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Autore: Selina    03/06/2008    5 recensioni
Raccolta di tre oneshot horror, completamente scollegate tra loro. AU.
1. The Queer Half
Sora si intrufola nel laboratorio sbagliato e beve l'intruglio sbagliato, e come al solito tocca a Riku mettere insieme i pezzi. [Riku, Sora, Kairi]
2. Goodbye Pisces
Una strana conversazione tra una ragazza scappata di casa e un ragazzo bloccato in mezzo al niente. [Riku, Naminé]
3. Wishmaster
Il solito, vecchio 'stai attento a quel che desideri', ma c'è ancora qualcuno che non ha imparato la lezione. [Axel/Roxas/Naminé]
Genere: Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU, Raccolta | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun gioco
Capitoli:
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Personaggi: Axel, Roxas, Naminé.

Pairing: AxelRoxasNaminé. Accennati RikuSora, SoraKairi, RikuRoxas.

Rating: R. Un po’ di splatter nel finale XD



:: WISHMASTER ::



Era troppo facile, a posteriori, dire che la sua era stata una pessima idea.

Era certa di aver pensato a lungo al metodo migliore, di aver vagliato tutte le possibilità e di averle gettate nell’immondizia una dopo l’altra come fiori appassiti. Aveva preso il roseto rigoglioso del suo futuro e l’aveva spogliato di ogni petalo, ed attraverso la foresta di spine che li separava aveva capito che allungare una mano per toccarlo avrebbe significato soltanto scorticarla fino all’osso. Aveva pensato che sarebbe bastato osservare l’acquerello della loro piccola isola abbastanza a lungo da focalizzare i dettagli per trovare la strada per il suo cuore, ma anche se aveva guardato in ostinata contemplazione per tutti i suoi quattordici anni era riuscita soltanto a restarne accecata.

E forse era per quello che i suoi occhi stanchi non avevano visto quello che in seguito, dal luogo silenzioso in cui era stata trascinata, le sarebbe sembrato chiaro come inchiostro su carta.

Era stato solo un debole lamento ai margini della sua coscienza quello che aveva sentito quando aveva visto la sfera lucida nel negozio di magia, troppo quieto per riuscire a sentirlo.

Aveva acquistato potenza quando la sfera si era schiantata per terra, ed era diventato un ululato rabbioso quando la luce accecante divampata dai pezzi aveva vomitato la cosa più terrificante che avesse mai visto, con le sue babbucce arricciate e gli abiti vaporosi, rossi come ciliegie d’estate.

Ma il richiamo del suo buon senso era salito al punto da diventare inudibile quando quegli occhi vuoti come biglie l’avevano inghiottita, giù, nell’abisso di vetro che incideva la cornea lattiginosa.

Avrebbe dovuto ascoltare la sua voce.

Ma poi la faccia di gesso di quella cosa si era animata come pongo, ed il tempo era stato spezzato in due dallo scalpello aguzzo del suo sorriso. Niente era stato più come prima, dopo l’istante senza dimensione in cui le lame delle sue labbra avevano rivelato una foresta selvaggia di denti appuntiti come vetri rotti.

In fondo, avrebbe dovuto capirlo nel momento in cui le aveva parlato per la prima volta che il fuoco l’avrebbe ingoiata.

«Sono al tuo servizio, padrona

Non pensava che una bocca così tagliente potesse stendere il velluto sul velcro della sua voce.



Aveva sempre trovato qualcosa di disturbante nel concetto di nascita. Era troppo vicino a quello di morte, troppo definitivo, crudo ed abbagliante come il riflesso del sole sull’acqua. A lei piacevano le cose statiche nel tempo, il presente protratto all’infinito sino a sfumare i contorni. Ciò che era che si mescolava con la tinta acquerellata del ciò che avrebbe potuto essere. Un mondo senza definizione in cui lei poteva muoversi come un serpente marino, perché dell’indefinito credeva di conoscere tutte le strade.

Un mondo in cui avrebbe potuto essere qualunque cosa, per poi cancellarla un minuto dopo.

Era quello l’universo che riproduceva nei suoi disegni.

