da Declan.
Ma Jessi?
Prendetela come un esperimento. Un esperimento molto fantasioso…
*Alcune delle informazioni sono basate su un’intervista fatta ai produttori. Altre le ho aggiunte io (come quella per la quale Declan lo accompagna nei suoi viaggi).
Genere: Introspettivo, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jessi XX
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Dopo la seconda morte
14 - Verso Vancouver?

                                                                                                                                                                                                                                                                                   Per i cambiamenti.

   «E perché avresti il suo numero?»
   «Shhh», mi zittì, per poi portare il telefono all’orecchio. «Pronto?»
  La conversazione non durò granché, visto che l’oggetto principale era la posizione geografica del suo ragazzo e di suo fratello. Ovviamente, non gli disse nulla, ma spese troppo tempo a sottolineare il fatto di trovarsi in Francia e di non avere la possibilità di sincerarsi delle loro condizioni; tuttavia lei non avrebbe dovuto preoccuparsi affatto. «Declan è bravo, nel suo lavoro. Si fidi».
   Dopo i convenevoli e un sorriso imbarazzato, riattaccò e sospirò di sollievo per poi ributtare il telefono sul pavimento.
   «Perché le dai del lei?*»
   «Si chiama rispetto per persone estranee, Jessi».
   «E perché sapevi chi fosse prima di rispondere?»
   «Memoria fotografica».
   Alzai le sopracciglia. «Ha chiamato altre volte?»
   «Sì».
   «E quando?»
   «Cinque anni fa».
  Oh. Certo! Allora tutti telefonavamo a tutti senza tante distinzioni fra ciò che fosse appropriato e cosa non fosse imbarazzante.
   «D’accordo», dissi, continuando a riflettere; c’era qualcosa che mi disturbava, nel fatto che lei si fosse adoperata per cercare il suo recapito – forse da Declan, o dal fratello – e che potesse contattarlo. Ora non era più una cosa mia, quell’insieme di numeri e frasi telefoniche. Ora ero dannatamente infantile.
   «Pensi che ti richiamerà presto?»
   «Non saprei. Molto probabilmente, no. Era imbarazzata».
   «Bene. Allora puoi cambiare numero, domani? Ed evitare di distribuirlo troppo in giro?»
   «In giro? Soltanto Declan e Kyle ne sono informati, e Lori probabilmente l’avrà preso da loro».
   Risi, perché mi era appena venuto alla mente un pensiero. «In tutti questi anni di felice convivenza, quando Lori contattava Declan, non le è mai venuto in mente di farsi semplicemente passare Kyle? In questo modo, io non dovrei litigare tutti i giorni per mantenere segrete certe cose con sua madre».
   Scosse la testa. «Tutto quello che so è che si sentono periodicamente».
   «Allora glielo chiedo io». E recuperai il telefono dalla borsa, senza togliermi le coperte di dosso. «Declan, sono Jessi. Sì, sì, ciao, certo. Ascolta, visto che la tua fidanzata sta esasperando gli animi, tu come fai a tenerla buona quando chiama? Sei insieme a Kyle. Come fa a non costringerti a passarglielo?»
   Foss rideva, la testa affondata nel cuscino, con le mani a coprire la bocca per cercare di fare meno rumore possibile.
   «Cosa? Cosa stai dicendo?»
   «Ci convivo, e con sua madre vogliono a tutti i costi avere notizie, e sinceramente o tu le dai l’ordine di piantarla o dico tutto. Qualsiasi cosa purché non mi stressino più».
   «Non puoi! Le parlerò io, ma tu resta zitta».
   «D’accordo. Arrivederci».
   Riattaccai senza aspettare risposta.
   «Svelato il mistero?»
   «No, ma ho collaudato il potere del ricatto».
   Ricacciai la borsa ai piedi della branda, sedendomi con la testa appoggiata alla parete.
   «Quindi i nostri pomeriggi saranno sempre così?», domandò.
   «All’insegna del sesso, dici?»
   «Io mi riferivo al telefonare ad altre donne o ad altri uomini mentre condividiamo il letto, ma anche quello non mi dispiace».
   «Le aziende telefoniche sono in crisi. Noi le stabilizziamo».
   «Le arricchiamo».
   «Quella cosa lì».
   Ormai mi ero persa completamente a causa della sua mano fra le mie gambe, per cui non ero molto presente e parole casuali erano il massimo che ci si potesse aspettare.
