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Autore: Angelique Bouchard    18/01/2014    6 recensioni
“Per la prima volta, Bulma si rese conto di cosa significasse portare una maschera: Vegeta aveva sempre avuto quella del guerriero indistruttibile, imperturbabile e insensibile; una maschera che, negli ultimi anni, forse era stata un po' scostata dalla donna, costringendo Vegeta a rivelare un po' di se stesso, ma che in quel momento era caduta completamente, persa chissà dove, lasciando il Saiyan senza alcuna protezione, con i suoi segreti, i suoi dolori e le sue paure scritte negli occhi scuri. E Bulma era un'ottima lettrice.
«Parla con me» aggiunse la donna in un sussurro dopo infiniti attimi di silenzio in cui Vegeta aveva stretto e riaperto i pugni decine di volte, sbattuto le palpebre freneticamente, morso un labbro. E la scienziata, improvvisamente, si rese conto che mai aveva visto il Saiyan fare gesti simili in passato, gesti che segnalavano le sue insicurezze, i suoi timori. Bulma rabbrividì: quell'uomo non era che l'ombra di Vegeta, l'orgoglioso principe dei Saiyan.”
ONE - SHOT SECONDA CLASSIFICATA AL CONTEST "IL CONTEST DEI NUMERI" INDETTO DA BAKAKITSUNE SUL FORUM DI EFP.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bulma, Vegeta | Coppie: Bulma/Vegeta
Note: Missing Moments, OOC | Avvertimenti: nessuno
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One – shot "seconda classificata al contest “Il contest dei numeri” indetto da bakakitsune sul Forum di Efp.




Nick autore: Angelique Bouchard (Efp), Aurora.96 (Ffz)

Titolo: Al sapore di pioggia, sole e cioccolato

Fandom: Dragon Ball

Genere: Introspettivo, Sentimentale

Rating: Giallo

Note/Avvertimenti: Missing Moments; OOC

Pacchetti scelti: 12 (biscotti), 27 (tempesta), 96 (felicità)

Nda: in realtà non sono certa che la nota OOC sia necessaria perché persino dal manga traspare una sorta di desolazione e cambiamento da parte di Vegeta alla fine del Cell Game – momento in cui è ambientata questa One-shot - ma ho preferito specificare, nonostante lo reputo un OOC totalmente giustificato.

Introduzione: “Per la prima volta, Bulma si rese conto di cosa significasse portare una maschera: Vegeta aveva sempre avuto quella del guerriero indistruttibile, imperturbabile e insensibile; una maschera che, negli ultimi anni, forse era stata un po' scostata dalla donna, costringendo Vegeta a rivelare un po' di se stesso, ma che in quel momento era caduta completamente, persa chissà dove, lasciando il Saiyan senza alcuna protezione, con i suoi segreti, i suoi dolori e le sue paure scritte negli occhi scuri. E Bulma era un'ottima lettrice.

«Parla con me» aggiunse la donna in un sussurro dopo infiniti attimi di silenzio in cui Vegeta aveva stretto e riaperto i pugni decine di volte, sbattuto le palpebre freneticamente, morso un labbro. E la scienziata, improvvisamente, si rese conto che mai aveva visto il Saiyan fare gesti simili in passato, gesti che segnalavano le sue insicurezze, i suoi timori. Bulma rabbrividì: quell'uomo non era che l'ombra di Vegeta, l'orgoglioso principe dei Saiyan.”



 

Al sapore di pioggia, sole e cioccolato



Una sera di fine settembre, di ritorno da una conferenza a cui Bulma aveva partecipato l'intero pomeriggio, la pioggia non era ancora cessata; anzi, se possibile pareva essere aumentata ulteriormente. Guidare era una vera e propria impresa, ed era costretta ad andare estremamente lenta per evitare di non vedere in tempo qualche ostacolo che l'avrebbe fatta ammazzare. E siccome aveva un figlio a casa ad aspettarla, non era il caso di correre sciocchi rischi.

Era stata un'altra lunghissima e pesante giornata di lavoro; la donna aveva passato l'intera mattinata segregata in laboratorio con suo padre e tutto il pomeriggio chiusa in una sala piena di altri scienziati e inventori e uomini d'affari che non facevano che farle domande sui suoi nuovi progetti, domande a cui Bulma aveva risposto in maniera estremamente vaga e disinteressata. Non aveva avuto alcuna voglia di stare lontana da suo figlio tutto il giorno, avrebbe di gran lunga preferito starsene sul divano del suo salotto con il piccolo Trunks in braccio a insegnargli qualche parola, piuttosto che scambiare noiose chiacchiere con uomini e donne che non conoscevano il significato dell'espressione “avere una vita all'infuori del lavoro”. L'unica ragione per cui non si prendeva ancora qualche mese di maternità era che, nonostante la voglia tremenda di stare col suo bambino, sapeva che se fosse rimasta in casa tutto il giorno a fare nulla avrebbe costantemente pensato, ed era l'ultima cosa che voleva succedesse.

Non voleva pensare alla dipartita di Goku, né voleva domandarsi se il Trunks del futuro fosse riuscito a sconfiggere i cyborg o se fosse perito anche lui. Non voleva pensare all'immenso dolore che provava, al vuoto che sentiva dentro, alla sensazione di inadeguatezza e confusione che l'assaliva all'improvviso.

E non voleva pensare a Vegeta.

Se n'era andato, doveva farsene una ragione; e non sarebbe più tornato. Punto.