Ma quando la cosa che aveva richiamato indietro sibilò un ordine in una lingua tanto antica da essere stata dimenticata dalla terra stessa, radunando il suo fuoco sulle vecchie piastrelle fiorate di sua nonna, capì di aver trovato un nuovo concetto di definitivo. Sentiva il calore della fiamma scottarle le gambe nude, ma anche se avrebbe voluto soltanto nascondersi dietro il tavolo rimase ferma dov’era, di fronte al fuoco che ruotava veloce. Lo sentiva sibilare, sussultare come una cosa viva, e ad ogni parola che lui cantilenava, sciogliendosi in quella successiva come gli anelli di una catena, si dilatava affamato e cresceva ruggendo.

C’erano le sedie su cui si arrampicava da piccola per arrivare alla credenza, messe da parte come relitti. C’era l’inquietante salvadanaio di suo nonno che somigliava ad una specie di fungo deforme, le conchiglie lisciate fino a risplendere e la cornice che Kairi aveva fatto coi sassi in terza elementare. C’erano i suoi disegni appesi ai muri, caotiche macchie di colore senza forma che la sua mano impacciata aveva tracciato prima ancora di capire perché un adulto avesse interesse a conservarle.

Quella stanza era la sua infanzia. E la fiamma la stava spaccando come una bottiglia di vetro messa sul fuoco. Poteva solo sperare che quando sarebbe esplosa i pezzi non l’avrebbero ferita a morte.

Poi lui latrò a voce alta una singola parola, scandita come una condanna a morte, ed il fuoco si espanse come l’esplosione di una supernova prima di ritirarsi e scomparire. Lei alzò automaticamente una mano per toccarsi le sopracciglia, non troppo sicura di non essersele strinate, ma il gesto morì prima ancora di nascere.

La creatura, seduta sul pavimento completamente nuda, mosse appena la testa. Aveva gli occhi aperti, ma sembravano ciechi, opachi come quelli di un gattino appena nato. Guardavano senza capire. Osservavano senza riconoscere.

Le sembrò terribile che la prima cosa che dovessero vedere fossero gli occhi ardenti di colui che l’aveva creata.

Allungò una mano per raggiungerlo, ma senza toccarlo, come davanti ad un gatto selvatico.

«Vieni qui» gli sussurrò morbidamente, ma la creatura si ritrasse impaurita, diffidente, aggrottando le sopracciglia. Erano bionde. Qualcosa era andato per il verso sbagliato, in fondo, e nel realizzarlo con una traccia di soddisfazione si rese conto che non aveva mai creduto che quel folle tentativo potesse riuscire. Ci sarebbe voluto del tempo prima di capire che le cose andate per il verso sbagliato erano così tante che non serviva cercarle nei suoi colori.

Non pensò neanche per un attimo che quell’imperfezione minuscola potesse essere voluta.

La creatura cercò di parlare, ma la sua gola non aveva mai formato una parola prima. Gli venne un suono ringhiante, a metà tra un rantolo ed un colpo di tosse, e poi riprovò, e riprovò ancora, fino a dare forma alle parole.

«Chi siete?» sibilò, la voce bassa e roca. «Chi sono

Lei aprì la bocca per rispondere, ma la cosa si mosse per prima.

«Roxas» rispose, semplicemente.

La creatura mosse un po’ la testa, dubbiosa.

«Roxas?»

«È il tuo nome» gli disse l’Efreet, come se stesse scandendo un giudizio inappellabile. «Roxas.»

La creatura lo fissò a lungo, come se il mondo potesse essere riassunto nel suo viso appuntito. Sembrava confuso, in una maniera più morbida, meno ostile, come se la sua voce di velluto l’avesse placato.

«Cosa significa?» Si rannicchiò, come se si fosse reso conto in una maniera primitiva e non del tutto consapevole di essere nudo. «Cosa significa essere Roxas

La risata dell’Efreet risuonò come un ringhio. Lei odiava quella risata. Era come se potesse inghiottire materialmente la sua voce.

«Significa essere il rimpiazzo di qualcosa che non si può avere. Non è vero?» ghignò, guardandola come se sapesse che non gli avrebbe risposto. Probabilmente lo sapeva davvero.

Ma anche lui sembrò sorpreso, quando la creatura dichiarò: «Non mi piace quello che hai detto. Non ripeterlo mai più.»

L’Efreet inclinò un po’ la testa, prima di sorridere come a dichiararsi colpito.