 
   La prima ad annunciare il ritorno imminente di Kyle fu Lori, che con i capelli gocciolanti raggiunse la cucina in una mattinata frettolosa. Nicole non c’era, e segretamente rimpiansi la sua assenza, perché toccò a me, ore dopo, renderla partecipe, e Stephen le sorrise tranquillo, per poi rituffare il naso nella tazza. Mia figlia, che stava giocherellando con il latte, senza aver voglia di mangiare, fissò la zia per minuti interi, mentre quella strepitava e tirava fuori dal frigo una quantità insolita di cibo e bevande.
   «Papà ritorna?», domandò infine.
   «Sì! Sei contenta?»
   Mia figlia annuì vivacemente.
   No.
   «Hanno detto quando arriveranno?»
   «Tra qualche giorno, tre, o al massimo quattro». Lori si grattò il mento pensierosa e, da degna figlia di sua madre, continuò: «Potrai veramente cambiare aria, se proprio non ami stare qui».
   Al che il pensiero andò a tutte le parolacce che avrei potuto usare contro il padre di mia figlia per avermi fatto sradicare la mia vita, che mi piaceva e avrei voluto terminasse in Canada, in favore di un luogo come Seattle, del quale apprezzavo solo l’aeroporto. A questo punto, l’opinione negativa che mi ero fatta dell’operato di Declan, andava estesa anche a quello di Kyle: entrambi degli idioti che mi facevano correre per l’intero globo quando era evidente la mia inutilità.
   Avrei tanto voluto tornare a Ottawa, ma mi ero organizzata prevedendo una lunga assenza, ed ora sarei stata comunque costretta a restare, anche se per lo meno non con loro.
   Mentre Nicole quella sera non faceva che festeggiare e cucinare, preparai mentalmente il piano per svignarmela non appena lui fosse arrivato, grata che Declan lo seguisse ovunque, prevedendo come prima tappa la necessità di una casa, o almeno di qualcosa che gli somigliasse. Non avevo bisogno di un grande e lussuoso appartamento, solo di un bagno e un letto, perché la voglia di non vederli, di distanziarmi e ritornare a mangiare gelati alle quattro del mattino o ad avere chi volevo nel mio letto, stava raggiungendo vette preoccupanti.
   Il pomeriggio seguente, quando ne parlammo, per la prima volta scegliemmo una location differente; Foss non mi face entrare ma, sentendomi bussare, uscì con delle chiavi in mano e il furgone ancora dentro.
   «Andiamo a fare un giro», disse. «C’è il sole. Perché rinchiudersi lì dentro?»
   «Perché c’è il letto». Lo seguivo da vicino, ma non degnava di uno sguardo nessuna auto parcheggiata lungo quelle strade. Svoltammo diversi isolati, prima che si fermasse. Si guardò intorno, puntò verso una serranda poco distante e mentre armeggiava con la serratura disse: «Devo parlare con te».
   «Potevamo farlo a letto».
   Dentro quello che si rivelò essere un garage, era parcheggiato il suo vecchio pick-up, rosso e sporco.
   «Non l’hai venduto?», domandai, con un tono che sottintendeva l’ovvietà del gesto.
   «Perché, tu la tua auto l’hai data via?»
   «Bé, la mia è bella», borbottai, mentre accendeva la luce e si accingeva a prendere posto. Lo seguii, chiudendo lo sportello del passeggero. «Dove andiamo?»
   «A cena».
   «Alle quattro di pomeriggio?»
   «Non andiamo dietro l’angolo. Non voglio farmi vedere troppo».
   «Oh, giusto. Tu non sei qui. Dimenticavo».
   Mi scoccò uno sguardo, per poi imboccare l’autostrada che porta a Vancouver.
   «Andiamo così lontano?», domandai, accennando al cartello con la grossa scritta a lettere scure. «In Canada, potrai stare tranquillo, almeno».
   «Usciremo prima», disse. «Fammi solo allontanare un po’ dalla città. Devo allentare i nervi. Sono stufo di uscire solo a tarda sera».
   Eccole, le lamentele. Tuttavia, ricordavo come gli avessi chiesto se ne fosse sicuro, nella nostra ultima telefonata canadese, e il suo assenso.
   «Che cosa dovrei fare, io?», domandai, scocciata; sembrava mi volesse incolpare di qualcosa. «Più che rassicurarti sul fatto che ne puoi parlare volentieri, se tu non vuoi farlo risparmia le recriminazioni».
   «Io mi lamento quanto voglio, se tu ti senti libera di rispondermi così».
   «Mi dà fastidio, invece».
   «Sono problemi tuoi».
   «Anche le tue proteste! Tu scegli di non voler risolvere i problemi confidandoti con Kyle. Questa situazione evidentemente non ti piace, ma non vi poni nemmeno fine. Ti limiti a lamentarti con me, quando ti ho detto chiaramente che non m’importa di cosa pensa Kyle, che niente di quello che faccio lo riguarda. Per cui, cosa posso fare?»
