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Autore: Switch    18/01/2014    11 recensioni
*(2003 TMNT! No 2012!)*
Dalla storia:
“Sai, maestro? La verità è che ho sempre combattuto. Ho combattuto per rabbia, per paura, per vendetta, per noia, per avere dell'eccitazione, per cercare risposte, per cercare un proposito, per cercare me stesso. Per provare a me stesso che ero il migliore. Adesso è diverso. Voglio combattere solo per aiutarla a proteggersi.”
Raphael è sempre stato il più rabbioso e collerico, tra tutti i suoi fratelli. Perché si è sempre sentito diverso dal resto del mondo e vuole solo trovare il suo perché.
Genere: Azione, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Donatello Hamato, Leonardo Hamato, Michelangelo Hamato, Nuovo personaggio, Raphael Hamato/ Raffaello
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Heart's mutation'
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Veloce glossario:

Bō: è il nome giapponese del bastone di Donnie, lunghezza : 1.81 cm. Insomma, perché il nome delle Katana si mette in originale e il bastone lo si liquida così?

Sai: Armi di Raphael.

Tsuba: Sono le parti metalliche che spuntano dalla parte centrale dei Sai.

Katana: le spade di Leo. (Anche se dovrebbero essere delle Ninjato, ma vabbé.)

Nunchaku: Le armi di Mikey.

Shuriken: Stelle a più punte da lanciare contro l'avversario.

Shellcell: Nella serie del 2003 era il nome dei telefonini dei nostri mutanti.




L'aria era immobile, ristagnante.

Non era una novità: New York aveva sempre lo stesso odore denso e greve, in qualsiasi stagione, ma all'arrivo di Settembre lo sentiva con più intensità.
E lo odiava.
Schivò per un soffio un fendente diretto al viso, con un ghigno rassegnato. Non poteva credere di averci pensato ancora, dopo tutto quel tempo. Ma in effetti, a dover essere sincero, quando non ci pensava?
“Raph, concentrato!” gli gridò Leonardo, da qualche parte alla sua sinistra. Riusciva a sentire il rumore delle sue Katana che cozzavano contro le armi dei loro opponenti, frammisto a qualche grido di dolore. Leo non era certo uno che si tratteneva in uno scontro, ma era sicuro che non avesse ferito nessuno in maniera davvero grave. Forse.

Michelangelo stava prendendo in giro i due scagnozzi che cercavano senza successo di colpirlo, in quella maniera irritante che avrebbe fatto perdere la concentrazione a Buddha, mentre i suoi Nunchaku roteavano colpendoli alle ginocchia, facendoli solo più arrabbiare.
“Mikey, smetti di giocare. Ci riesci?”
Il fratello lo guardò, ridendo per essere riuscito indirettamente a infastidire anche lui. Donatello passò davanti a loro, intento a schivare degli Shuriken, studiando le mosse dei suoi avversari, il Bō ben stretto nella mano, in attesa di sferrare il suo contrattacco.

Non era che una normale serata Newyorkese, per loro. Per chiunque altro essere attaccato da una banda di mercenari al soldo di Hun, -quel maledetto bastardo,- sarebbe stato assurdo e fuori dall'ordinario. Ma Hun poteva assoldare chiunque volesse, non aveva mai vinto contro di loro e non sarebbe stata quella la notte in cui sarebbero cambiate le cose; poche mosse ben studiate, frutto di anni di allenamenti ed esperienza, e dei loro opponenti non ne era rimasto nemmeno uno in piedi.
“É stato facile” disse Mikey. “Non erano così forti, in effetti.”
Rinfoderarono le armi, studiando gli uomini svenuti e feriti a terra.

Pensate che la finirà un giorno? Sono stanco della sua dannata insistenza” esclamò Raphael, dando un'occhiata distratta agli avversari.
Con un movimento repentino, e molto veloce per uno che giaceva al suolo, uno degli aggressori si rialzò e puntò la Katana diretta verso il suo collo. Prima che potesse reagire, ci furono un clangore e un lampo di luce e l'uomo si accasciò al suolo; la spada era stata infilzata al muro da un Sai. Raph si avvicinò cauto, studiando l'arma, dolorosamente familiare: gli tsuba a forma di mezzaluna scintillavano alle fredde luci dei palazzi di New York. Lo staccò con rabbia, incredulo e sconvolto di trovarlo lì, tanto che non sentì nemmeno il suono metallico della Katana che cadeva al suolo.