«Come vuoi. Roxas

La creatura rabbrividì, e finalmente, quasi dolorosamente, distolse lo sguardo. Solo allora lei riuscì a vedere i suoi occhi. Erano blu, scuri come il mare di notte, come se stesse ricordando. Lei sapeva che era solo un’impressione. Non c’era niente che un neonato potesse ricordare.

«Credo che dovrei coprirmi con qualcosa» dichiarò alla fine, raggomitolato sul pavimento come un uccellino nell’uovo. Questa volta fu lei a rispondere, precedendo l’Efreet.

«Ti abbiamo preso dei vestiti. Sono di là, ora ti accompagno.» Prese una coperta da sopra il tavolo, rendendosi conto con stupore che non era bruciata, così come il resto della casa. Per la prima volta, realizzò che non c’era neanche una macchia di fuliggine in tutta la cucina.

La creatura la guardò, diffidente, ma non si mosse quando lei gli si avvicinò a passi piccoli e prudenti. Avrebbe mentito se avesse detto che non era spaventata. Ma era tutto così nuovo, tutto così irreale, che era difficile sentirsi in pericolo. Era come uno dei suoi disegni. Le sembrava di trovarsi in un mondo in cui era invincibile.

«Puoi metterti questa, intanto» gli disse a voce bassa, come se stesse parlando ad un animale spaventato, ed inginocchiandosi al suo fianco accennò a mettergliela. La creatura non si ritrasse, anche se la guardava con occhi spalancati, e lei gli circondò le spalle per coprirlo. Era la prima volta che si trovava così vicina a qualcuno che non fosse della sua famiglia.

Era come se la sua pelle chiara avesse un potere intossicante. Il mondo si era concentrato a capocchia di spillo nel desiderio irresistibile di toccarlo.

In fondo, era facile credere di voler solo vedere se era vero.

Ma era troppo da sopportare. Gli mise addosso la coperta e si allontanò di scatto, così velocemente che lui si spaventò ed indietreggiò, e l’Efreet ghignò a voce bassa.

«Vieni» gli disse lei, cercando di mantenere ferma la voce, e quando la creatura riuscì a trovare un equilibrio precario sulle gambe un po’ incerte la seguì in camera dei suoi nonni. Quel pomeriggio aveva comprato dei vestiti da uomo ed aveva passato un’ora a disporli sul letto, come una composizione. Era facile, conoscendo la taglia. Conoscendo troppo di un corpo che non le apparteneva e contemporaneamente non sapendone niente.

Fece entrare la creatura e chiuse la porta alle sue spalle, restando in corridoio. La sentiva borbottare a voce bassa tra sé e sé mentre si vestiva.

Non la sorprese avere l’Efreet a fianco, mentre guardava un pezzo dell’intonaco che si era scrostato senza vederlo. La sorprese averlo sentito arrivare.

«Cosa farai, ora che hai ottenuto quello che volevi?»

Lei sospirò, dichiarando la sconfitta. «Non lo so. Non ci ho pensato.»

Stava aspettando solo la sua risata, quando arrivò.

«Nessuno ci pensa mai.»



Era rimasta immobile a guardare una cosa scheletrica saltare fuori come un pupazzo a molla da una sfera in frantumi. L’aveva osservata scrollarsi di dosso le schegge di vetro come un cane bagnato, sistemarsi con una mano capelli che sembravano aculei e fissarla come se il suo sguardo fosse cera bollente, in grado di sciogliersi sulla sua pelle.

L’aveva saputo nell’istante esatto in cui la cosa l’aveva vista che quello era il momento di scappare. Avrebbe dovuto voltargli le spalle, imboccare la porta e scomparire per sempre.

In fondo sapeva di essere una vigliacca. Lo sapeva dal momento in cui aveva scelto di lasciare Sora a sua sorella senza neanche pensare di portarglielo via. Lo sapeva da quando aveva sei anni, e non era stato troppo presto per rinunciare. Lo sapeva da sempre.

Ma poi il momento passò, e lei era ancora seduta tra i cocci quando quella cosa incredibile si era mossa e si era avvicinata, facendo ondeggiare gli ampi pantaloni scarlatti. I vestiti si muovevano attorno al suo corpo magrissimo come una nuvola.