Le mancava, oh, quanto le mancava, non poteva negarlo e soprattutto non voleva, perché sarebbe stato come negare il suo amore per lui e l'amore per il figlio che lui le aveva donato; ma non poteva continuare a rimuginare, a chiedersi dove fosse, cosa stesse facendo, come stesse. Sapeva che era sulla Terra, poiché la navicella che suo padre aveva costruito era ancora nella sua capsula, e questo era già un gran sollievo, perché in cuor suo le dava la folle sensazione e la piccola speranza che lui non volesse andare via da quel pianeta. Era consapevole che questa fosse solo un'illusione che avrebbe potuto farle molto male se si fosse rivelata errata, ma non era ancora pronta per lasciarsi tutto alle spalle, non voleva ancora lasciarlo andare; voleva ancora sperare che sarebbe tornato, prima o poi. Ci avrebbero pensato la vita e il destino a farla andare avanti, perché nessuno dei due aveva intenzione di fermarsi per lei, per dare il tempo a Vegeta di tornare; forse, se mai lo avesse fatto, l'avrebbe trovata felice, magari con un altro uomo che era stato in grado di farle dimenticare – o per lo meno accantonare – quell'amore impossibile che gravava sul suo cuore. Forse il destino avrebbe scelto il momento giusto per farli incontrare di nuovo, quando entrambi si sarebbero sentiti liberi da un legame che, al momento, per quanto fragile e sottile, ancora li univa.

Bulma non voleva porsi domande, non voleva spendere tutte le sue energie a chiedersi qualcosa di cui non sapeva la risposta; ci avrebbe pensato la vita a risponderle, quando sarebbe stato il momento opportuno.

E quando si rese conto che, quel momento, fosse molto più vicino di quanto avrebbe mai immaginato, la donna premette con uno scatto il pedale del freno, facendo inchiodare l'auto e rischiando di fracassarsi il cranio sul volante, se non fosse stato per la cintura di sicurezza che, fortunatamente, le era stato insegnato ad agganciare sempre.

La donna slacciò in fretta la cinghia e si allungò verso il finestrino del passeggero per passarci una mano sopra e dissolvere la patina umida che le copriva la visuale. Socchiudendo gli occhi, Bulma scrutò attentamente fuori dall'auto: era ancora piuttosto lontana da casa, ma quella strada la conosceva bene perché la percorreva ogni giorno per andare al lavoro in ufficio, e sapeva bene che il parco che costeggiava la carreggiata non era di certo un bel posto. Capitava spesso, camminandoci in mezzo, di trovarsi tra i piedi qualche siringa, qualche scatola di pillole di chissà che tipo e altre cose che di certo non erano niente di salutare, di pulito, o di sicuro. Sulle panchine di legno ormai vecchio e rovinato erano soliti dormire individui di dubbio gusto, senzatetto e malviventi che non avevano altro posto dove andare, e vederci lui, lì, fece balbettare il cuore alla donna.

Era seduto su una panchina che dava le spalle alla strada, ma la sua capigliatura inconfondibile aveva catturato lo sguardo della donna anche in mezzo ai goccioloni di quella tempesta senza precedenti che infuriava fuori dall'auto.

Bulma si morse un labbro, paralizzata, con la macchina ferma in mezzo alla strada fortunatamente deserta; si era spostata sul sedile del passeggero per veder meglio il parco e aveva poggiato una mano sul vetro freddo e umido, con il viso tanto vicino ad esso che il naso sottile quasi lo sfiorava.

Il suo cuore perse un altro battito.

Erano passate quasi tre settimane dalla fine del Cell Game, e di conseguenza erano quasi tre settimane che non lo vedeva, e il fatto che in quel momento fosse lì, a pochi metri di distanza, fece intoppare il suo organo vitale ancora una volta, facendogli fare capriole da ginnasta olimpionico, salti da tuffatore professionista, e batteva così veloce da poter partecipare a una maratona e vincere con grande scarto.

Ma era forse possibile che quelli fossero i piani del destino? Davvero era già arrivato il momento di conoscere quella risposta, di sapere se Vegeta sarebbe mai tornato a vivere a casa sua? Dopo così poco tempo – che per il suo dolore erano parsi millenni – poteva già sapere se avrebbe sofferto in eterno la perdita dell'uomo che amava o se, in qualche modo, potevano rimediare?

Forse sì, era già giunto il momento.

E per non rischiare di farselo scappare, Bulma disattivò con mani febbrili la sicura dell'auto e aprì con impeto la portiera del passeggero, rischiando di romperla e di cadere a terra lei stessa; infischiandosene della macchina in mezzo alla strada, la donna sollevò il cappuccio dell'impermeabile nero che indossava e si diresse a passi svelti verso il parco, senza neppure preoccuparsi di saltare le grosse pozzanghere che costellavano la strada, infradiciando gli alti stivali di pelle nera nei quali portava i blue-jeans.

Raggiunse in fretta il marciapiede e con pochi passi si addentrò nel parco, dove la pioggia cadeva più lenta e leggera, filtrata dalla coltre di alberi ancora in fiore che lo coprivano interamente.

«Vegeta» mormorò quando fu a pochi passi della panchina, ancora alle spalle del Saiyan; Vegeta non mosse un muscolo, ma Bulma era certa che l'avesse sentita, anzi, probabilmente era al corrente della sua presenza da molto prima che scendesse dall'auto. Con gambe tremanti, la donna mosse ancora qualche passo per portarsi al fianco della panchina; il cuore che batteva all'impazzata, tanto forte che le pareva di udirlo nonostante il martellare incessante della pioggia.

«Vegeta» disse di nuovo quando gli fu accanto.

«Cosa ti è successo? Sei fradicio, sporco... e sei ferito!» constatò preoccupata, a voce fin troppo alta, dal momento che il suono della tempesta, lì dove si trovavano, era notevolmente attutito. Con le mani si tirò più avanti il cappuccio per riparare il viso dagli sferzi freddi del vento, facendo un ulteriore passo verso il Saiyan.