É bello rivederti, Raffaello” disse una voce dolce, con uno strano accento, che gli diede i brividi.
Tremò impercettibilmente, il Sai stritolato nella mano, al riconoscere la sua voce.

Era tornata.
Lei, che non doveva essere lì. Lei, che lo aveva portato fin alle vette più alte del paradiso per poi lasciarlo cadere giù.
Lei, che gli aveva spezzato il cuore.
“Cosa fai qui?” urlò con tutta la sua rabbia. Ma i ricordi di lei e ciò che era stato, lo assalirono comunque, prepotentemente.



Due anni prima. Settembre.

Allora, capito tutto?” domandò Leo, forse per la terza volta. Si trovavano sul tetto di un grattacielo, intenti a provare le nuove tute messe a punto da Don, protetti dall'oscurità della notte.
“Sì, per la centesima volta: ci dividiamo, pattugliamo, ci rincontriamo. Non siamo tutti stupidi come Mikey!” rispose scocciato, giocherellando con la punta di uno dei suoi Sai, tenendolo in equilibrio su un dito.
“Hey” si lamentò offeso Michelangelo, scoccandogli un'occhiataccia.

Raphael si annoiava a sentir cianciare Leo; si annoiava da un bel pezzo, a dire il vero. Da quando avevano sconfitto il robot Shredder al matrimonio di April e Casey, la loro vita era diventata molto piatta. Sì, c'era Hun che ogni due per tre cercava di farli fuori, ma ormai non si poteva proprio prendere seriamente. Era più un passatempo che una vera sfida.

Dopo l'ennesima spiegazione di Don si divisero e ognuno si diresse in una diversa direzione.
Raphael scelse di andare ad ovest, l'esatto opposto della direzione di Leo. Benché col tempo fosse maturato abbastanza per capire di essere un'avventata testa calda, ciò non di meno non riusciva a stare nei ranghi; ammirava la disciplina del fratello, anche se sarebbe morto prima di ammetterlo, ma non era il genere di vita che lui riusciva a seguire. Era guidato dai sentimenti più che dalla ragione; si lasciava manovrare dalla rabbia, era vero, ma in qualche modo doveva fare uscire fuori tutta quella che si portava dentro.
Saltò di tetto in tetto, compiendo avvitamenti e capriole, per testare la resistenza della tuta, nera come la notte. Gli faceva strano indossare qualsiasi indumento, dopo anni senza, ma Donnie aveva ragione: le tute li rendevano ancora più invisibili e in effetti, senza, era come se andassero in giro nudi. Lo avevano fatto per anni e nessuno se ne era mai lamentato, ma ormai si stavano abituando al vestirsi, tanto che gli veniva spontaneo farlo, la mattina.

Atterrò sopra una cisterna su un tetto piuttosto trascurato, scrutando New York, “la città che non dorme mai”, di notte: milioni di luci, aranciate, gialle, al neon, che scintillavano dal grattacielo più alto all'appartamento più infimo e nascosto; quelle erano le uniche stelle che si potevano vedere in quella città, enorme, riottosa e pericolosa, ma che per lui era casa. E come in ogni casa, c'erano i propri problemi. Come quei due teppistelli che stavano cercando di forzare la porta del retro di quel bar all'angolo.
Dilettanti.
Il rumore dei loro attrezzi da scasso si sentiva per tutto il vicolo. Si calò lentamente, scendendo per le scalette antincendio del palazzo; anche se avesse fatto rumore, comunque, era piuttosto improbabile che lo sentissero, tanto erano concentrati. Non sembravano molto difficili da battere, probabilmente avrebbe dovuto trattenersi per non far loro troppo male. Con un sospiro rassegnato si portò alle loro spalle, silenzioso. Quello di destra, magro e allampanato, stava dando direttive a quello bassottino di sinistra, in ginocchio davanti alla porta, impegnato a lavorare sulla serratura.

Quanto ti ci vuole? Andiamo, se qualcuno ci vede chiamerà la polizia!” sussurrò ansiosamente, dando un'occhiata frettolosa verso l'alto, controllando le finestre buie. Raph gli batté sulla spalla, con studiata calma. Il tizio strillò, voltandosi in fretta, e il suo complice si alzò in piedi, allarmato dalla sua reazione: con un gesto veloce Raph fece cozzare le loro teste e li guardò accasciarsi al suolo, svenuti. Patetici. Non era nemmeno valsa la pena. Li legò stretti, lasciandoli davanti alla porta con un biglietto con su scritto: 'siamo dei ladri. Volevamo derubarti. Chiama la polizia'.

