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Autore: anagogia    18/01/2014    0 recensioni
L’uomo inizia ad allontanarsi, le spalle un po’curve. Prima che la sua lunga sagoma scompaia nel buio, Chuck lo induce a voltarsi un’ultima volta.
“Amico, ehi, amico!” chiama a mezza voce. “Aspetta! Un ultimo brindisi.” dice, porgendogli la bottiglia e sentendosi un po’ sciocco “Alla primavera. Perché ci rivediamo, non è vero? Ci vediamo al disgelo.”
L’uomo fa un mezzo sorriso, o almeno a Chuck sembra che sia così.
“Ci vediamo al disgelo” mormora.
Genere: Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro personaggio, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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All’inizio erano pochi minuti. Arrivava, sedeva all’estremo sinistro della panchina e guardava in alto. Restava così, immobile, per quindici, venti minuti al massimo, poi se ne andava come era venuto.

Chuck aveva pensato che fosse strano. Non lui, non più di altri almeno – uno non immaginerebbe mai quanta gente strana si incontri nei parchi di notte – ma il fatto che sedesse proprio lì, all’estremo sinistro della panchina, dove l’asse di legno verde era danneggiata, spezzata a metà. Restare in bilico su quella seduta malridotta doveva essere complicato, non era abbastanza larga per fornire una buona base, sedercisi certamente richiedeva una buona dose di equilibrio, e poi era acuminata e appogiarvisi doveva fare male. Non che non potesse andare, all’occorrenza – lo sapeva bene, lui, che da anni passava ogni notte d’estate nella stessa casetta di legno del vecchio parco giochi – ma a quell’ora non c’era nessun altro in giro. C’era molto spazio su quella stessa panchina, e ce n’erano altre, integre o quasi, dove avrebbe potuto accomodarsi. Perché scegliere proprio quella posizione, fra tante altre?

Le sue visite non erano così frequenti, ad ogni modo, e se non fosse stato per quel bizzarro dettaglio non lo avrebbe nemmeno notato. Chuck era un senzatetto, uno che si faceva i fatto suoi finchè poteva. Non si immischiava negli affari degli altri, lui. Se quello voleva ferirsi le chiappe su un pezzo di legno marcio, padronissimo, la cosa non lo riguardava. Era primavera, e finalmente poteva smettere di passare la notte nelle stazioni della metropolitana, fetide e sovraffollate, e tornare nel suo parco, ad addormentarsi – con una o due pinte di vino, sia ben chiaro, - guardando le stelle. Quell’angolo di Londra era la cosa che più si avvicinava ad una casa, per Chuck, ma non gli dispiaceva dividerla con qualcun altro, una o due sere a settimana. Purchè non desse fastidio, beninteso, quell’uomo silenzioso era il benvenuto.

Dopo un po’, tuttavia, le sue visite erano diventate più frequenti. In maggio lo incontrava a sere alterne, ritto e con lo sguardo fisso in alto; in giugno, aveva preso a restare fino a sera inoltrata, le mani appoggiate in grembo. A volte, aveva in mano un involto di stagnola, il luccichio di quel metallo impostore ben visibile anche a metri di distanza (lo apriva, l’involucro ben srotolato sulle gambe magre, lo teneva lì per un po’, ma alla fine non mangiava mai. Era la sua cena? Non ce l’aveva un posto migliore dove mangiare? E comunque… che spreco, pensava Chuck. Lui sì che avrebbe saputo cosa farsene).

In luglio, aveva cominciato a sedere sulla sua panchina rotta ogni sera. Arrivava intorno alle sette, sette e dieci – Chuck non aveva un orologio ma sapeva sempre che ora fosse, un po’ perché leggeva la posizione della luna e del sole, un po’ perché sentiva la sigla dei programmi tv attraverso le finestre aperte – e se ne andava a un orario variabile tra le dieci e mezzanotte. Non era un orario fisso, eppure, quando era il momento, si alzava e senza esitazione si allontanava a passo spedito, come se un bidello avesse suonato la campanella di uscita da scuola. Non leggeva, non ascoltava musica, non controllava il cellulare – tutte le cose che fanno le persone quando stanno sedute su una panchina al parco – sembrava non facesse nulla, eppure non era così. Era chiaro nel modo in cui si metteva in piedi, si scrollava di dosso la polvere e si allontanava senza voltarsi, che c’era una logica – sbilenca, secondo Chuck, ma logica nondimeno – nei suoi movimenti. Arrivava per una ragione, e per un’altra se ne andava al momento giusto.

Quello era un uomo che aspettava i titoli di coda.

