Veloce glossario:
Bō: è il nome giapponese del bastone di Donnie, lunghezza : 1.81 cm. Insomma, perché il nome delle Katana si mette in originale e il bastone lo si liquida così?
Sai: Armi di Raphael.
Tsuba: Sono le parti metalliche che spuntano dalla parte centrale dei Sai.
Katana: le spade di Leo. (Anche se dovrebbero essere delle Ninjato, ma vabbé.)
Nunchaku: Le armi di Mikey.
Shuriken: Stelle a più punte da lanciare contro l'avversario.
Shellcell: Nella serie del 2003 era il nome dei telefonini dei nostri mutanti.
L'aria era immobile, ristagnante.
Non
era una novità: New York aveva sempre lo stesso odore denso
e greve,
in qualsiasi stagione, ma all'arrivo di Settembre lo sentiva
con più intensità.
E lo odiava.
Schivò per un soffio un
fendente diretto al viso, con un ghigno rassegnato. Non poteva
credere di averci pensato ancora, dopo tutto quel tempo. Ma in
effetti, a dover essere sincero, quando non ci pensava?
“Raph,
concentrato!” gli gridò Leonardo, da qualche parte
alla sua
sinistra. Riusciva a sentire il rumore delle sue Katana che cozzavano
contro le armi dei loro opponenti, frammisto a qualche grido di
dolore. Leo non era certo uno che si tratteneva in uno scontro, ma
era sicuro che non avesse ferito nessuno in maniera davvero grave.
Forse.
Michelangelo
stava prendendo in giro i due scagnozzi che cercavano senza successo
di colpirlo, in quella maniera irritante che avrebbe fatto perdere la
concentrazione a Buddha, mentre i suoi Nunchaku roteavano colpendoli
alle ginocchia, facendoli solo più arrabbiare.
“Mikey, smetti
di giocare. Ci riesci?”
Il fratello lo guardò, ridendo per
essere riuscito indirettamente a infastidire anche lui. Donatello
passò davanti a loro, intento a schivare degli Shuriken,
studiando
le mosse dei suoi avversari, il Bō ben stretto nella mano, in attesa
di sferrare il suo contrattacco.
Non
era che una normale serata Newyorkese, per loro. Per chiunque altro
essere attaccato da una banda di mercenari al soldo di Hun, -quel
maledetto bastardo,- sarebbe stato assurdo e fuori dall'ordinario.
Ma Hun poteva assoldare chiunque volesse, non aveva mai vinto contro di
loro e non sarebbe stata quella la notte in cui sarebbero cambiate le
cose; poche mosse ben studiate, frutto di anni di allenamenti ed
esperienza, e dei loro opponenti non ne era rimasto nemmeno uno in
piedi.
“É stato facile” disse Mikey.
“Non erano così
forti, in effetti.”
Rinfoderarono le armi, studiando gli uomini
svenuti e feriti a terra.
“Pensate
che la finirà un giorno? Sono stanco della sua dannata
insistenza”
esclamò Raphael, dando un'occhiata distratta agli avversari.
Con
un movimento repentino, e molto veloce per uno che giaceva al suolo,
uno degli aggressori si rialzò e puntò la Katana
diretta verso il
suo collo. Prima che potesse reagire, ci furono un clangore e un
lampo di luce e l'uomo si accasciò al suolo; la spada era
stata
infilzata al muro da un Sai. Raph si avvicinò cauto,
studiando
l'arma, dolorosamente familiare: gli tsuba a forma di mezzaluna
scintillavano alle fredde luci dei palazzi di New York. Lo
staccò
con rabbia, incredulo e sconvolto di trovarlo lì, tanto che
non
sentì nemmeno il suono metallico della Katana che cadeva al
suolo.
“É
bello rivederti, Raffaello” disse una voce dolce, con uno
strano
accento, che gli diede i brividi.
Tremò impercettibilmente, il
Sai stritolato nella mano, al riconoscere la sua voce.
Era
tornata.
Lei, che non doveva essere lì. Lei, che lo aveva portato
fin alle vette più alte del paradiso per poi lasciarlo
cadere
giù.
Lei, che gli aveva spezzato il cuore.
“Cosa fai qui?”
urlò con tutta la sua rabbia. Ma i ricordi di lei e
ciò che era
stato, lo assalirono comunque, prepotentemente.
Due anni prima. Settembre.