Con un ghigno riscalò le pareti del palazzo e spaziò con lo sguardo intorno, lasciando che l'aria fresca del primo giorno di autunno aiutasse il suo corpo a liberarsi dal senso di euforia che gli dava battere i cattivi.

Un bagliore improvviso illuminò il cielo a giorno, accecandolo. Scosse la testa, mentre imprecava, chiedendosi cosa potesse essere stato. Sembrava quasi un fulmine, ma non gli era sembrato che cadesse, ma che salisse verso il cielo; il rombo gli arrivò alle orecchie, seguito da leggere gocce di pioggia.
Corse verso la fonte della luce, nonostante dei puntini gialli gli balenassero davanti agli occhi impedendogli di vedere propriamente. Si trovò ad aguzzare lo sguardo verso un vicolo buio e solitario, in uno dei quartieri più malfamati della città. Sentiva che c'era qualcuno, più che vederlo. Sentiva lo scalpiccio delle sue scarpe e l'ansimare mentre correva.

Una donna o un bambino a giudicare dal flebile rumore.
Poi lo udì. Un frastuono, prodotto da cigolii metallici e giunture di ferro che stridevano. I passi dell'ignoto fuggitivo accelerarono.
Si gettò giù, rimbalzando sulle scale antincendio per frenare la velocità di caduta. Nello stesso istante il temporale vero e proprio iniziò, scrosciante, umido e rinfrescante.
Il vicolo era assolutamente vuoto. Poi qualcuno svoltò da sinistra, andandogli a sbattere contro, finendo disteso a terra con un urlo di dolore molto femminile. Non poteva vederla nitidamente, dati i lampioni rotti, ma la intravvide portarsi la mano alla testa.
“Chi sei?” gli chiese con un tono di voce spaventato.
“Un passante” rispose, allungandole una mano per aiutarla ad alzarsi. Lei si ritrasse e si alzò barcollante, da sola.
“Di cosa sei fatto, d'acciaio?” domandò scettica, forse pensando che lui l'avesse colpita con qualche oggetto contundente. Non sapeva certo di essere andata a sbattere contro il piastrone del suo guscio.
“Modestamente” si pavoneggiò lui, con un mezzo sorriso. La donna scosse la testa con forza, cercando di snebbiarla, ma si bloccò di colpo quando un rumore metallico riempì l'aria; con un brusco respiro si mise a correre, bloccandosi dopo pochi secondi.
“Senti, uomo d'acciaio, ti conviene scappare. Vai via, scappa” strillò con urgenza, saltellando nervosamente sul posto.

Raph era perplesso, benché lei non potesse vedere il suo viso e quindi la sua espressione. Di matti ne era piena la città e lui stesso ne aveva conosciuti a bizzeffe, ma questa sembrava più psicotica, che davvero matta. La donna lo afferrò per il polso, e si chiese come ci fosse riuscita al buio, e lo trascinò via da lì. Come diamine riusciva a spostarlo? Guscio e tutto pesava intorno ai cento chili. Cercò di puntare i piedi per fermare la folle corsa, ma si accorse di non riuscirci. Lo stava letteralmente trascinando di peso.
“Ferma! Ferma, dannazione! Cosa sono, un pacco?”

Il rumore dei loro passi sulle pozzanghere fu l'unico suono che ricevette in risposta, misto a qualche tuono, in lontananza. In pochi secondi si ritrovò a correrle dietro, senza opporre resistenza. Lei titubò un momento ad un bivio, col fiatone, poi lo tirò nell'imboccatura del vicolo alla destra, mentre il rumore sferragliante alle loro spalle si faceva via via sempre più forte. Tutti i vicoli erano immersi nell'oscurità, perciò anche guardando indietro non avrebbe capito da cosa scappavano.
“Vuoi fermarti?” si ritrovò a supplicare, ansimante per la corsa. La donna si bloccò vicino a un cassonetto e senza molte cerimonie lo spinse dentro, premunendosi di chiudere il coperchio, bloccandolo con qualcosa.
“Ehy, che diamine? Sei impazzita?”
“Rimani qui, in silenzio. Tra cinque minuti urla per farti liberare. Addio” mormorò la voce attutita da fuori.