«Va' via» disse all'improvviso Vegeta, senza neppure alzare lo sguardo sulla donna.

L'uomo se ne stava seduto sulla panchina bagnata con i talloni puntati su di essa, le ginocchia alzate e gli avambracci appoggiati sulle gambe, il capo chino a fissare le proprie mani coperte dai guanti sporchi e strappati, sicuramente gli stessi con cui aveva lottato contro Cell.

Ma Bulma non se ne andò, perché quello di Vegeta, sebbene le sue intenzioni fossero quelle di darle un ordine, non era affatto una direttiva impartita dall'orgoglioso principe dei Saiyan; con stupore e sconvolgimento, Bulma si accorse che quella di Vegeta era una supplica. Il suo cuore balbettò di nuovo: cosa gli era successo?

«Ma cosa ci fai qui?» chiese con tono più basso la donna, ma più allarmato; c'era sicuramente qualcosa che non andava, perché l'uomo che le stava di fronte non poteva essere Vegeta, non poteva essere lo spietato guerriero che avevano conosciuto gli abitanti della Terra. E anche se, come Bulma sapeva, Vegeta non era più quel Saiyan freddo e malvagio da molto tempo, quell'uomo non poteva essere neanche il Saiyan con cui aveva condiviso la casa, il letto e gli ultimi tre anni della sua vita: anche durante quel periodo Vegeta si era dimostrato forte, fiero, orgoglioso, nonostante avesse smesso di andarsene in giro ad ammazzare innocenti. Ma quell'uomo - quello seduto su quella panchina quella sera, sotto la pioggia fredda - non aveva niente a che fare con il Vegeta che Bulma conosceva: quell'uomo era uno straccio.

«Tsk, che differenza fa? Un posto vale l'altro» rispose con un ghigno il Saiyan, scrollando debolmente le spalle e alzando per un istante la testa per osservare la donna, puntando immediatamente lo sguardo da un'altra parte. Ma anche quel ghigno che le aveva rivolto non era più lo stesso, Bulma se ne accorse: non c'era reale superbia in quello sguardo, non c'era la sua tipica superiorità o la consapevolezza di aver ragione; quel ghigno non era che l'ombra dell'espressione battagliera di un guerriero che, al momento, non era altro che un uomo solo e triste.

E quelle parole furono come uno schiaffo sul viso di Bulma, come un libro lanciatole addosso: una realtà schiacciante e terribilmente spaventosa le si formò davanti agli occhi, come una sagoma informe nella nebbia che, pian piano, assume contorni più definiti e comprensibili.

«Tu non hai un posto dove andare» realizzò all'improvviso, mormorando ad alta voce quei pensieri che non l'avevano mai colta prima in quelle tre settimane. Che sciocca, come aveva potuto non pensarci? Era ovvio che Vegeta non avesse un posto dove andare! Aveva alloggiato a casa sua prima dell'arrivo dei cyborg, e se da lei non viveva più, come aveva potuto pensare che si fosse trovato un'altra casa?

«Non ha importanza» replicò Vegeta con un'altra alzata di spalle, distogliendola dalle proprie elucubrazioni mentali.

«Non è l'unica cosa che non ho» aggiunse poi in un sussurro che, forse, sperava non venisse udito da Bulma.

Ma la donna lo aveva colto chiaramente, e la sua curiosità, la sua apprensione e la sua preoccupazione non persero tempo, mettendo immediatamente in moto la sua lingua.

«Cosa vuoi dire?» chiese infatti, inclinando un poco la testa di lato e avvicinandosi ulteriormente all'uomo.

Vegeta sospirò, stranamente tranquillo. Era decisamente inusuale vederlo così mansueto. Bulma sapeva bene che in altri tempi l'avrebbe minacciata di morte per la sua invadenza o come minimo si sarebbe alzato e l'avrebbe lasciata lì da sola; quella sera, invece, Vegeta si limitò a sospirare. Perché quella sera, Vegeta sembrava afflitto, devastato, impotente, persino, e forse lo era davvero. In quell'attimo in cui i loro occhi si erano incrociati, Bulma era sprofondata nel nero delle sue iridi, affondando in lui, nei suoi pensieri e nelle sue emozioni come mai le era successo. Quella sera non c'erano muri né barriere tra il Saiyan e il mondo, nessun confine invalicabile tra ciò che provava e ciò che lo circondava; era tutto il bella vista, il suo dolore, la sua disperazione, la sua desolazione, come se un uragano più forte e potente persino del principe dei Saiyan avesse abbattuto ogni difesa emotiva dell'uomo.

Bulma non l'aveva mai visto così vulnerabile. Probabilmente nessuno l'aveva mai visto così vulnerabile.

«Vegeta?» chiamò dolcemente la donna, sperando di farlo voltare.

«Parlami, ti prego» lo spronò, sedendosi accanto a lui sulla panchina, senza tuttavia accostarsi troppo per non sfiorarlo. Bulma attese in silenzio, sperando con tutta se stessa che il Saiyan le desse retta, che parlasse: senza barriere a separarli, la donna vedeva chiaramente il caos che si agitava in lui, e temeva che potesse esplodere da un momento all'altro portandolo a radere al suolo la città, o – e il che per lei era anche peggio – ad autodistruggersi.