“Allora,
capito tutto?” domandò Leo, forse per la terza
volta. Si trovavano
sul tetto di un grattacielo, intenti a provare le nuove tute messe a
punto da Don, protetti dall'oscurità della notte.
“Sì, per la
centesima volta: ci dividiamo, pattugliamo, ci rincontriamo. Non
siamo tutti stupidi come Mikey!” rispose scocciato,
giocherellando
con la punta di uno dei suoi Sai, tenendolo in equilibrio su un
dito.
“Hey” si lamentò offeso Michelangelo,
scoccandogli
un'occhiataccia.
Raphael si annoiava a sentir cianciare Leo; si annoiava da un bel pezzo, a dire il vero. Da quando avevano sconfitto il robot Shredder al matrimonio di April e Casey, la loro vita era diventata molto piatta. Sì, c'era Hun che ogni due per tre cercava di farli fuori, ma ormai non si poteva proprio prendere seriamente. Era più un passatempo che una vera sfida.
Dopo
l'ennesima spiegazione di Don si divisero e ognuno si diresse in una
diversa direzione.
Raphael scelse di andare ad ovest, l'esatto
opposto della direzione di Leo. Benché col tempo fosse
maturato
abbastanza per capire di essere un'avventata testa calda,
ciò non di
meno non riusciva a stare nei ranghi; ammirava la disciplina del
fratello, anche se sarebbe morto prima di ammetterlo, ma non era il
genere di vita che lui riusciva a seguire. Era guidato dai sentimenti
più che dalla ragione; si lasciava manovrare dalla rabbia,
era vero,
ma in qualche modo doveva fare uscire fuori tutta quella che si
portava dentro.
Saltò di tetto in tetto, compiendo avvitamenti e
capriole, per testare la resistenza della tuta, nera come la notte.
Gli faceva strano indossare qualsiasi indumento, dopo anni senza, ma
Donnie aveva ragione: le tute li rendevano ancora più
invisibili e
in effetti, senza, era come se andassero in giro nudi. Lo avevano
fatto per anni e nessuno se ne era mai lamentato, ma ormai si stavano
abituando al vestirsi, tanto che gli veniva spontaneo farlo, la
mattina.
Atterrò
sopra una cisterna su un tetto piuttosto trascurato, scrutando New
York, “la città che non dorme mai”, di
notte: milioni di luci,
aranciate, gialle, al neon, che scintillavano dal grattacielo
più
alto all'appartamento più infimo e nascosto; quelle erano le
uniche
stelle che si potevano vedere in quella città, enorme,
riottosa e
pericolosa, ma che per lui era casa. E come in ogni casa, c'erano i
propri problemi. Come quei due teppistelli che stavano cercando di
forzare la porta del retro di quel bar all'angolo.
Dilettanti.
Il
rumore dei loro attrezzi da scasso si sentiva per tutto il vicolo. Si
calò lentamente, scendendo per le scalette antincendio del
palazzo;
anche se avesse fatto rumore, comunque, era piuttosto improbabile che
lo sentissero, tanto erano concentrati. Non sembravano molto
difficili da battere, probabilmente avrebbe dovuto trattenersi per
non far loro troppo male. Con un sospiro rassegnato si portò
alle
loro spalle, silenzioso. Quello di destra, magro e allampanato, stava
dando direttive a quello bassottino di sinistra, in ginocchio davanti
alla porta, impegnato a lavorare sulla serratura.
“Quanto ti ci vuole? Andiamo, se qualcuno ci vede chiamerà la polizia!” sussurrò ansiosamente, dando un'occhiata frettolosa verso l'alto, controllando le finestre buie. Raph gli batté sulla spalla, con studiata calma. Il tizio strillò, voltandosi in fretta, e il suo complice si alzò in piedi, allarmato dalla sua reazione: con un gesto veloce Raph fece cozzare le loro teste e li guardò accasciarsi al suolo, svenuti. Patetici. Non era nemmeno valsa la pena. Li legò stretti, lasciandoli davanti alla porta con un biglietto con su scritto: 'siamo dei ladri. Volevamo derubarti. Chiama la polizia'.
Con un ghigno riscalò le pareti del palazzo e spaziò con lo sguardo intorno, lasciando che l'aria fresca del primo giorno di autunno aiutasse il suo corpo a liberarsi dal senso di euforia che gli dava battere i cattivi.
Un
bagliore improvviso illuminò il cielo a giorno, accecandolo.