I passi si allontanarono con urgenza, soffocati presto dal rumore ferroso e forte, come la carica di un esercito di cavalieri in armatura. Anche quello scomparve, lasciando solo il suono della pioggia che batteva sul coperchio, ritmicamente.
Raph rimase un momento in silenzio, cercando di capire: la donna stava scappando da qualcuno o qualcosa. E lo aveva chiuso dentro un bidone per proteggerlo.
Col cavolo che avrebbe fatto la damigella in pericolo!
Si puntellò coi piedi sul fondo, cercando di non pensare a quali schifezze ci fossero, e spinse con tutta la sua forza il portellone, che scricchiolò opponendo resistenza. Spinse ancora, urlando per lo sforzo e alla fine, con un cupo schiocco, la barra di metallo che lo bloccava si staccò, rotolando con un gran frastuono sull'asfalto. Si voltò guardingo, cercando segni di presenze, ma si ritrovò solo. Con un rantolo arrabbiato saltò fuori dal cassonetto, deciso ad andare fino in fondo alla storia, perché non era ancora nato chi poteva buttarlo impunemente nell'immondizia. Nemmeno se pensava fosse per il suo bene.

Scalò il palazzo di fronte a sé, trovandosi di colpo esposto all'aria fresca, che soffiò sulla pelle e la tuta bagnate facendolo rabbrividire. Ispirò a pieni polmoni, poi corse via, cercando di ritrovare la misteriosa fuggitiva.
Non ci volle molto. Il rumore sferragliante di prima echeggiava per le strade, salendo su fino ai tetti: come diamine facevano i Newyorkesi a non accorgersene?
Alcuni metri più avanti il leggero suono dei suoi piedi gli indicò dove trovarla, mentre correva per altre stradine buie ed equivoche, entrando sempre più nella zona malfamata. Si gettò dal tetto, atterrando di fronte a lei senza molte cerimonie. Di nuovo, un bagliore accecante lo costrinse a chiudere gli occhi e veniva senza alcun dubbio da lei.

Cosa diamine...?”
“Come hai fatto a liberarti?” chiese la donna, sospettosa, mentre lui si sfregava gli occhi per riacquistare la vista.
“Come diamine fai ad accecarmi ogni volta?” domandò invece di rispondere. Si stava arrabbiando sempre di più. Sentì un rombo, lungo e cupo, riecheggiare vicino.
“Sei dalla sua parte, vero? Altro che semplice passante! Dovevo saperlo!” gridò lei con voce stizzita, arretrando nell'oscurità, mettendo più distanza possibile tra loro.
“Di cosa stai parlando? Io non... attenta!”

Aveva avvertito la minaccia in un decimo di secondo e nello stesso lasso di tempo il suo corpo aveva reagito da solo, di conseguenza: si era tuffato di fronte alla donna, girandosi di schiena, per far sì che il guscio assorbisse l'impatto; ma il colpo penetrò comunque la difesa ossea e perforò la carne. Tre colpi andarono a segno, trivellando la spalla sinistra.

Urlò di dolore, benché fosse poco nella sua natura.

Si accasciò un poco in avanti, cercando di resistere al bruciore della ferita. Con la mano destra afferrò il Sai corrispondente, voltandosi come una furia, per massacrare qualsiasi cosa lo avesse colpito. Non li vedeva, ma li percepiva chiaramente; e adesso riusciva a sentire anche il forte rumore che facevano quando si muovevano, che prima era stato nascosto dal tuono. Con un grido di furore si avventò su loro, scoprendo al primo affondo che erano robot o qualcosa di molto simile. Forse manichini animati. Di sicuro non erano umani: la forma che intravvedeva era antropomorfa e nonostante si spostassero molto velocemente, c'era qualcosa di artificiale nel loro modo di muoversi. Un paio continuavano a sparargli addosso senza sosta, costringendolo a mosse fulminee per evitare di essere colpito; tutto lo rendeva solo più furioso.