Per la prima volta, Bulma si rese conto di cosa significasse portare una maschera: Vegeta aveva sempre avuto quella del guerriero indistruttibile, imperturbabile e insensibile; una maschera che, negli ultimi anni, forse era stata un po' scostata dalla donna, costringendo Vegeta a rivelare un po' di se stesso, ma che in quel momento era caduta completamente, persa chissà dove, lasciando il Saiyan senza alcuna protezione, con i suoi segreti, i suoi dolori e le sue paure scritte negli occhi scuri. E Bulma era un'ottima lettrice.

«Parla con me» aggiunse la donna in un sussurro dopo infiniti attimi di silenzio in cui Vegeta aveva stretto e riaperto i pugni decine di volte, sbattuto le palpebre freneticamente, morso un labbro. E la scienziata, improvvisamente, si rese conto che mai aveva visto il Saiyan fare gesti simili in passato, gesti che segnalavano le sue insicurezze, i suoi timori. Bulma rabbrividì: quell'uomo non era che l'ombra di Vegeta, l'orgoglioso principe dei Saiyan.

«Non ho più nulla» mormorò d'un tratto l'uomo, riconquistando interamente l'attenzione della donna che, a causa dell'interminabile momento di silenzio, aveva ormai perso le speranze.

«Sono il principe di un popolo che non esiste più» continuò il Saiyan, guardandola un istante con la coda dell'occhio, ma timoroso di fissarla apertamente «un guerriero senza più nemici, un combattente senza più rivali» aggiunse Vegeta, tentando disperatamente di mantenere un tono di voce duro e stabile, come quello a cui Bulma si era abituata.

«Non ho più uno scopo, o un obiettivo» concluse dopo altro silenzio, chinando nuovamente il capo, altro gesto che il principe dei Saiyan non aveva mai fatto.

«Questo non è vero» replicò subito Bulma, con voce decisa.

«Sì, invece» la contraddisse Vegeta.

«Ora che Kakaroth se n'è andato per sempre, non ho più nulla per cui allenarmi» confessò alla fine il principe, fissando un punto indefinito nel parco buio.

«Sei l'essere più forte dell'universo. Pensavo fosse quello che volevi» gli ricordò Bulma, nella speranza di tirarlo su di morale, di aiutarlo; non poteva immaginare che persino Vegeta soffrisse per la dipartita del grande eroe Son Goku.

Vegeta parve pensarci e rifletterci un istante, mentre il rumore martellante della pioggia sulla strada riempiva loro i timpani.

«Non così» affermò infine l'uomo «non ho mai sconfitto il mio rivale più potente: lui se n'è semplicemente andato» concluse, asciugando con fare disinteressato una goccia di acqua piovana atterrata proprio sulla sua fronte.

Bulma sospirò. Effettivamente Vegeta aveva ragione, quella non poteva considerarsi una vera vittoria: il rivale non era stato realmente battuto, e un fiero Saiyan qual'era Vegeta non si sarebbe mai sentito soddisfatto per la conquista del titolo di guerriero più forte dell'universo senza aver lottato per ottenerlo.

Di nuovo il silenzio calò su di loro, riempito solo dal ticchettio della pioggia che, nonostante fossero sotto gli alberi, continuava a gocciolare su di loro.

Bulma pensò di nuovo al gioco del destino: le stava offrendo una opportunità per riprendersi l'uomo che amava, il padre di suo figlio? Le stava forse dicendo di approfittare dello stato d'animo di Vegeta in quel momento per spingerlo di nuovo oltre la soglia di casa sua, salvando il suo amore e lui stesso dalla propria disperazione? Forse, a un osservatore esterno, sarebbe sembrata, da parte di Bulma, una maniera subdola di riprendersi l'uomo, ma lei sapeva che ci avrebbero guadagnato entrambi; di questo era sicura. Ma poteva davvero essere così semplice?

Forse sì, forse no; in ogni caso, se davvero “tentare non nuoce”, valeva la pena di provarci, pensò Bulma.

«Perché non provi a... a cambiare vita?» chiese quindi la donna, senza guardare il Saiyan.

Vegeta ridacchiò; una risata talmente priva di allegria, talmente tetra e vuota che Bulma sentì i proprio occhi inumidirsi di lacrime: quell'uomo era stato svuotato dall'interno, e questa consapevolezza la stava facendo a pezzi.

«Tsk, e fare cosa? Vivere come voi terrestri? Festeggiare il Natale e i compleanni?» replicò Vegeta dopo aver scosso la testa e guardato un momento Bulma in viso.

«Non la sentirò mai come la mia vita, sarebbe solo una prigione» disse senza peli sulla lingua, facendole intendere che non voleva tornare a vivere con lei.

Bulma si sentì offesa e, indispettita, incrociò le braccia sul petto, sull'impermeabile fradicio.

«Tempo fa non mi pareva ti dispiacessero così tanto gli agi della vita da terrestri» bofonchiò arrabbiata, fissando stizzita il profilo affilato del Saiyan. Dopo quell'affermazione, Bulma fu certa di aver visto la sua mascella irrigidirsi e il suo petto massiccio sussultare leggermente, come colpito sul vivo. Di nuovo, Vegeta si morse piano un labbro.

Bulma sospirò ancora una volta, sentendosi quasi in colpa per esser stata tanto dura con lui in un momento in cui era evidente che persino il vento avrebbe potuto spezzarlo; forse aveva ragione lei, Vegeta non aveva disprezzato quei tre anni sulla Terra, ma una vita intera su quel pianeta, con lei e suo figlio, probabilmente non faceva per lui. Una fantomatica lama incandescente le trafisse il cuore mentre quella consapevolezza si faceva spazio in lei, ma la ignorò.

«Perché, Vegeta?» chiese allora la donna, sentendo il proprio petto scosso da piccoli singulti che preannunciavano un pianto che Bulma non avrebbe mai rivelato; non in quel momento, non davanti a lui.