«C’è un nome con cui posso chiamarti?» gli aveva chiesto soltanto a voce bassissima, come se gridando avrebbe spinto la tigre ad attaccare. Lui aveva agitato una mano, come se non fosse stato importante.

«Ce ne sono stati così tanti che la metà li ho scordati. Ma puoi chiamarmi Axel.»

Lei aveva trattenuto il fiato. Solo dopo un’assurda quantità di tempo era riuscita ad annuire e ad aprire la sua gola all’aria, che all’improvviso sembrava rovente ed asciutta come una tempesta di sabbia.

Le era uscito unicamente un sussurro, quando gli aveva risposto.

«Il mio nome è Naminé.»



Con la bellezza di due persone a carico, per la prima volta nella sua vita era felice che i suoi nonni fossero morti da anni. Era un pensiero orribile, ma lei non aveva avuto il tempo di affezionarsi, e di certo, in quel momento, la casa serviva più a lei che a loro. Non aveva mai pensato di essere egoista fino a quando era riuscita ad avere la possibilità di ottenere quello che voleva.

Aveva sistemato la creatura -Roxas- nel letto, ed aveva scaricato Axel -la cosa- sul divano. Stava cercando di ricordare che il ragazzo biondo aveva un nome, e di dimenticare che anche l’Efreet ne aveva uno.

Se pure Kairi trovava strano non vederla mai a casa, non le aveva chiesto niente. Era solo questione di tempo, comunque. Lo sapeva perfettamente. Quella situazione non poteva durare per sempre, ma come con i suoi acquerelli le sembrava che quel mondo fittizio fosse eterno, fino a quando una goccia d’acqua lo riduceva ad un campo di battaglia di colori sbavati e di contorni in rotta.

Aveva vestito Roxas come una bambola e gli aveva dato una chiave, dicendogli di chiudersi in camera quando dormiva, ed era incredibile come due sconosciuti fossero diventati la sua piccola claustrofobica famiglia in due settimane. Era terrificante il potere dell’abitudine. Andava a scuola ogni giorno, inventava una scusa per sua sorella ed invece di fare la strada con lei tornava da loro, per controllare con estenuante angoscia che il djinn non avesse valicato le barriere che implicitamente gli aveva imposto, per controllare che Axel non si scordasse mai che Roxas era soltanto suo. Lui l’aveva creato, ma era stato il suo desiderio a dargliene il potere.

Roxas era la possibilità che non aveva mai avuto. Non intendeva rinunciare di nuovo. Ma l’Efreet ogni giorno le sorrideva come se il suo tempo stesse per finire, e lei non era sicura di correre nella direzione giusta.

Il loro piccolo esperimento li aveva fatti diventare, in sostanza, tre reclusi. A lei non pesava, perché un animale tenuto in cattività per tutta la vita arriva a non vedere neppure le sbarre della sua prigione, e ad Axel non sembrava importare. Roxas era illeggibile come inchiostro bagnato. Passava la giornata a guardare la TV come se non gli interessasse, totalmente indifferente a qualunque cosa, e quando Naminé gli aveva portato il Nintendo che aveva comprato apposta con i soldi che i suoi genitori le avevano regalato a Natale, Roxas l’aveva accettato con la passiva rassegnazione con cui accettava qualunque cosa. L’iniziale, diffidente curiosità con cui aveva affrontato la sua nuova vita era sfiorita nel giro di pochi giorni, come una piantina lasciata senz’acqua sotto il sole cocente.

Dopo due settimane, Naminé si sentiva inconfondibilmente, intollerabilmente delusa. Non era così che sarebbe dovuta andare. Non era così che lei l’avrebbe disegnato, non era così che l’aveva immaginato. Roxas non la toccava, non le parlava, la guardava a stento. Le sembrava sempre che fosse sul punto di sparire, come nebbia al mattino.

Dopo due settimane, Naminé iniziava a chiedersi se avesse mai saputo davvero quello che voleva.



C’era qualcosa di esotico in lui. Niente che potesse essere rintracciato, non nelle gambe lunghissime né negli zigomi spigolosi. Era solo chiaro che quello non era il mondo a cui apparteneva.

Si era seduto sul suo letto e si era messo a guardarsi attorno, fermandosi con sincero interesse su tutto quello che vedeva. Sembrava particolarmente attratto dai suoi disegni. Il suo cuore messo a nudo.