Li squarciò uno ad uno, senza nessuna pietà; anzi, provò una gioia selvaggia nel distruggerli, anche e soprattutto perché lo avevano ferito. Il braccio sinistro giaceva inerme al suo fianco, mentre il dolore lo assaliva ogni volta che si muoveva.
L'ultimo cadde a terra, sollevando un po' di schizzi d'acqua, lasciando il vicolo nel più totale silenzio. Con un sospiro soddisfatto mise il Sai alla cintura e strinse la spalla ferita con la mano libera, cercando di fermare l'emorragia.

Doveva tornare al rifugio, il prima possibile.
“Stai... stai bene?” chiese una voce alle sue spalle. Seguita da un rumore di passi annacquato.
Si era dimenticato della donna.
“Sì” rantolò, poco convinto, cercando di svicolare da lì.
“Sei ferito? Posso curarti.”
“Devo andare. Torna a casa e cerca di non metterti nei guai.”

In altre circostante avrebbe chiesto spiegazioni per ciò che era successo, ma la vista gli si stava annebbiando e la spalla gli faceva male. Non sapeva nemmeno quanto sangue avesse perso. Saltò con un po' di fatica, aggrappandosi alla scala antincendio del palazzo vicino con la mano scivolosa e bagnata, sparendo in pochi secondi.
Corse per un poco, saltando due o tre palazzi, per distanziare la donna, poi rallentò col fiatone, dicendosi che non era possibile che lei potesse seguirlo. Si appoggiò per un attimo contro una casupola adibita a rimessa degli attrezzi, riprendendo fiato e riparandosi dalla pioggia, con un fastidioso senso di vertigine. Dove aveva messo il shellcell? Avrebbe chiamato Don, chiedendogli di raggiungerlo, pensò tastando le taschine per trovarlo. Scivolò un poco contro il muro, sempre più debole.
“Uomo d'acciaio?” chiamò la voce di prima, molto vicina.
Cos'era, uno scherzo? Come diamine faceva una donna a seguirlo sui tetti di New York?
“Stai lasciando una scia di sangue considerevole. Dovresti permettermi di curarti” continuò, avvicinandosi. “Ti sei ferito a causa mia, te lo devo.”

I passi erano sempre più vicini e Raph sapeva che in pochi secondi lei sarebbe apparsa al suo fianco, lo avrebbe guardato e avrebbe urlato. Tutti urlavano la prima volta che li vedevano. O svenivano. O urlavano e svenivano.
Era in trappola, lo sapeva. Non poteva correre a lungo con quella ferita e non si sentiva in grado di affrontare una scenata in quel momento. Rimase in attesa, trattenendo il fiato, girando il capo da sinistra a destra, non sapendo dove sarebbe apparsa.
“Vai a casa! Non ho bisogno di niente!” urlò alla fine, cercando di suonare più minaccioso possibile.
“Hai bisogno di me, invece” rispose una voce sopra la sua testa. Alzò lo sguardo, sorpreso, e incontrò un paio di occhi castani che lo guardavano da sotto in su, dato che la donna si era sporta dal tetto della rimessa, su cui era salita, studiando le sue mosse. Il suo sorriso risultava strano visto al contrario.
“Oh, affascinante” pronunciò cripticamente.

Scese con un balzo dalla bassa costruzione e lo fronteggiò senza timore; era poco più bassa della sua spalla, ma spaventosamente mingherlina. Si ritrovò, senza sapere come, seduto per terra, mentre la ragazza, -era più giovane di come l'aveva immaginata-, cercava tranquillamente qualcosa nella borsa che teneva a tracolla.
“Non hai paura?” chiese suo malgrado, meravigliato dal suo sangue freddo. Lei si distrasse un attimo dalla sua ricerca, guardandolo a sua volta perplessa.
“Dovrei?” chiese poi, togliendo una boccetta e delle garze dalla borsa.
“Ti trovi davanti un mutante, dovresti urlare e svenire o cercare di colpirmi con qualcosa di aguzzo e letale” rispose, chiedendosi quale fosse il suo problema.
“È questo che sei? Un mutante?”
“Potresti rispondere alle mie domande invece di farmene altre?” sbottò seccato mentre lei, inchinatasi di fronte, si sporgeva per trafficare con la zip della sua tuta e poter sfilare così la parte di sopra.
“Faccio da solo!” la interruppe lui, spingendola indietro, teso.