Chuck si era preoccupato, alla sua prima scomparsa. Era ormai abituato al suo arrivo, che coincideva più o meno con il quarto bicchiere di vino, e ad essere sincero la sua presenza aveva cominciato ad essere confortante. Addormentarsi era molto più facile se lui era lì, vino o non vino. Purtroppo, a un certo punto, in luglio inoltrato, era scomparso, così come era arrivato. La sua panchina rimaneva libera ogni sera. Chuck era inquieto, più rissoso del solito. Lo avrebbe cercato, se avesse saputo come farlo.

La sera in cui era tornato, aveva tirato un piccolo – a suo giudizio, almeno – sospiro di sollievo. Lo aveva salutato con la mano, quando lo aveva visto ricomparire. La mattina dopo, il pacchetto di stagnola che teneva in mano era accanto alla sua casetta di legno. Chuck quasi non se lo ricordava, quanto fosse bello avere da mangiare la mattina.

Avevano un tacito accordo da allora. Non si parlavano, non si guardavano nemmeno, ma erano entrambi ben consapevoli della presenza dell’altro. Chuck aspettava l’uomo che non parla – lo chiamava così ormai- ogni sera, e spesso si addormentava cullato dal suo silenzio.

Erano andati avanti così fino all’inizio di novembre. Le foglie erano arancioni, sparute sui rami spogli, e Chuck disertava la casa nel parco sempre più spesso. La pioggia era ormai all’ordine del giorno, e fin troppi senzatetto morivano di freddo nelle notti d’inverno.

Libero sì, ma surgelato? No grazie. La stazione di Charing Cross era maleodorante, sì, e chiassosa, ma era coperta e calda. La primavera torna sempre, si diceva Chuck, e lui aveva intenzione di vederne tante altre.

La nostalgia, tuttavia, è una brutta bestia – lo ripeteva sempre sua nonna, su al paese – e una sera di dicembre Chuck decide di fare una passeggiata nel parco. Solo per un saluto alla sua casa, si dice, aspettando giorni migliori che certamente sarebbero arrivati.

Chuck arriva al vecchio parco giochi, e lui è lì. La nevicata è cessata da qualche ora, e il parco è coperto di bianco. Il lampione sgangherato emette una luce tremolante, ed ombre fredde si insinuano in ogni anfratto, lo lambiscono, lo circondano. E’ seduto sul legno bagnato come era stato seduto in estate, immerso nel profumo dei soffioni, e sembra non avere notato la differenza.

Però c’è solo ghiaccio adesso, pensa Chuck.       

In una notte di fantasmi, che male può fare uno spettro in più? Chuck si avvicina in silenzio, poi si siede accanto a lui. L’uomo si volta. E’ più giovane di quanto sembrasse a prima vista, attorno ai trenta, forse qualcosa in più. Il suo viso pallido sembra incorporeo sotto quella luce fioca: se non lo avesse visto tremare di freddo, avrebbe pensato che lui fosse un fantasma per davvero.

Gli fa un mezzo sorriso: l’ha riconosciuto. Senza ancora aver trovato il coraggio di parlare, Chuck gli porge la bottiglia che tiene in mano, una vinaccia spessa fondo di barile. Lui esita un attimo, poi la afferra e se la porta alla labbra.

Per un po’ si limitano a bere, Chuck che guarda lui e lui che guarda in alto, come sempre. Chuck strizza gli occhi nella stessa direzione, ma non vede nulla. C’è un palazzo anni ‘30, uno di quegli edifici solidi e massicci con i balconi in pietra e un giardino privato, recintato da sbarre di ferro rispetto al parco che lo fiancheggia. Solo un palazzo, ma come lo guarda!, con gli occhi sbarrati, come se non volesse perdere nemmeno un millimetro di quel banale colpo d’occhio. Il busto è leggermente proteso in avanti, per avvicinarsi quanto più possibile, le dita delle mani di tanto in tanto si allungano ad afferrare qualcosa che non c’è, e tutto il suo corpo è percorso da un tremore impercettibile, sottile, incessante. Chuck pensava che fosse freddo, ma adesso vede bene che si tratta di desiderio, un bisogno così intenso che a lui manca il fiato solo a guardarlo. A volte inclina appena il capo e muove le labbra, come volesse cominciare a parlare. C’è un vuoto così angosciante, terebrante, in quel gesto che si arresta.

Forse è il vino, si dice. Troppi solfiti in quel pintone da quattro soldi. Che cosa può mai esserci, là, di così prezioso?

Alla fine, Chuck decide che il momento è arrivato. Ora o mai più.