Scosse
la testa, mentre imprecava, chiedendosi cosa potesse essere stato.
Sembrava quasi un fulmine, ma non gli era sembrato che cadesse, ma
che salisse verso il cielo; il rombo gli arrivò alle
orecchie,
seguito da leggere gocce di pioggia.
Corse verso la fonte della
luce, nonostante dei puntini gialli gli balenassero davanti agli
occhi impedendogli di vedere propriamente. Si trovò ad
aguzzare lo
sguardo verso un vicolo buio e solitario, in uno dei quartieri
più
malfamati della città. Sentiva che c'era qualcuno,
più che vederlo.
Sentiva lo scalpiccio delle sue scarpe e l'ansimare mentre correva.
Una
donna o un bambino a giudicare dal flebile rumore.
Poi lo udì. Un
frastuono, prodotto da cigolii metallici e giunture di ferro che
stridevano. I passi dell'ignoto fuggitivo accelerarono.
Si gettò
giù, rimbalzando sulle scale antincendio per frenare la
velocità di
caduta. Nello stesso istante il temporale vero e proprio
iniziò,
scrosciante, umido e rinfrescante.
Il vicolo era assolutamente
vuoto. Poi qualcuno svoltò da sinistra, andandogli a
sbattere
contro, finendo disteso a terra con un urlo di dolore molto
femminile. Non poteva vederla nitidamente, dati i lampioni rotti, ma
la intravvide portarsi la mano alla testa.
“Chi sei?” gli
chiese con un tono di voce spaventato.
“Un passante” rispose,
allungandole una mano per aiutarla ad alzarsi. Lei si ritrasse e si
alzò barcollante, da sola.
“Di cosa sei fatto, d'acciaio?”
domandò scettica, forse pensando che lui l'avesse colpita
con
qualche oggetto contundente. Non sapeva certo di essere andata a
sbattere contro il piastrone del suo guscio.
“Modestamente” si
pavoneggiò lui, con un mezzo sorriso. La donna scosse la
testa con
forza, cercando di snebbiarla, ma si bloccò di colpo quando
un
rumore metallico riempì l'aria; con un brusco respiro si
mise a
correre, bloccandosi dopo pochi secondi.
“Senti, uomo d'acciaio,
ti conviene scappare. Vai via, scappa” strillò con
urgenza,
saltellando nervosamente sul posto.
Raph
era perplesso, benché lei non potesse vedere il suo viso e
quindi la
sua espressione. Di matti ne era piena la città e lui stesso
ne
aveva conosciuti a bizzeffe, ma questa sembrava più
psicotica, che
davvero matta. La donna lo afferrò per il polso, e si chiese
come ci
fosse riuscita al buio, e lo trascinò via da lì.
Come diamine
riusciva a spostarlo? Guscio e tutto pesava intorno ai cento chili.
Cercò di puntare i piedi per fermare la folle corsa, ma si
accorse
di non riuscirci. Lo stava letteralmente trascinando di peso.
“Ferma!
Ferma, dannazione! Cosa sono, un pacco?”
Il
rumore dei loro passi sulle pozzanghere fu l'unico suono che
ricevette in risposta, misto a qualche tuono, in lontananza. In pochi
secondi si ritrovò a correrle dietro, senza opporre
resistenza. Lei
titubò un momento ad un bivio, col fiatone, poi lo
tirò
nell'imboccatura del vicolo alla destra, mentre il rumore
sferragliante alle loro spalle si faceva via via sempre più
forte.
Tutti i vicoli erano immersi nell'oscurità,
perciò anche guardando
indietro non avrebbe capito da cosa scappavano.
“Vuoi fermarti?”
si ritrovò a supplicare, ansimante per la corsa. La donna si
bloccò
vicino a un cassonetto e senza molte cerimonie lo spinse dentro,
premunendosi di chiudere il coperchio, bloccandolo con
qualcosa.
“Ehy, che diamine? Sei impazzita?”
“Rimani qui,
in silenzio. Tra cinque minuti urla per farti liberare.
Addio”
mormorò la voce attutita da fuori.
I
passi si allontanarono con urgenza, soffocati presto dal rumore
ferroso e forte, come la carica di un esercito di cavalieri in
armatura. Anche quello scomparve, lasciando solo il suono della
pioggia che batteva sul coperchio, ritmicamente.
Raph rimase un
momento in silenzio, cercando di capire: la donna stava scappando da
qualcuno o qualcosa. E lo aveva chiuso dentro un bidone per
proteggerlo.