   Mi voltai a fissarlo. Teneva lo sguardo piantato sulla strada, che ci scorreva veloce sotto i piedi. Mi aveva fatto arrabbiare, perché non avrei voluto scoprire cosa in realtà gli passava per la testa. Mi stavo divertendo, il sesso era fantastico e i giorni scorrevano veloci; a me non interessava altro. Poi mi resi conto che, se fosse rimasto infelice, se non il sesso quanto il rapporto ne avrebbe risentito e, per la prima volta da che era arrivato, mi fermai a riflettere sul genere di legame che ci univa.
   «Mi piace trascorrere il mio tempo con te», disse, senza ancora incrociare il mio sguardo. «Lo sai, però…».
   «No, non lo so», lo interruppi. «Non me l’hai mai spiegato. Che cosa di questa storia ti fa vergognare? L’età? Io?»
   «No!»
   Aveva risposto troppo precipitosamente perché non mi sfuggisse. Sospirai, spostando lo sguardo fuori dal finestrino, il sole che abbagliava, a tratti nascosto dalla vegetazione che fiancheggiava quel pezzo d’autostrada.
   «Dove stiamo andando?», chiesi, nel tentativo di indurlo a riportarmi indietro. «Non posso stare via molto. Nicole sa che sono in biblioteca per completare alcuni saggi, non certo fuori dallo Stato».
   «Bothell. È piccola e anonima quanto basta perché nessuno dei tuoi voglia metterci piede, oggi».
   «I parenti sono di Kyle», mormorai. «Il che ci riporta al nodo centrale del discorso: sei un bugiardo».
   «Non ho mai negato niente», disse. Da basso, il tono si alzò improvvisamente. «Tu ti sei costruita nella testa cose che non ho detto, non ho mai parlato di vergogna!»
   «Me l’hai confermato adesso».
   «Davvero? Io ricordo invece di averlo negato».
   «Magari hai mentito!»
   «Forse proprio come hai fatto tu».
   «Quando?», domandai incredula, perché davvero era l’ultima cosa che avevo avuto intenzione di fare, quel pomeriggio.
   «Come posso essere sicuro dei tuoi sentimenti se ogni volta che provo ad affrontare l’argomento tu costruisci non uno, ma ventisette muri tra me e te?»
   «E perché vorresti esserne sicuro? Nessuno di noi due vuole dare retta a questi sentimenti, no?»
   «Non stai negando che ci siano».
   «Non ho mai voluto farlo, infatti», risposi. «Volevo solo evitare di parlarne. C’è una certa differenza».
   Non adesso, per favore. Non adesso.
   «E cosa vorrebbe dire: ‘non dare retta’? Pensi di poterli ignorare? Credi che non mi stia bene vederti ma continui a farlo per il sesso?»
   «Non vuoi dirlo a nessuno».
   «Hai ventiquattro anni!»
   «Questo non ti ha impedito di divertirti, in queste settimane. Perché tiri fuori l’argomento solo quando ti fa comodo? E perché non prima di venire a letto con me, ma sempre dopo
   «Cosa stai insinuando, adesso?»
   «Niente! Ti ho fatto semplicemente una domanda. Smettila di essere così sulla difensiva. Stai parlando con me. Da anni, non faccio che sentire la tua voce mese dopo mese, e ne so riconoscere ogni inclinazione e sbavatura, per cui non pensare di essere così bravo a nascondere le cose».
   Fece per rispondere, ma lo interruppi, perché mi premeva sottolineare un ultimo concetto. «E se temi il giudizio altrui, specialmente di qualcuno con una fibra morale molto forte come è quella di Kyle, questo significa che ti vergogni, ed è inutile che la rigiri. È così. Quello che puoi fare, ora, è dirmi di cosa, ti vergogni. Se hai qualche problema con me, parlamene, e vedremo se si potrà risolvere».
   Mi lanciò una veloce occhiata, che fu probabilmente uno spasmo nervoso del collo, per poi scuotere la testa e svoltare finalmente per una strada provinciale, la cui scritta Bothell Way torreggiava con la promessa di una sosta. Parcheggiò nel primo spiazzo disponibile, ed era già uscito dall’auto ancor prima che mi sganciassi la cintura. Però mi stava aspettando sul marciapiede, notai, quando finalmente scesi.
   «C’era una cosa che volevo farti vedere, ma a questo punto perché non ci sediamo da qualche parte e finiamo questo discorso?»
   Come se fosse destinato ad avere una fine precisa…
   «Perché non camminiamo, invece, mentre parliamo? È da più di venti minuti che sto seduta».
   Isolato dopo isolato, ci stavamo avvicinando al centro della città. Aspettavo che parlasse, perché io avevo già fatto la mia arringa sconclusionata.