«Perché non vuoi avere legami, perché non vuoi avere affetti?»

«Perché rendono deboli»

Silenzio. Un lunghissimo minuto di silenzio, poi toccò a Bulma aprirsi in una risata derisoria e priva di allegria.

«Ah sì? E chi è che ti ha insegnato questo? Un re il cui popolo è stato sterminato! Un padre che ha venduto suo figlio!» disse con voce isterica e fremente, arrabbiata; non poteva sopportare che Vegeta definisse debolezza ciò che c'era stato tra loro, e questo l'aveva fatta parlare senza prima filtrare i propri pensieri, gettandoli fuori prima di censurarne alcune parti.

«Tu non sai niente di mio padre» ringhiò Vegeta, stringendo ancora una volta i pugni e guardandola di sottecchi, con le pupille che tremavano.

«So che ha ceduto suo figlio a un mercenario nella speranza di farselo amico, e tanto mi basta per giudicare un uomo» disse ancora Bulma, di nuovo senza chiedersi se fosse il caso di parlare in quel modo con Vegeta, se fosse giusto ricordargli certi eventi del passato, rivangare dolori mai del tutto sotterrati.

Il Saiyan continuò a fissarla, aggrottando le sopracciglia e assottigliando le labbra. Bulma sostenne il suo sguardo tenendo a bada l'istinto di sopravvivenza che le gridava di scappare a gambe levate perché stavolta l'aveva detta grossa; un lieve timore s'impossessò dello stomaco della donna, ma lei lo ignorò, continuando a scrutare gli occhi tenebrosi di Vegeta. E in quegli stessi occhi che mesi prima avrebbero potuto rivelare solo qual'era la gradazione più scura del nero, la donna lesse chiaramente ogni emozione che attraversò il Saiyan come se le avesse scritte in viso: la rabbia scatenata dai giudizi su suo padre si freddò lentamente, per poi sgretolarsi e lasciare il posto a un vago senso di perdita e disperazione, come se all'improvviso fosse crollato tutto ciò in cui Vegeta aveva sempre creduto. E infine una triste rassegnazione s'impadronì dell'uomo che, con un finto sorriso, voltò il capo e fissò il nulla di fronte a sé.

«Sarà sempre un padre migliore di quanto potrei mai esserlo io» annunciò poi Vegeta, pensieroso.

«Bé, se neanche ci provi...»

La risposta di Bulma arrivò tagliente come una lama affilata, potente e distruttiva come il colpo più forte che Vegeta avesse mai ricevuto in battaglia, facendo sussultare nuovamente il petto muscoloso del Saiyan.

Bulma si morse un labbro e si maledì mentalmente: ricordargli gli errori del passato commessi da lui e da suo padre e accusarlo di codardia perché non voleva neppure tentare di essere il padre di Trunks non erano di certo i metodi più efficaci per riportarlo a casa con lei. La donna scosse il capo, dandosi della stupida.

«Scusa» mormorò, sperando di recuperare la situazione.

«Va' via» ordinò di nuovo Vegeta, ruotando il capo nella direzione opposta a Bulma. Ma la donna, di nuovo, capì che quello non era affatto un ordine, ma una preghiera, perché era certa, mentre il Saiyan si voltava, di aver visto le sue palpebre tremare impercettibilmente, e qualcosa nei suoi occhi luccicare. Vegeta non voleva che lei lo vedesse piangere, e la stava pregando di andarsene.

«Come vuoi» disse la donna alzandosi in piedi, ma rimanendo ferma accanto alla panchina. Non avrebbe mai voluto lasciarlo lì, solo, triste e senza un posto dove andare, ma ancor meno voleva costringerlo con la sua presenza, e se Vegeta voleva stare solo, lei non glielo avrebbe impedito.

«Ma sappi che la mia porta sarà sempre aperta per te» aggiunse dopo qualche istante, osservando con una dolce speranza nello sguardo il profilo austero del Saiyan. Era vero, la sua porta sarebbe stata sempre aperta per lui, e non solo quella della Capsule Corporation, ma anche quella del suo cuore. Quando - o se - Vegeta avesse mai voluto un posto caldo, amorevole e confortante in cui vivere, lei l'avrebbe fatto entrare ancora una volta, lasciando che si adagiasse nella sua anima come più preferiva; e l'avrebbe stretto a lei senza però incatenarlo, perché lo amava troppo per ingabbiarlo in una vita che poteva stargli stretta e da cui sarebbe potuto scappare all'improvviso. Lei non glielo avrebbe impedito; avrebbe patito le pene dell'Inferno, probabilmente, ma mai avrebbe potuto costringerlo a fare qualcosa che non voleva o a stare dove non gli piaceva. E non avrebbe mai potuto non per una questione di potenza e forza fisica, non aveva nulla a che fare con questo: non poteva perché lo amava più di quanto amasse se stessa, e per questo non lo avrebbe mai reso schiavo del suo egoismo. Sapeva anche che Vegeta non avrebbe mai fatto qualcosa del genere per lei, era uno dei suoi mille difetti; ma Bulma lo amava davvero, difetti compresi.

Sospirò, e senza pensare – poiché sapeva che la ragione l'avrebbe fermata – alzò un braccio e, con due dita, sfiorò delicatamente la guancia fredda e bagnata dell'uomo. Vegeta scostò debolmente il viso, di qualche centimetro, e Bulma sorrise: a chiunque sarebbe sembrato sciocco che sorridesse per il fatto che il Saiyan avesse eluso il contatto, ma non per lei. Perché Bulma lo conosceva meglio di chiunque altro, e sapeva che, se davvero fosse stato infastidito dal suo tocco, Vegeta avrebbe scansato la sua mano con la propria e magari le avrebbe anche ringhiato contro di non permettersi mai più di toccarlo. Invece era stata una reazione involontaria, la sua, istintiva; non era reale fastidio.