Col cavolo che avrebbe fatto la damigella in
pericolo!
Si puntellò coi piedi sul fondo, cercando di non
pensare a quali schifezze ci fossero, e spinse con tutta la sua forza
il portellone, che scricchiolò opponendo resistenza. Spinse
ancora,
urlando per lo sforzo e alla fine, con un cupo schiocco, la barra di
metallo che lo bloccava si staccò, rotolando con un gran
frastuono
sull'asfalto. Si voltò guardingo, cercando segni di
presenze, ma si
ritrovò solo. Con un rantolo arrabbiato saltò
fuori dal cassonetto,
deciso ad andare fino in fondo alla storia, perché non era
ancora
nato chi poteva buttarlo impunemente nell'immondizia. Nemmeno se
pensava fosse per il suo bene.
Scalò
il palazzo di fronte a sé, trovandosi di colpo esposto
all'aria
fresca, che soffiò sulla pelle e la tuta bagnate facendolo
rabbrividire. Ispirò a pieni polmoni, poi corse via,
cercando di
ritrovare la misteriosa fuggitiva.
Non ci volle molto. Il rumore
sferragliante di prima echeggiava per le strade, salendo su fino ai
tetti: come diamine facevano i Newyorkesi a non accorgersene?
Alcuni
metri più avanti il leggero suono dei suoi piedi gli
indicò dove
trovarla, mentre correva per altre stradine buie ed equivoche,
entrando sempre più nella zona malfamata. Si
gettò dal tetto,
atterrando di fronte a lei senza molte cerimonie. Di nuovo, un
bagliore accecante lo costrinse a chiudere gli occhi e veniva senza
alcun dubbio da lei.
“Cosa
diamine...?”
“Come hai fatto a liberarti?” chiese la donna,
sospettosa, mentre lui si sfregava gli occhi per riacquistare la
vista.
“Come diamine fai ad accecarmi ogni volta?”
domandò
invece di rispondere. Si stava arrabbiando sempre di più.
Sentì un
rombo, lungo e cupo, riecheggiare vicino.
“Sei dalla sua parte,
vero? Altro che semplice passante! Dovevo saperlo!”
gridò lei con
voce stizzita, arretrando nell'oscurità, mettendo
più distanza
possibile tra loro.
“Di cosa stai parlando? Io non... attenta!”
Aveva avvertito la minaccia in un decimo di secondo e nello stesso lasso di tempo il suo corpo aveva reagito da solo, di conseguenza: si era tuffato di fronte alla donna, girandosi di schiena, per far sì che il guscio assorbisse l'impatto; ma il colpo penetrò comunque la difesa ossea e perforò la carne. Tre colpi andarono a segno, trivellando la spalla sinistra.
Urlò di dolore, benché fosse poco nella sua natura.
Si accasciò un poco in avanti, cercando di resistere al bruciore della ferita. Con la mano destra afferrò il Sai corrispondente, voltandosi come una furia, per massacrare qualsiasi cosa lo avesse colpito. Non li vedeva, ma li percepiva chiaramente; e adesso riusciva a sentire anche il forte rumore che facevano quando si muovevano, che prima era stato nascosto dal tuono. Con un grido di furore si avventò su loro, scoprendo al primo affondo che erano robot o qualcosa di molto simile. Forse manichini animati. Di sicuro non erano umani: la forma che intravvedeva era antropomorfa e nonostante si spostassero molto velocemente, c'era qualcosa di artificiale nel loro modo di muoversi. Un paio continuavano a sparargli addosso senza sosta, costringendolo a mosse fulminee per evitare di essere colpito; tutto lo rendeva solo più furioso.
Li
squarciò uno ad uno, senza nessuna pietà; anzi,
provò una gioia
selvaggia nel distruggerli, anche e soprattutto perché lo
avevano
ferito. Il braccio sinistro giaceva inerme al suo fianco, mentre il
dolore lo assaliva ogni volta che si muoveva.
L'ultimo cadde a
terra, sollevando un po' di schizzi d'acqua, lasciando il vicolo nel
più totale silenzio. Con un sospiro soddisfatto mise il Sai
alla
cintura e strinse la spalla ferita con la mano libera, cercando di
fermare l'emorragia.
Doveva
tornare al rifugio, il prima possibile.
“Stai... stai bene?”
chiese una voce alle sue spalle. Seguita da un rumore di passi
annacquato.