Lei lo fissava dal pavimento, troppo stordita per pensare di muoversi. Alzarsi, pulire, pensare - erano tutte cose troppo strane, troppo slegate dal contesto. Per il momento le bastava osservare quella cosa che non sarebbe dovuta esistere fare a pezzi il suo cuore, sventrandolo con occhi ardenti dietro cui la fiamma si snodava inquieta, sopita ma non spenta.

Qualunque altra cosa l’avrebbe collocato permanentemente dentro la sua vita. Non era sicura di volerlo e poterlo fare.

Poi lui l’aveva guardata, di nuovo, con un’intensità insopportabile, e le aveva chiesto, toccandosi una tempia con un dito lunghissimo: «C’è qualcosa che desideri?»

In quell’istante, aveva saputo di stare per infilare le dita in una trappola. Ma non le era importato. «Certo. Certo che c’è.»

«Se me lo chiedi, io posso dartelo.»

«Qualunque cosa?»

«Qualunque cosa.»

Ed anche se era certa che ad un uomo spuntato fuori da una sfera in pezzi non fosse saggio dare la propria fiducia, allora gli aveva creduto.



Era stato in un giorno incollocabile che Roxas aveva toccato la cornice di sua sorella.

Lo ricordava bene, perché era una di quelle rarissime volte in cui Axel non c’era. Stava addosso a Roxas come se un solo secondo senza di lui avesse potuto uccidere la sua fragile forma, ma col tempo Naminé aveva capito che non era quello che davvero temeva. Axel aveva duemila anni. Era la cosa più imprevedibile ed al tempo stesso più statica che avesse mai visto, ma Roxas no.

Roxas poteva cambiare. E questo lo terrorizzava.

Così Naminé raccoglieva tutti i pezzetti di tempo che Axel le concedeva, nel disperato tentativo di ridurre la distanza. Sgusciava sotto le sue mani avide come il topolino che era, li strappava coi denti e li custodiva gelosamente, senza il minimo desiderio di realizzare che il suo cumulo di tesori era solo paccottiglia.

Quel giorno Axel stava facendo una doccia. Gli piaceva l’acqua, in una maniera del tutto incomprensibile per un Efreet. Naminé aveva pensato con rassegnazione che non ci fosse niente in grado di ferirlo.

Roxas era davanti alla TV, come sempre. Aveva lasciato il Nintendo sul tavolo e stava guardando un telefilm che lei non conosceva. Poi, senza nessun motivo apparente, si sbilanciò all’indietro e prese la cornice di Kairi. Premette le dita sui ciottoli levigati che sua sorella aveva appiccicato sul legno, e fu solo con la punta che sfiorò il vetro. Poi la girò e gliela sbatté in faccia.

«Cos’è?» le domandò, la voce secca come un ramo spezzato.

Lei sbatté le palpebre, perplessa.

«La cornice di mia sorella.»

Roxas scosse la testa. «No, dentro. Cos’è?»

Naminé guardò i suoi nonni che si baciavano, oltre il vetro un po’ sporco su cui si vedevano i segni delle ditate. Sua nonna non l’avrebbe mai permesso. Da quel poco che ricordava, aveva sempre avuto un’ossessione maniacale per la pulizia.

«Oh.» Lei aveva sempre odiato quella fotografia. Le dava una sensazione di intimità forzatamente condivisa, di cui lei non voleva far parte. «Si stanno baciando.»

Roxas annuì. «L’ho visto in TV. Perché lo fanno?»

Era assurdo che lo chiedesse proprio a lei. «Perché si vogliono bene.»

«È questo che non capisco.» Aveva la fronte aggrottata, mentre la osservava come se si stesse sforzando di capire un concetto alieno. «È una conseguenza implicita? Un simbolo? È un bisogno o una dimostrazione?»

Era stranissimo. Si sentiva come se Roxas avesse fatto la domanda che lei non era mai riuscita a trasformare in concetto, la concretizzazione del fastidio che le dava quella singola, stupida immagine, usata come sintesi di una vita intera.

«Non lo so.»

Roxas guardò per un attimo la fotografia, poi toccò di nuovo uno dei ciottoli di sua sorella. Non sembrava soddisfatto. Sembrava frustrato.