E con ancora quel debole sorriso disegnato sulle labbra, Bulma si incamminò verso la propria auto, sperando ardentemente che, anche se non subito, Vegeta avrebbe preso in considerazione l'idea di tornare.

Di tornare a casa.

 

***

 

Un profumo caldo e dolce stuzzicò il suo olfatto, trascinandolo lentamente fuori dal sonno profondo in cui era caduto non appena aveva poggiato il capo sul cuscino. Quella notte aveva dormito così bene che nessun sogno, e soprattutto nessun incubo, aveva popolato il suo sonno, lasciandolo riposare intensamente, come non gli capitava da prima che arrivassero i cyborg. Le lenzuola morbide e profumate lo avevano avvolto e cullato, e lui si era lasciato trasportare dal tepore di quella stanza che, almeno a se stesso doveva ammetterlo, un po' gli era mancata.

Inspirò profondamente, inarcando un poco la schiena, lasciandosi travolgere da quel profumo che l'aveva ridestato, con gli occhi ancora chiusi, mentre fuori dalla finestra il leggero ticchettio della pioggia faceva da perfetto sottofondo a quell'ennesimo giorno che l'aveva accolto al mondo.

Non era stata una decisione facile, la sua. Gli ci erano voluti giorni interi per convincersi che fosse la cosa giusta da fare, una settimana, o forse un po' di più. Ma era tornato. E non sapeva neppure spiegarsi il perché.

Forse per gli agi di una casa. Possibile, visto che, nonostante gli anni passati nei meno ospitali accampamenti di guerra, non era proprio di suo gradimento vivere per strada, sotto la pioggia, senza sapere quando e cosa avrebbe mangiato, dormendo al freddo dei luoghi desertici che, anni prima, aveva usato per allenarsi. Doveva ammettere che in quella casa non si era trovato poi così male, nel periodo che vi aveva vissuto prima dello scontro con i cyborg. Aveva avuto cibo a volontà, mezzi per allenarsi talmente sofisticati che l'avevano davvero aiutato a trasformarsi in Super-Saiyan, un caldo e comodo letto in cui riposare, un ampio bagno in cui passare ore sotto l'acqua senza che nessuno gli dicesse alcunché... certo, la compagnia, inizialmente, si era rivelata delle più moleste dell'intero universo, e in seguito, in verità, non era diventata meno fastidiosa, ma, per lo meno da quando aveva iniziato a frequentare più o meno regolarmente il letto di lei, si era fatta di sicuro più piacevole. Tutto sommato, però, doveva ammettere, nella sua testa, che se proprio doveva passare il resto della sua vita sulla Terra, quello era di certo il luogo migliore per farlo.

Con un altro respiro profondo, Vegeta si stese sul fianco, aprendo finalmente gli occhi e scoprendo la fonte di quel profumo che aveva osato strapparlo al suo sonno ristoratore.

Un vassoio di quello che era quasi certo fosse argento era stato poggiato sul comodino accanto al suo letto, e su esso erano stati posati una caraffa riempita di caffè scuro con accanto una tazza e un piatto stracolmo di biscotti che, a giudicare dal sentore che ancora emanavano, dovevano esser stati sfornati da poco. Il suo stomaco si contorse, come se stesse facendo dei salti di gioia alla vista di quel cibo che sapeva perfettamente essere ottimo, perché non poteva negare che, quando si trattava di cucinare, Bulma e sua madre ci sapessero davvero fare.

Vegeta si leccò un labbro, allungando un braccio per prendere uno dei biscotti ancora relativamente caldi. Il Saiyan li aveva riconosciuti immediatamente: dentro c'era qualcosa che aveva il nome di “cioccolato”, un cibo che non aveva mai trovato su nessun altro pianeta, ma che aveva scoperto piacergli molto. E sapeva che anche Bulma l'aveva capito, perché da quando, molti mesi prima, la donna l'aveva visto mangiarne una quantità smisurata, uno dietro l'altro, glieli aveva preparati tutte le mattine.

«Sciocca» mormorò Vegeta scuotendo debolmente la testa e mettendosi l'intero biscotto in bocca, per poi masticarlo piano per gustarlo al meglio.

Quel gesto la diceva lunga sui pensieri della terrestre: lei voleva che lui tornasse in quella casa, lo aveva sempre desiderato, da ancor prima che il Cell Game finisse, da quando lui era sparito dopo aver appreso della sua gravidanza. Ma Bulma sbagliava di grosso se pensava che il fatto che fosse tornato significasse che era lì per lei; poteva pure riprendersi i suoi biscotti se davvero era convinta che con quelli lo avrebbe trascinato di nuovo nel suo letto. Peggio ancora se credeva che fosse lì per fare il padre. Aveva davvero capito male, se era ciò che pensava.

Lui non era lì per lei, né per Trunks. Non era tornato in quella casa perché gli mancassero o perché voleva star loro accanto. Non era tornato per essere il padre del marmocchio dai capelli di quel colore assurdo, né il fidanzato di quella donna insopportabilmente asfissiante e tediosa, dal momento che il solo pensarlo lo faceva rabbrividire di disgusto misto a qualcosa di simile al terrore.

Prese un altro biscotto, e come il primo lo mise in bocca intero. Il gusto dolce del cioccolato gli sfiorò il palato e la lingua, facendogli socchiudere gli occhi, deliziato. Quello sì che gli era mancato.