Trafficò con il gancio senza successo, visto che poteva usare solo una mano, perciò dovette consentirle di aiutarlo: la ragazza tirò giù la zip con facilità, aiutandolo a sfilare il braccio sinistro, mentre lui tratteneva gli imprechi che gli salivano alla gola ogni volta che un sussulto lo faceva impazzire dal dolore. Lei occhieggiò meravigliata il piastrone e il guscio che si intravvedeva alle sue spalle, ma non disse nulla. Si sentì di colpo in imbarazzo, come se fosse davvero nudo.

Tu hai paura di me?” chiese lei di colpo, stappando la boccetta e versando il liquido azzurro su una pezza. Si sporse ancora e iniziò a passare delicatamente la stoffa sulla sua pelle, detergendola dal sangue, con leggerezza, per non fargli male. La pezza era gelata contro la parte lesa, ma portava refrigerio e benessere. Il tocco lo scioccò un poco o forse la vicinanza di lei, che non sembrava davvero mostrare la minima repulsione, e si perse un momento, annebbiato.
“Perché dovrei avere paura di te? Tu sei un normale essere umano” esclamò poco dopo, come se fosse una cosa ovvia.
La ragazza si tese oltre la sua spalla per togliere il sangue dalla schiena, avvicinandosi ancora. Era inginocchiata tra le sue gambe e così vicina che poteva sentire il suo odore, di lavanda. Rabbrividì, all'improvviso.
“Ti ho fatto male?” chiese lei, accortasi del suo sussulto, fermandosi un momento.
“No, è solo fredda” mentì, scacciando quel genere di pensieri dalla mente.

La pezza riprese a strofinare sulla pelle, delicata.
“Non è che non si debba aver paura di un normale essere umano, sono abbastanza pericolosi, sai?” riprese a parlare la ragazza, per niente dimentica del loro discorso. “E non puoi determinare l'essere normali solo dall'aspetto. Ma il fatto è: io sono diversa da te, perché se tu non hai paura di me, io dovrei averne di te?”
Era la domanda più sciocca e tuttavia più sensata che qualcuno gli avesse mai posto.
“Io sono cresciuto sapendo di essere il diverso” si ritrovò a rispondere, le mille sfumature implicite in quella frase.
“Ci sono molti modi di essere diversi. Alcuni non si vedono” mormorò la ragazza, allontanandosi appena da lui, piegando le bende sporche di sangue. Riuscì a leggere, in quegli occhi scuri, solitudine.
“Chi erano quelli che ti seguivano?” domandò all'improvviso.

Lei si allungò verso la borsa, afferrando un barattolino bianco; lo svitò e prese una densa pasta gialla, con due dita.
“Nessuno” rispose, incominciando a spalmare la crema sulla spalla, assorta.
“Mi stai dicendo che sei incappata in quei... 'cosi' per caso?” domandò scettico, mentre la mano continuava leggera a curarlo. Raph sapeva che le ferite passavano da parte a parte, ma non aveva ancora controllato l'entità del danno. In quel momento la testa bruna di lei, completamente fradicia di pioggia, gli bloccava la visuale. Le dita sottili scivolavano sulla sua pelle, con movimenti circolari sempre più estesi, dalla clavicola alla spalla. Doveva ammettere che era piacevole e rilassante. Ma quale ragazza girava con un kit di pronto soccorso nella borsa?
“Sì, assolutamente per caso” mentì lei, passando la crema anche dietro, fino quasi alla scapola. “Un pezzo del tuo guscio è saltato via” aggiunse subito dopo, spostandosi. Sembrava quasi sollevata di essere riuscita a cambiare discorso.

Riuscì finalmente a vedere la spalla.
Tre grossi buchi, dai contorni bruciati e gonfi, formavano una sorta di triangolo sulla pelle; avevano perforato il muscolo, lo sapeva, ma non pensava che avessero preso anche il guscio. Il guscio praticamente non guariva mai del tutto, forse di poco, con moltissimo tempo e fatica. Donnie avrebbe avuto il suo bel da fare per curargli propriamente quelle ferite.
“É un danno esteso?” domandò, visto che non riusciva a girare abbastanza la testa da sincerarsene. Lei allungò una mano, tirando via qualcosa. Gli mostrò una scheggia, di forma ovale, grande quanto un paio di dita.
“Non molto, no” asserì poi.