“Amico” dice “qui sta nevicando. Perché non te ne torni a casa? Ce l’avrai pure, un posto dove andare.”

Beve, una lunga sorsata che –Chuck è sicuro – gli brucia lo gola e lo stomaco come fosse benzina. Sarebbe meglio che ci andasse piano, è vinaccia, quella, mica un barolo raffinato.

“Si” esita “Si, ne ho uno, ho un posto dove andare. Ma la mia casa e là.”

Che sorpresa, che parli davvero.

“Abiti in quel palazzo laggiù, allora? E’ quella casa tua?”

“No, quella non è casa mia. Ma la mia casa è là.”

Chuck è interdetto. Non è sicuro di aver capito bene. Non ha studiato, lui, finito a stento le elementari e delle medie ha fatto solo qualche settimana, ma è sempre stato bravo con le parole. E’ una cosa che viene sempre utile, sulla strada. Stavolta, però, c’è qualcosa che non torna. Come fa ad essere casa sua se non abita là? Forse l’hanno sfrattato? Ma no, è ben vestito, fin troppo; all’inizio ci aveva fatto un pensierino, sulla possibilità di alleggerirlo un po’, quel cappotto scuro ha un’aria così calda, ma poi ci ha ripensato. Non sembra che gli manchino i mezzi per vivere dove preferisce, in ogni caso.

Forse è solo un po’ matto, non sarebbe certo l’unico da queste parti. Non sembrava, a prima vista, ma non si può mai dire.

“Senti” esordisce “io sono uno che si fa i fatti suoi, che lo so che chi si fa gli affari suoi campa cent’anni… Però te le devo proprio chiedere, amico, perché sono mesi che vieni qui ogni sera, e adesso pure sotto la neve, insomma, ognuno è libero di fare quel che crede ma strano è strano, poco ma sicuro. E poi ti siedi proprio lì, dove la panchina è rotta, ormai avrai dei lividi grossi così su quelle chiappe. Che cos’è che guardi là? Perché io non vedo proprio nulla.”

Senza distogliere lo sguardo gli fa cenno di avvicinarsi. Chuck è un po’ dubbioso, sarà che ormai inizia ad essere ubriaco ed ha paura che a toccarlo potrebbe scomparire, ma vuole capire, vuole sapere. Così si avvicina, si siede accanto a lui, stretto corpo a corpo con quello sconosciuto che, in un modo un po’ strano e ingarbugliato, gli sta più a cuore di tanti altri.

E non è solo per gli involtini di stagnola, Chuck lo giurerebbe a chiunque lo domandasse.

Inaspettatamente, lo sconosciuto solleva la mano a indicare qualcosa, laggiù, e allora Chuck capisce perché abbia scelto quello stesso posto per tante notti, perché abbia accolto il dolore che lui già sente tormentare i suoi lombi dopo pochi istanti.

Se non fosse seduto proprio lì non potrebbe mai vedere dentro quella finestra.

Strizza gli occhi, e guarda insieme a lui. Un uomo, sui quaranta, non esattamente un bell’uomo, un po’ trascurato, con i capelli biondo scuro e un po’ di grigio qua e là, anche se non è facile dirlo così da lontano. Una donna bionda, in tuta e vestaglia, appena un po’ più giovane. Una bambina, una neonata, in pigiama, con una piccola coda un po’ disfatta. Una bella bambina, pensa Chuck.

Stanno apparecchiando il tavolo, deve essere più o meno ora di cena (dentro le case ci sono orari regolari, pensa Chuck, ma lui preferisce l’imprevedibilità delle sue stelle). Parlano tra loro. Ridono, a un certo punto. L’uomo afferra la donna – deve essere la moglie, presumibilmente – per la vita e le bacia il collo, mentre lei si ritrae estasiata. Appoggia una mano sulla sua testa, la fa scivolare attraverso i capelli.

Chuck sente la strana necessità di non distogliere lo sguardo. C’è tanto calore in quel piccolo rettangolo di luce, di giallo ed arancio nel mare buio della facciata del palazzo. Si vedono ombre pallide danzare sullo sfondo, c’è un camino acceso là. Per un attimo pare anche a lui di sentire il fuoco crepitare. Eppure, questo non fa altro che rendere più vivido il contrasto, non fa che ricordargli che loro due si trovano fuori, nella neve, su una panchina rotta nel buio dell’inverno. Sono infinitamente lontani dal giallo e dall’arancio, dal tavolo apparecchiato, dal fuoco.

Faceva già così freddo, prima? Era così buio anche poco fa?