Ingoiò l'ultimo boccone, poi sospirò.

Fuori dalla finestra, la pioggia aveva preso a cadere più lentamente, affievolendosi sempre più, sin quasi a diventare un dolce sottofondo che avrebbe potuto tranquillamente riportarlo nel mondo dei sogni in men che non si dica.

Vegeta sollevò di poco il busto, puntando i gomiti sul materasso morbido e voltando il capo verso il comodino dal lato opposto del letto; fissò le cifre rosse che brillavano sulla radiosveglia – e una piccola parte di lui si maledì per la precisione con cui il suo cervello ricordava ogni dettaglio di quella camera - constatando che doveva esser stato davvero stanco e stressato per aver dormito sino a quell'ora del pomeriggio.

Il Saiyan si lasciò scappare uno sbadiglio, poi si alzò scostando le lenzuola e si diresse verso il bagno, deciso a fare una veloce doccia fredda per togliersi di dosso quel tepore che l'aveva stordito; si sentiva troppo rilassato, troppo in pace col mondo e con se stesso, troppo... umano, e la cosa non gli piaceva affatto. In realtà, poi, capì che quella sensazione gli piaceva eccome; era la semplice idea si sentirsi in quel modo che non gli andava affatto a genio.

Vegeta afferrò distrattamente un paio di biscotti, poi uscì dalla stanza e si diresse verso il bagno. Stava per entrarvi, quando un suono che pareva provenire dai piani bassi lo distrasse; un risolino cristallino catturò la sua attenzione, uno scampanellio che, in certe occasioni, poteva essere fatalmente fastidioso, ma che il quel momento, Vegeta, con il cuore che pompava sangue caldo e denso, anziché il solito liquido freddo e incolore, trovò semplicemente adorabile. Il Saiyan si beò della risata di Bulma per lunghi minuti, ripetendo nella propria mente che di lì a poco avrebbe sbattuto la porta del bagno, aperto l'acqua gelida e sovrastato quel suono allo stesso modo in cui avrebbe annegato quel senso di quiete che albergava nel suo cuore. Lo avrebbe fatto, ne era certo; giusto qualche altro attimo, poi sarebbe tornato a trovare odiosa quella voce squittente e stridula.

Ma alla risata cristallina di Bulma se ne unì una seconda, non molto diversa da quella della donna; era più scomposta, ma sembrava allegra, semplice e spensierata. Era un suono devastante da quanto era vero, un suono privo di ogni costrizione, ogni pensiero, ogni turbamento. Vegeta tese l'orecchio e affinò l'udito per ascoltarlo meglio, per assaporare quella leggerezza che, un po', sentiva sulla propria pelle, pensando distrattamente che, evidentemente, quella casa dovesse avere il potere sconosciuto di rilassare le persone al suo interno, liberandole da ogni preoccupazione.

La risata si fece più forte, e di conseguenza più allegra.

Trunks.

Una lama incredibilmente tagliente lo trapassò da parte a parte, al centro del petto, mentre la sua vista veniva offuscata dalla confusa immagine di un corpo a terra, sanguinante e privo di vita: il corpo di suo figlio, ucciso dal mostro verde. Nei suoi ricordi i lamenti del giovane erano forti, così come la rabbia cieca che l'aveva investito un istante dopo la realizzazione di quanto accaduto; un folle istinto omicida si era risvegliato, alimentato da un dolore mai provato prima, mentre il sangue – il suo, il loro – scorreva rapido fuori dalle vene di Trunks, portandosi via ogni soffio di vita.

Vegeta deglutì, stringendo un pugno; la risata di Trunks si affievolì mentre alcune parole lontane prendevano il suo posto, poi si fece di nuovo chiara, tanto forte da sovrastare quella delicata della madre. Quel suono si insinuò rapidamente nella sua mente, districando svelto il groviglio di pensieri che aveva occupato il suo cranio nelle ultime settimane, con tanta semplicità da disarmare; la risata infantile e spensierata di Trunks catturò i suoi sensi, tutti quanti, legandolo indissolubilmente al centro esatto di quel pianeta che tanto detestava, costringendolo – con dolcezza tanto intensa da essere ustionante – a non andarsene mai più da lì.

E senza avere idea di come ci fosse arrivato, Vegeta si ritrovò molto lontano dal bagno nel quale aveva intenzione di liberarsi da quelle umane sensazioni così estranee alla sua persona; le sue gambe robuste scendevano le scale che portavano al salone senza che il suo cervello glielo comandasse, come guidate dagli stessi muscoli, mentre le dita scivolavano lente e silenziose sul corrimano in ferro battuto. Il suo sguardo era perso nel vuoto, e tutta la sua persona calamitata da quella risata, quel suono così potente da destabilizzare la sua tempra Saiyan, portandolo dove, in cuor suo, Vegeta avrebbe voluto essere, alla fonte di quel suono: al fianco di suo figlio.

E mentre una piccola parte – anzi, piccolissima – del suo cervello si domandava perché si trovasse lì, Vegeta si sporse da dietro il muro che separava il corridoio dalla sala; le pupille nere rotearono per la stanza velocemente, finché non scorsero gli individui a cui appartenevano quelle due voci che l'avevano assuefatto e catturato senza alcun preavviso.

Bulma era seduta a terra di fronte al divano - dando le spalle alla postazione del Saiyan - sulla spessa moquette beige, a gambe incrociate, con fogli, penne, post-it e altri oggetti, di cui Vegeta ignorava il nome, a circondarla; seduto sul sofà, tanto piccolo da sembrare una semplice margherita in un'immensa radura, Trunks dondolava lentamente, non perfettamente capace di star seduto a schiena eretta, con in mano un giocattolo colorato.