Si accucciò davanti a lui, un rotolo bianco nelle mani.
“Sporgiti un po', ti devo bendare” gli mormorò, srotolando la garza.
Obbedì, spostandosi in avanti, verso di lei, tanto vicina da poter sentire il calore che emanava il suo corpo, anche attraverso i vestiti bagnati. Fu quasi tentato di poggiare la testa sulla sua spalla.
La benda gli sfiorò la pelle, lieve, davanti, dietro al collo, di nuovo davanti, tutto intorno al braccio e riprese, come se fosse una sorta di rituale.
Chiuse gli occhi, assaporando il formicolio alla spalla, dove il dolore sembrava star scomparendo e rimase in silenzio, ascoltando il frusciare leggero della benda contro la sua pelle, il suono delle gocce di pioggia che cadevano attorno a loro o sul tetto della casupola e il respiro assorto della ragazza. Stava per addormentarsi, con una serenità addosso inusuale per lui.

Posso chiederti come sei mutato?” sentì dire d'un tratto alla sua infermiera.
“Cosa?” chiese sorpreso, spalancando gli occhi.
“Se non vuoi, non fa niente. Ero solo curiosa, perdonami” confessò, continuando a bendarlo. Non si sentì offeso dalla domanda, solo molto sorpreso dalla curiosità che aveva percepito nel fondo della sua voce. Le raccontò a grandi linee la storia della mutazione accorsa a lui e ai suoi fratelli e lei ascoltò con interesse, finendo di bendarlo, fermando le garze con un grosso cerotto all'altezza del piastrone.

Quindi in origine eri una tartaruga. Affascinante. Ma guarda qui, guarda la tua muscolatura, per esempio” osservò la ragazza, prendendo il suo braccio e passando le dita seguendo i contorni; “è identica alla muscolatura dell'uomo. E mi hai detto che i tuoi fratelli hanno la tua stessa forma. Più che mutazione, la chiamerei evoluzione.”
Raph la ascoltava senza capire. E non era che il tocco delle sue mani lo infastidisse, anzi, ma lo faceva sentire strano.
“Se mi avessi detto che siete diversi, che magari uno di voi ha sviluppato più arti o comunque qualche anomalia, avrei creduto all'idea della mutazione, ma avete assunto tutti un aspetto umanoide. Forse il liquido non era un agente mutageno, ma evolutivo” spiegò la ragazza, mentre continuava a studiarlo. D'improvviso gli venne in mente che anche Leather Head si era evoluto in una forma umanoide, in effetti. Avrebbe dovuto chiedere a Donnie, era lui l'intelligente.

Scommetto che le tue ossa sono come quelle umane. E che il tuo guscio non è attaccato al resto del corpo come nelle tartarughe normali. D'altronde i tuoi polmoni sembrano essere qui e qui c'è il cuore” continuò, poggiando le mani contro il piastrone, cercando di sentire il battito. Prima che potesse dirle di smetterla, lei si interessò alla sua mano, prendendola e poggiando la propria contro il suo palmo. Le sue due dita coprivano abbondantemente le quattro della ragazza, mentre il pollice risultava più del doppio della grandezza. Era una sensazione strana mettersi a confronto a quel modo con un umano.
“Tre dita” mormorò tra sé e sé la giovane, studiando la maniera in cui si piegavano, per contare le falangi. “Scommetto che i tuoi figli ne avranno quattro o cinque.”
“I miei cosa?” sbottò Raph, ritraendo la mano come se si fosse scottato.
“I tuoi figli” ripeté lei, sorpresa dalla sua reazione, ma senza spostarsi.
“Io non avrò figli” rispose brusco. “Non esistono mutanti femmine.”

Lei lo stava guardando come se fosse pazzo. Poi i suoi occhi si spalancarono di compressione.
“Oh. Immagino che le donne umane non ti piacciano” aggiunse, saggiamente, sicura di aver capito il problema.
Non aveva capito nulla. Certo che gli piacevano le donne umane, d'altronde era cresciuto avendole sempre sotto gli occhi. E c'era stata la cotta colossale che aveva preso per Joy, anni prima. Gli piacevano eccome, le donne. Ma poi, potevano avere figli con le umane? Più cercava di pensarci più gli si annebbiava la mente.
“Mi sento strano” sussurrò suo malgrado. La ragazza sorrise con fare bonario, spingendolo contro il muretto perché vi si appoggiasse.
“É l'effetto della pomata. Addormenta il dolore, ma ti intorpidisce la mente. Riposa un po'” gli rispose con voce ovattata. Poi si chinò e gli diede un bacio sulla spalla, proprio sopra la benda, sorprendendolo.
“Ehy! Cosa stai facendo?”
“Una magia per far guarire prima la ferita.”