Si era dimenticato della donna.
“Sì” rantolò,
poco convinto, cercando di svicolare da lì.
“Sei ferito? Posso
curarti.”
“Devo andare. Torna a casa e cerca di non metterti
nei guai.”
In
altre circostante avrebbe chiesto spiegazioni per ciò che
era
successo, ma la vista gli si stava annebbiando e la spalla gli faceva
male. Non sapeva nemmeno quanto sangue avesse perso. Saltò
con un
po' di fatica, aggrappandosi alla scala antincendio del palazzo
vicino con la mano scivolosa e bagnata, sparendo in pochi
secondi.
Corse per un poco, saltando due o tre palazzi, per
distanziare la donna, poi rallentò col fiatone, dicendosi
che non
era possibile che lei potesse seguirlo. Si appoggiò per un
attimo
contro una casupola adibita a rimessa degli attrezzi, riprendendo
fiato e riparandosi dalla pioggia, con un fastidioso senso di
vertigine. Dove aveva messo il shellcell? Avrebbe chiamato Don,
chiedendogli di raggiungerlo, pensò tastando le taschine per
trovarlo. Scivolò un poco contro il muro, sempre
più debole.
“Uomo
d'acciaio?” chiamò la voce di prima, molto vicina.
Cos'era, uno
scherzo? Come diamine faceva una donna a seguirlo sui tetti di New
York?
“Stai lasciando una scia di sangue considerevole. Dovresti
permettermi di curarti” continuò, avvicinandosi.
“Ti sei ferito
a causa mia, te lo devo.”
I
passi erano sempre più vicini e Raph sapeva che in pochi
secondi lei
sarebbe apparsa al suo fianco, lo avrebbe guardato e avrebbe urlato.
Tutti urlavano la prima volta che li vedevano. O svenivano. O
urlavano e svenivano.
Era in trappola, lo sapeva. Non poteva
correre a lungo con quella ferita e non si sentiva in grado di
affrontare una scenata in quel momento. Rimase in attesa, trattenendo
il fiato, girando il capo da sinistra a destra, non sapendo dove
sarebbe apparsa.
“Vai a casa! Non ho bisogno di niente!”
urlò
alla fine, cercando di suonare più minaccioso possibile.
“Hai
bisogno di me, invece” rispose una voce sopra la sua testa.
Alzò
lo sguardo, sorpreso, e incontrò un paio di occhi castani
che lo
guardavano da sotto in su, dato che la donna si era sporta dal tetto
della rimessa, su cui era salita, studiando le sue mosse. Il suo
sorriso risultava strano visto al contrario.
“Oh, affascinante”
pronunciò cripticamente.
Scese
con un balzo dalla bassa costruzione e lo fronteggiò senza
timore;
era poco più bassa della sua spalla, ma spaventosamente
mingherlina. Si ritrovò, senza sapere come, seduto per
terra, mentre
la ragazza, -era più giovane di come l'aveva immaginata-,
cercava
tranquillamente qualcosa nella borsa che teneva a tracolla.
“Non
hai paura?” chiese suo malgrado, meravigliato dal suo sangue
freddo. Lei si distrasse un attimo dalla sua ricerca, guardandolo a
sua volta perplessa.
“Dovrei?” chiese poi, togliendo una
boccetta e delle garze dalla borsa.
“Ti trovi davanti un
mutante, dovresti urlare e svenire o cercare di colpirmi con qualcosa
di aguzzo e letale” rispose, chiedendosi quale fosse il suo
problema.
“È questo che sei? Un mutante?”
“Potresti
rispondere alle mie domande invece di farmene altre?”
sbottò
seccato mentre lei, inchinatasi di fronte, si sporgeva per trafficare
con la zip della sua tuta e poter sfilare così la parte di sopra.
“Faccio
da solo!” la interruppe lui, spingendola indietro, teso.
Trafficò con il gancio senza successo, visto che poteva usare solo una mano, perciò dovette consentirle di aiutarlo: la ragazza tirò giù la zip con facilità, aiutandolo a sfilare il braccio sinistro, mentre lui tratteneva gli imprechi che gli salivano alla gola ogni volta che un sussulto lo faceva impazzire dal dolore. Lei occhieggiò meravigliata il piastrone e il guscio che si intravvedeva alle sue spalle, ma non disse nulla. Si sentì di colpo in imbarazzo, come se fosse davvero nudo.