Madre e figlio si guardavano e ridevano spensierati, e solo il cielo sapeva per quale motivo lo facessero; sembrava fossero condizionati da un riflesso involontario, come se ogni volta che uno dei due scoppiava a ridere, l'altro non potesse far altro che imitarlo.

Vegeta trattenne il respiro per un lungo istante; non lo avrebbe mai ammesso a voce alta, ma erano davvero belli, insieme. Era bello guardarli ridere e giocare; era bello sentirli felici, e sani e salvi.

Sciocco.

Quell'aggettivo, che solo una mezzora prima aveva attribuito alla terrestre, in quel momento gli sembrò la sola parola che fosse in grado di descrivere il proprio comportamento. Per settimane non aveva fatto altro che prendersi in giro da solo, convincendosi che, se davvero avesse preso in considerazione l'idea di tornare in quella casa, non sarebbe stato per loro, perché di loro non gli importava assolutamente nulla.

Quante bugie.

La verità era molto più semplice; la morte di Trunks del futuro l'aveva scosso profondamente, cambiato e anche spaventato, tanto che il solo pensiero che il suo figlio neonato potesse correre un simile pericolo gli aveva fatto ribollire il sangue nelle vene dalla rabbia, dalla paura e dai sensi di colpa. Vedere il proprio figlio, la carne della sua carne, il suo erede – per quanto contaminato – steso a terra in fin di vita l'aveva destabilizzato più del più potente colpo che avesse mai ricevuto in battaglia, scombussolando le priorità che da sempre vivevano in lui, mettendo al primo posto la vendetta del giovane Trunks e la sicurezza del neonato e di Bulma.

Ed ecco che si spiegava il perché di quelle intere serate, nelle settimane successive al termine del Cell Game, passate sul tetto di quell'abitazione, ad ascoltare le auree, i respiri e i battiti cardiaci di quei due individui in quel salone.

Vegeta era tornato in quella casa proprio per loro due; per Bulma e Trunks.

Certo, era anche vero che un vago senso di smarrimento permeava le sue membra al pensiero di non aver più alcun motivo per combattere, alcun rivale o nemico, ma gli spigoli taglienti di questo sentimento nettamente sgradevole erano piacevolmente smussati dal senso di pace che lo invadeva mentre fissava quei due a pochi metri di distanza da lui.

E questa sua riflessione, vagamente amara da accettare, fu prontamente confermata dallo sguardo limpido di Trunks che, improvvisamente, puntò i propri occhi in quelli neri del Saiyan, sorpassando la figura di sua madre: due squarci di cielo, identici a quelli di Bulma, catturarono veloci le tenebre che vivevano nello sguardo di Vegeta, insinuandosi nel loro spessore e diradando lentamente le nubi scure nell'anima del Saiyan, portando un po' di luce e calore in quel suo cuore di ghiaccio; per un tempo indeterminato i loro sguardi intrecciati non furono in grado di guardare altro, persi l'uno nei meandri dell'anima dell'altra, impegnati a scrutarsi, a scoprirsi, a conoscersi.

Poi Trunks sorrise di nuovo, allungandosi in direzione del padre con le braccia protese in avanti, e il cuore di Vegeta perse un battito, per poi iniziare a galoppare senza sosta, quasi volesse ultimare entro quella sera il numero di battiti a sua disposizione.

Fu un istante, giusto il tempo necessario per rendersi conto che Bulma stava per voltarsi, alla ricerca del movente dell'agitazione del figlio, e Vegeta, quando la donna ruotò il busto verso il punto in cui Trunks aveva visto l'uomo, era già fuori dall'abitazione, appollaiato sul tetto a cupola della Capsule Corporation, il cuore in tumulto, i pensieri più in disordine che mai e una certa sensazione di tranquillità e pace a sfiorargli la pelle.

Era una sensazione che il Saiyan non era certo di conoscere al meglio; anzi, era quasi sicuro di averla provata rare volte prima di allora. Ciò che provava Vegeta in quel momento era molto simile a ciò che aveva più volte provato dopo aver consumato una bruciante passione nel letto di Bulma; si sentiva appagato, rilassato e sereno. Ricordava che Bulma aveva più volte detto di essere felice dopo che per ore si erano rotolati nel letto di lei, con le lenzuola attorcigliate ai loro corpi accaldati e scossi da spasimi di piacere.

Un raggio di sole fece capolino da dietro una nuvola ormai sgonfia, andando a colpire proprio il tetto della Capsule Corporation, posandosi delicatamente sulla pelle di Vegeta.

Felice.

Era felicità quella che provava in quel momento? Forse. Non avrebbe saputo dirlo con certezza, giacché, per il principe dei Saiyan, la sola felicità che avesse mai conosciuto era la sensazione di potere che aveva provato su un campo di battaglia ove giacevano solo più i cadaveri dei suoi nemici. Che quella parola avesse un significato più allargato, che potesse estendersi a sensazioni ed emozioni meno guerresche, meno violente, meno... da Saiyan?

Improvvisamente si ricordò dei due biscotti che ancora teneva in mano, così se ne portò uno alla bocca e, anziché ingoiarlo intero com'era solito fare, ne diede un piccolo morso, masticandolo lentamente.

Vegeta non era di certo un esperto in materia di emozioni, perciò non era sicuro che ciò che aveva provato nel sentir ridere suo figlio fosse davvero felicità; per lui era una sensazione non del tutto sgradevole che avrebbe ricordato come il miscuglio improbabilmente piacevole dell'umidità della pioggia, del tepore avvolgente del sole e del delizioso sapore del cioccolato.



 

Fine


 

 

   
 
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