Raph sbuffò, imbarazzato e scettico.
“Lo sai vero che è una stupida credenza da bambini?”
La ragazza afferrò la sua mano destra, dove spiccava un taglio lungo e sottile quasi rimarginato, probabilmente risalente a qualche giorno prima, e con un gesto leggero poggiò sopra le sue labbra. Morbide. Fu tutto ciò che capì.
Poi gli mostrò la mano: il taglio era sparito, la pelle era perfetta, come se non si fosse mai ferito.
“Come diamine...?”
Voleva fare mille domande, ma stava precipitando velocemente nel sonno. Gli occhi si chiusero, contro la sua volontà.
“Non ti ho chiesto come ti chiami” riuscì a balbettare, ad un passo dall'oblio. Se lei rispose, non fu comunque in grado di sentirla.



...ael... phael...” sentiva le voci di Leo, Donnie e Mikey che lo chiamavano, lontane, incorporee.
Si girò intorno, cercando di scorgerli, ma era tutto nero. Di nuovo, lo chiamarono, con le voci preoccupate.
“Raphael... bel nome” sussurrò una voce femminile, molto nitida e vicina. “Ti lascio in buone mani. Addio, uomo d'acciaio.”

Sentì qualcosa che lo abbandonava. Come un calore delizioso e che aveva sempre fatto parte di lui, in un certo senso. Si sentì come se giacesse sdraiato su un freddo sasso. Ci mise un secondo per capire che non stava sognando. Aprì gli occhi sui volti sorpresi e preoccupati dei suoi fratelli.
“Ti abbiamo cercato per ore!” mormorò Don, fuori di sé. “E tu stai fuori a campeggiare?”
“Dov'è andata?” chiese con la voce impastata dal sonno.
“Chi?” ribatté Leo, guardandolo come si guarderebbe un ubriaco dopo una sbronza.
“La ragazza.”

Si mise a sedere e qualcosa scivolò via dal suo corpo. Voltò la testa, intorpidita dal sonno, di qua e di là per il tetto dove aveva dormito, cercando traccia di lei. Si accorse solo che la pioggia aveva ormai smesso di cadere e della coperta con la quale era stato coperto da lei, ormai poggiata contro il pavimento.
“Di chi sta... COSA TI E' SUCCESSO?” urlò Leo, notando la fasciatura.
“Ho salvato una ragazza, ma son stato ferito. Volevo tornare al rifugio, ma lei mi ha seguito e curato” rispose ancora sottosopra.
“Sul tetto di un grattacielo? Te la sei sognato, fratello!” esclamò Mikey.

Raph raccolse un bigliettino, adagiato proprio vicino alle sue gambe.
Riguardati e fai attenzione. Le tue ferite guariranno in due o tre giorni, non usare il braccio per quel lasso di tempo. Addio e grazie.”
“Non sono nemmeno sicuro che fosse umana, in effetti” rispose tra sé e sé.




Note:

Salve a tutti. Innanzitutto grazie per aver letto il primo capitolo della mia storia. É un secolo che è sepolta dentro il mio pc e finalmente ho trovato il coraggio di pubblicarla. Spero che vi piaccia.

Per le parole della ragazza: nelle tartarughe normali il guscio è attaccato al resto del corpo, dato che è formato da un'escrescenza ossea attaccata alle vertebre e i loro polmoni si trovano proprio sotto di esso. Negli anni invece, ho costruito la teoria che le TMNT non abbiano più il guscio attaccato. D'altronde la loro struttura ossea è stata disegnata per essere simile a quella degli uomini e i polmoni non sono nel guscio, ma nel petto come negli umani. Ovvio che posso sbagliarmi, ma sono quasi completamente certa che sia così.

In questa storia non si può proprio parlare di TMNT, al massimo di MNT, dato che non sono più adolescenti... ma va bene lo stesso, no?

Ribadisco: se non avete visto la serie del 2003 la storia non sarà sempre chiara, perché ci sono riferimenti alla serie. Ad esempio: il matrimonio di April e Casey, “TMNT Back to the sewer” ultimo episodio.




  
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