“Tu
hai paura di me?” chiese lei di colpo, stappando la boccetta
e
versando il liquido azzurro su una pezza. Si sporse ancora e
iniziò
a passare delicatamente la stoffa sulla sua pelle, detergendola dal
sangue, con leggerezza, per non fargli male. La pezza era gelata
contro la parte lesa, ma portava refrigerio e benessere. Il tocco lo
scioccò un poco o forse la vicinanza di lei, che non
sembrava
davvero mostrare la minima repulsione, e si perse un momento,
annebbiato.
“Perché dovrei avere paura di te? Tu sei un
normale
essere umano” esclamò poco dopo, come se fosse una
cosa ovvia.
La
ragazza si tese oltre la sua spalla per togliere il sangue dalla
schiena, avvicinandosi ancora. Era inginocchiata tra le sue gambe e
così vicina che poteva sentire il suo odore, di lavanda.
Rabbrividì,
all'improvviso.
“Ti ho fatto male?” chiese lei, accortasi del
suo sussulto, fermandosi un momento.
“No, è solo fredda”
mentì, scacciando quel genere di pensieri dalla mente.
La
pezza riprese a strofinare sulla pelle, delicata.
“Non è che
non si debba aver paura di un normale essere umano, sono abbastanza
pericolosi, sai?” riprese a parlare la ragazza, per niente
dimentica del loro discorso. “E non puoi determinare l'essere
normali solo dall'aspetto. Ma il fatto è: io sono diversa da
te,
perché se tu non hai paura di me, io dovrei averne di
te?”
Era
la domanda più sciocca e tuttavia più sensata che
qualcuno gli
avesse mai posto.
“Io sono cresciuto sapendo di essere il
diverso” si ritrovò a rispondere, le mille
sfumature implicite in
quella frase.
“Ci sono molti modi di essere diversi. Alcuni non
si vedono” mormorò la ragazza, allontanandosi
appena da lui,
piegando le bende sporche di sangue. Riuscì a leggere, in
quegli
occhi scuri, solitudine.
“Chi erano quelli che ti seguivano?”
domandò all'improvviso.
Lei
si allungò verso la borsa, afferrando un barattolino bianco; lo
svitò
e prese una densa pasta gialla, con due dita.
“Nessuno”
rispose, incominciando a spalmare la crema sulla spalla, assorta.
“Mi
stai dicendo che sei incappata in quei... 'cosi' per caso?”
domandò
scettico, mentre la mano continuava leggera a curarlo. Raph sapeva
che le ferite passavano da parte a parte, ma non aveva ancora
controllato l'entità del danno. In quel momento la testa
bruna di
lei, completamente fradicia di pioggia, gli bloccava la visuale. Le
dita sottili scivolavano sulla sua pelle, con movimenti circolari
sempre più estesi, dalla clavicola alla spalla. Doveva
ammettere che
era piacevole e rilassante. Ma quale ragazza girava con un kit di
pronto soccorso nella borsa?
“Sì, assolutamente per caso”
mentì lei, passando la crema anche dietro, fino quasi alla
scapola.
“Un pezzo del tuo guscio è saltato via”
aggiunse subito dopo,
spostandosi. Sembrava quasi sollevata di essere riuscita a cambiare
discorso.
Riuscì
finalmente a vedere la spalla.
Tre grossi buchi, dai contorni
bruciati e gonfi, formavano una sorta di triangolo sulla pelle;
avevano perforato il muscolo, lo sapeva, ma non pensava che avessero
preso anche il guscio. Il guscio praticamente non guariva mai del
tutto, forse di poco, con moltissimo tempo e fatica. Donnie avrebbe
avuto il suo bel da fare per curargli propriamente quelle ferite.
“É
un danno esteso?” domandò, visto che non riusciva
a girare
abbastanza la testa da sincerarsene. Lei allungò una mano,
tirando
via qualcosa. Gli mostrò una scheggia, di forma ovale,
grande quanto
un paio di dita.
“Non molto, no” asserì poi.
Si
accucciò davanti a lui, un rotolo bianco nelle mani.
“Sporgiti
un po', ti devo bendare” gli mormorò, srotolando
la garza.
Obbedì,
spostandosi in avanti, verso di lei, tanto vicina da poter sentire il
calore che emanava il suo corpo, anche attraverso i vestiti bagnati.
Fu quasi tentato di poggiare la testa sulla sua spalla.