Poco dopo si siedono a cenare, l’uomo a capotavola, la bimba nella culla alla sua destra. Non è sicuro, ma gli pare che quelle sul tavolo siano lasagne fumanti. Sembrano allegri mentre mangiano, la cena dura parecchio, non sembra abbiano fretta di alzarsi, sono felici di essere lì insieme, ancora di più quando, più tardi, si accomodano su un divano di pelle grigia – o forse verde?- dall’aspetto consumato e dannatamente accogliente. La donna bionda si appoggia al petto del marito che le bacia la fronte mentre accarezza con un dito la guancia della bambina accoccolata sul suo grembo. Restano lì per quelle che sembrano ore – o sono pochi minuti, Chuck non saprebbe proprio più dirlo, sarà il vino – e si addormentano uno dopo l’altro.

Il suo vicino rimane accanto a lui per tutto il tempo, come una statuta di marmo, e non fosse per quel fremito che lo percorre a Chuck parrebbe di essere solo. Alla fine, l’uomo nella finestra scuote leggermente la donna bionda, che si alza e solleva delicatamente la bambina dal grembo del –quasi certamente – papà. L’uomo si alza dopo di lei, rassetta il divano, sprimaccia i cuscini, si stiracchia prima di scomparire dalla visuale.

Poi, la luce si spegne, e restano solo gli ultimi baluginii della brace nel camino. In un attimo il suo vicino è in piedi accanto a lui e scrolla le tracce di neve dal lungo cappotto bagnato.

A Chuck è sembrato che abbia mormorato buonanotte alla luce che si spegneva, ma non potrebbe giuraraci.

“E’ questo che fai, ogni sera?” gli chiede prima che possa allontanarsi. “E’ per loro che continui tornare al tuo posto?”

Lui abbassa la testa, poi annuisce, e fissa i suoi occhi – azzurri, non se ne era mai accorto prima- nei suoi. E allora Chuck vuole scappare, vuole tornare a Charing Cross, alla gente, alla luce a giorno, all’odore sgradevole ma innegabilmente vivo dei suoi compagni di sventura, lontano dal questo buio, dal freddo, dallo sguardo di quell’uomo che racconta la storia di un vuoto che lo divora, di un grido di dolore soffocato in mancanza d’aria, lontano dalla solennità di una angoscia che non cessa, che non conosce più alcuna speranza.

Chuck, per una volta, si sente fortunato. Almeno ha qualcosa da aspettare, lui. Almeno lui ha la primavera.

L’uomo inizia ad allontanarsi, le spalle un po’curve. Prima che la sua lunga sagoma scompaia nel buio, Chuck lo induce a voltarsi un’ultima volta.

“Amico, ehi, amico!” chiama a mezza voce. “Aspetta! Un ultimo brindisi.” dice, porgendogli la bottiglia e sentendosi un po’ sciocco “Alla primavera. Perché ci rivediamo, non è vero? Ci vediamo al disgelo.”

L’uomo fa un mezzo sorriso, o almeno a Chuck sembra che sia così.

“Ci vediamo al disgelo” mormora.

Mesi dopo, Chuck sta nella sua casetta di legno. Fa ancora un po’ freddo, marzo è appena iniziato, ma quest’anno era più forte il grido di libertà. E poi, aspettava da dicembre questo momento. Si è fatto aiutare da un paio di amici, è costato solo un paio di bicchieri, e non ci hanno messo poi molto ad effettuare lo scambio.

Ora, lo sconosciuto ha una panchina intera, integra, tutta per lui. Chuck l’ha trascinata fin lì insieme ai suoi amici, l’ha ripulita un po’ dalla patina che l’inverno ha lasciato, si è accertato che la visuale sia perfetta. Ed ora aspetta.

La finestra si illumina alla solita ora. E’ tutto come nella notte di dicembre, la famigliola felice, la cena, il divano verde o forse grigio. La bimba è cresciuta, è ovvio, ora gattona felice sul tavolo.

Mancano solo il camino acceso e lo sconosciuto. Chuck si addormenta con un peso sul cuore, quella notte.

La mattina dopo, sulla panchina c’è un involto scuro. Anche da lontano Chuck riconosce il suo lungo cappotto, pulito e ordinatamente ripiegato. Sopra, un biglietto:

Goditi la primavera. A me non serve più.

Gli occhi di Chuck si inumidiscono un po’, ed erano anni che non accadeva, almeno da sobrio.

Potrebbe riferirsi alla panchina, si dice, o al cappotto.

In fondo, però, lo sa bene cosa intende. A chi non ha speranza non serve a nulla la primavera.

  
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