   «Io avrei voluto che tu parlassi con me, prima di arrivare a lamentarmi. È evidente che provi qualcosa ma anche che non vuoi pensarci. Mi sento in trappola: da un lato ci sono gli altri, che mi giudicherebbero troppo male, e dall’altro tu, che vuoi lasciare le cose ad un livello troppo superficiale, quando è palese che non è più possibile. Non siamo più divisi da migliaia di chilometri, capisci?»
   «Se davvero provi quello che pensi di provare, cosa t’importa di quel che pensano gli altri? Il nostro benessere dovrebbe avere la precedenza, no? Invece non è così. Non stai bene, me l’hai detto chiaramente, giusto?»
   «Tu non mi permetti di stare bene!» A questo punto si era bloccato e, a differenza di quanto mi aspettassi, si era voltato verso di me, un braccio che scattò dall’alto in basso, per poi afferrarmi l’avambraccio con l’altra mano.
   «Sarebbe colpa mia? Ti ho chiesto se te la sentivi e non hai negato, sei venuto qui perché c’ero io, non fai che…» farmi impazzire, scivolare, sgretolarmi. Scossi la testa, cercando di allontanarmi, ma forse l’aveva previsto, perché continuò a tenermi stretta. «Io ne posso essere il fulcro, ma non la causa. I problemi li hai tu. Io ti sto cercando di spianare la strada». Di nuovo, tacqui. Dovevo mettere in chiaro un’ultima cosa, finché restava vicino e attento. «Se non te la senti più, comunque, puoi sempre tornartene al tuo esilio autoimposto. Credimi se ti dico che sopravvivrei tranquillamente».
   Distolse lo sguardo. «Perché parli così, come se la cosa fosse già finita?» Mi lasciò andare, affondando le mani nelle tasche della giacca. «Sono ansioso perché Kyle sta per tornare, questo è vero, ma non pensare che ti ritenga colpevole di qualcosa. Lo so, che tu non mi stai dando alcun problema, e che sono io quello che si ostina a portarli avanti. Non riesci a capire quello che ti sto dicendo, però. Non provi nemmeno a considerare l’eventualità di andare oltre, di fare un passo in più, che non significa niente di plateale o a lungo termine, ma se ti ostini a ignorare questa cosa, io come dovrei comportarmi?»
   «Esattamente come me». Per me era ovvio, non avevo nemmeno considerato la possibilità che lui volesse parlare di implicazioni sentimentali. Le sue ragioni erano scontate, bastava vedere come aveva reagito dopo la prima notte insieme, e le mie erano private, certamente riconducibili alla mia pigrizia e svogliatezza; tutto sarebbe stato più facile, quando avesse deciso di farla finita, ed ero certa l’avrebbe fatto, prima o poi, per poter tornare a piangere la famiglia uccisa tanti anni prima. Sembrava uno di quegli uomini destinati ad amare una sola volta, passando il resto della loro vita dietro un ricordo sconfitto. Ero convinta che lo fosse. Per cui, quello di cui parlava, le cose che diceva di sentire, ero certa fossero momentanee; presto si sarebbe stufato o avrebbe sentito come dovere morale ritornare sui suoi passi.
   «Quindi d’ora in poi facciamo finta di niente, i discorsi seri sono aboliti e chi se ne importa se sento di tenerci a questo rapporto, devo fingere che non sia così».
   «Tu ci terrai finché non deciderai di aver sprecato troppo tempo dietro a qualcun’altra, che tua moglie ha di nuovo la precedenza e te ne andrai a trascorrere tutto solo il resto della tua vita».
   Tacque, il volto animato da una consapevolezza che volevo nascondere. «È questo? Stiamo discutendo da un’ora! Speravo mi dessi spiegazioni, ma non immaginavo che temessi questo. Perché?»
   Perché? Perché perdo il controllo, perché se tu ti allontanassi non credo basterebbe cambiare Nazione; mi distruggi quando tenti di non ammettere a te stesso che hai dei dubbi, e mi distruggeresti parlando chiaramente.
   Ignorai la domanda. «Io non sono disposta a cambiare le cose», ammisi. «O continuiamo a tenerle così, o te ne vai».
   Gli ultimatum, insieme ai ricatti, erano certamente il mio forte.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
*Lo sappiamo tutti che in inglese non si dà del lei, ma ho potuto utilizzare questa distinzione grazie alla santa lingua italiana, che invece me lo consente

Ora, lo so!
Farete sicuramente molta fatica a seguire la discussione, ma realisticamente quale discussione è lineare e comprensibile?
Se non capite, chiedete. Se non vi aggrada, ditelo.
A presto!^^
 
  
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