La benda
gli sfiorò la pelle, lieve, davanti,
dietro al
collo, di nuovo davanti, tutto intorno al braccio e riprese, come se
fosse una sorta di rituale.
Chiuse gli occhi, assaporando il
formicolio alla spalla, dove il dolore sembrava star scomparendo e
rimase in silenzio, ascoltando il frusciare leggero della benda
contro la sua pelle, il suono delle gocce di pioggia che cadevano
attorno a loro o sul tetto della casupola e il respiro assorto della
ragazza. Stava per addormentarsi, con una serenità addosso
inusuale
per lui.
“Posso
chiederti come sei mutato?” sentì dire d'un tratto
alla sua
infermiera.
“Cosa?” chiese sorpreso, spalancando gli
occhi.
“Se non vuoi, non fa niente. Ero solo curiosa,
perdonami”
confessò, continuando a bendarlo. Non si sentì
offeso dalla
domanda, solo molto sorpreso dalla curiosità che aveva
percepito nel
fondo della sua voce. Le raccontò a grandi linee la storia
della
mutazione accorsa a lui e ai suoi fratelli e lei ascoltò con
interesse, finendo di bendarlo, fermando le garze con un grosso
cerotto all'altezza del piastrone.
“Quindi
in origine eri una tartaruga. Affascinante. Ma guarda qui, guarda la
tua muscolatura, per esempio” osservò la ragazza,
prendendo il suo
braccio e passando le dita seguendo i contorni; “è
identica alla
muscolatura dell'uomo. E mi hai detto che i tuoi fratelli hanno la
tua stessa forma. Più che mutazione, la chiamerei
evoluzione.”
Raph
la ascoltava senza capire. E non era che il tocco delle sue mani lo
infastidisse, anzi, ma lo faceva sentire strano.
“Se mi avessi
detto che siete diversi, che magari uno di voi ha sviluppato
più
arti o comunque qualche anomalia, avrei creduto all'idea della
mutazione, ma avete assunto tutti un aspetto umanoide. Forse il
liquido non era un agente mutageno, ma evolutivo”
spiegò la
ragazza, mentre continuava a studiarlo. D'improvviso gli venne in
mente che anche Leather Head si era evoluto in una forma umanoide, in
effetti. Avrebbe dovuto chiedere a Donnie, era lui l'intelligente.
“Scommetto
che le tue ossa sono come quelle umane. E che il tuo guscio non
è
attaccato al resto del corpo come nelle tartarughe normali.
D'altronde i tuoi polmoni sembrano essere qui e qui c'è il
cuore”
continuò, poggiando le mani contro il piastrone, cercando di
sentire
il battito. Prima che potesse dirle di smetterla, lei si
interessò
alla sua mano, prendendola e poggiando la propria contro il suo
palmo. Le sue due dita coprivano abbondantemente le quattro della
ragazza, mentre il pollice risultava più del doppio della
grandezza.
Era una sensazione strana mettersi a confronto a quel modo con un
umano.
“Tre dita” mormorò tra sé e
sé la giovane, studiando
la maniera in cui si piegavano, per contare le falangi.
“Scommetto
che i tuoi figli ne avranno quattro o cinque.”
“I miei cosa?”
sbottò Raph, ritraendo la mano come se si fosse scottato.
“I
tuoi figli” ripeté lei, sorpresa dalla sua
reazione, ma senza
spostarsi.
“Io non avrò figli” rispose brusco.
“Non
esistono mutanti femmine.”
Lei
lo stava guardando come se fosse pazzo. Poi i suoi occhi si
spalancarono di compressione.
“Oh. Immagino che le donne umane
non ti piacciano” aggiunse, saggiamente, sicura di aver
capito il
problema.
Non aveva capito nulla. Certo che gli piacevano le donne
umane, d'altronde era cresciuto avendole sempre sotto gli occhi. E
c'era stata la cotta colossale che aveva preso per Joy, anni prima.
Gli piacevano eccome, le donne. Ma poi, potevano avere figli con le
umane? Più cercava di pensarci più gli si
annebbiava la mente.
“Mi
sento strano” sussurrò suo malgrado. La ragazza
sorrise con fare
bonario, spingendolo contro il muretto perché vi si
appoggiasse.
“É
l'effetto della pomata. Addormenta il dolore, ma ti intorpidisce la
mente. Riposa un po'” gli rispose con voce ovattata. Poi si
chinò
e gli diede un bacio sulla spalla, proprio sopra la benda,
sorprendendolo.
“Ehy! Cosa stai facendo?”
“Una magia per
far guarire prima la ferita.”
Raph
sbuffò, imbarazzato e scettico.
“Lo sai vero che è una stupida
credenza da bambini?”
La ragazza afferrò la sua mano destra,
dove spiccava un taglio lungo e sottile quasi rimarginato,
probabilmente risalente a qualche giorno prima, e con un gesto
leggero poggiò sopra le sue labbra. Morbide. Fu tutto
ciò che
capì.
Poi gli mostrò la mano: il taglio era
sparito, la pelle era perfetta, come se non si fosse mai
ferito.
“Come diamine...?”
Voleva fare mille domande, ma
stava precipitando velocemente nel sonno. Gli occhi si chiusero,
contro la sua volontà.
“Non ti ho chiesto come ti chiami”
riuscì a balbettare, ad un passo dall'oblio. Se lei rispose,
non fu
comunque in grado di sentirla.
“...ael...
phael...” sentiva le voci di Leo, Donnie e Mikey che lo
chiamavano,
lontane, incorporee.
Si girò intorno, cercando di scorgerli, ma
era tutto nero. Di nuovo, lo chiamarono, con le voci
preoccupate.
“Raphael... bel nome” sussurrò una voce
femminile, molto nitida e vicina. “Ti lascio in buone mani.
Addio,
uomo d'acciaio.”
Sentì
qualcosa che lo abbandonava. Come un calore delizioso e che aveva
sempre fatto parte di lui, in un certo senso. Si sentì come
se
giacesse sdraiato su un freddo sasso. Ci mise un secondo per capire
che non stava sognando. Aprì gli occhi sui volti sorpresi e
preoccupati dei suoi fratelli.
“Ti abbiamo cercato per ore!”
mormorò Don, fuori di sé. “E tu stai
fuori a campeggiare?”
“Dov'è
andata?” chiese con la voce impastata dal sonno.
“Chi?”
ribatté Leo, guardandolo come si guarderebbe un ubriaco dopo
una
sbronza.
“La ragazza.”
Si
mise a sedere e qualcosa scivolò via dal suo corpo.
Voltò la testa,
intorpidita dal sonno, di qua e di là per il tetto dove
aveva
dormito, cercando traccia di lei. Si accorse solo che la pioggia
aveva ormai smesso di cadere e della coperta con la quale era stato
coperto da lei, ormai poggiata contro il pavimento.
“Di chi
sta... COSA TI E' SUCCESSO?” urlò Leo, notando la
fasciatura.
“Ho
salvato una ragazza, ma son stato ferito. Volevo tornare al rifugio,
ma lei mi ha seguito e curato” rispose ancora sottosopra.
“Sul
tetto di un grattacielo? Te la sei sognato, fratello!”
esclamò Mikey.
Raph
raccolse un bigliettino, adagiato proprio vicino alle sue
gambe.
“Riguardati e fai attenzione. Le tue ferite
guariranno
in due o tre giorni, non usare il braccio per quel lasso di tempo.
Addio e grazie.”
“Non sono nemmeno sicuro che fosse umana,
in effetti” rispose tra sé e sé.
Note:
Salve a tutti. Innanzitutto grazie per aver letto il primo capitolo della mia storia. É un secolo che è sepolta dentro il mio pc e finalmente ho trovato il coraggio di pubblicarla. Spero che vi piaccia.
Per le parole della ragazza: nelle tartarughe normali il guscio è attaccato al resto del corpo, dato che è formato da un'escrescenza ossea attaccata alle vertebre e i loro polmoni si trovano proprio sotto di esso. Negli anni invece, ho costruito la teoria che le TMNT non abbiano più il guscio attaccato. D'altronde la loro struttura ossea è stata disegnata per essere simile a quella degli uomini e i polmoni non sono nel guscio, ma nel petto come negli umani. Ovvio che posso sbagliarmi, ma sono quasi completamente certa che sia così.
In questa storia non si può proprio parlare di TMNT, al massimo di MNT, dato che non sono più adolescenti... ma va bene lo stesso, no?
Ribadisco: se non avete visto la serie del 2003 la storia non sarà sempre chiara, perché ci sono riferimenti alla serie. Ad esempio: il matrimonio di April e Casey, “TMNT Back to the sewer” ultimo episodio.