«È importante per te?»

«Non lo so. Credo di sì.»

Lui la guardò per un attimo lunghissimo. Poi strappò un sasso e lo lasciò cadere. Il suono secco del ciottolo che colpiva il pavimento fu quasi doloroso.

«Ora lo sai?»

Naminé fissò la cornice monca. Non le era mai importato niente di quella cornice, ma ora che la vedeva rotta, il fatto che fosse una sua responsabilità solo indirettamente non la faceva sentire meno colpevole. Era come se ad essere fatto a pezzi fosse qualcosa di importante. Qualcosa che anche se aggiustato, non sarebbe più tornato come prima.

Gli occhi blu di Roxas la fissavano impazienti, come se dalla sua risposta dipendessero cose essenziali che lei non riusciva a capire.

«Sì. Sì, ora lo so.» Sospirò. «Ci tengo a quella cornice.»

Roxas la fissò per un po’, in silenzio. Poi rimise a posto la fotografia.

Il giorno dopo, alla cornice mancava un altro sasso.



I vestiti erano stati il primo problema. Non era stato accettare, reagire, credere. Quello era implicito nel momento stesso in cui aveva chiesto il suo nome. Era successo quando aveva visto i suoi occhi per la prima volta. Ma farlo uscire, interagire con le altre persone normali, era stato un ostacolo da affrontare.

Lui aveva accettato ogni sua richiesta con una specie di placido, divertito interesse, come se assecondandola avesse potuto continuare a vederla correre sulla ruota. Si sentiva osservata, e studiata, e vista per la prima volta nella sua vita. Aveva sempre creduto che sarebbe stata un’esperienza fastidiosa. Non aveva mai pensato che sarebbe stata spaventosa.

I primi abiti erano stati un gentile ed involontario prestito di suo padre. Lui aveva fatto uno dei suoi stranissimi sogghigni nel vederli, ma non aveva detto niente. Lei aveva avuto l’impressione che mettersi gli abiti di una piccola ape operaia, incasellata perfettamente nella placida vita dell’isola, per quella cosa fosse l’equivalente di una festa mascherata. Si stava travestendo, e lo faceva con lo stesso spirito curioso e divertito di un bambino a Carnevale. Voleva vedere cosa sarebbe successo. Quanto buffo sarebbe stato il risultato, quanto strano, quanto totalmente incompatibile, come il sale su una torta.

Lei non lo aveva trovato buffo. L’aveva trovato osceno.

Aveva tirato un sospiro di sollievo quando in un negozio in centro Axel aveva trovato cappotto, guanti, stivali e pantaloni di pelle. Era stata persino contenta di pagare per lui. E non importava se vestito così attirava ancora di più l’attenzione, perché in fondo non c’era mantello che potesse renderlo invisibile, non c’era travestimento che potesse nascondere che era troppo alto e troppo magro, troppo feroce e troppo poco umano.

Axel era semplicemente troppo. E nessuno dei vestiti di suo padre poteva attenuare il rosso sgargiante dei suoi capelli.

A lui non sembrava pesare. Era evidente che si divertiva ad attirare gli sguardi, ad agganciare gli occhi innocenti delle creature vive che lo circondavano come se dovesse rubargli l’anima. E Naminé non era troppo sicura che non lo facesse davvero.

Tre giorni dopo che Axel si era catapultato nella sua vita, impossessandosi della casa dei suoi nonni, Naminé l’aveva portato al parco vicino a casa sua.

Sapeva che era una mossa stupida. Potevano incontrare Kairi, e lei avrebbe di certo notato uno sconosciuto alto due metri e ad occhio e croce di almeno venticinque anni insieme a sua sorella. E di certo portare un lampione coi capelli rossi in un posto in cui il cliente abituale più alto non arrivava al metro e cinquanta non lo faceva di certo passare più inosservato.

Ma Axel era sempre appariscente, sempre fuori luogo ovunque lo portasse. Attirava l’attenzione come una macchia di colore troppo sgargiante rovesciata sull’asfalto. Non avrebbe fatto nessuna differenza cambiare posto, e c’era qualcosa che doveva vedere.

Il parco era deserto, così si erano seduti sulle altalene. Lui iniziava a dare segni di fastidio, ma a lei non seccava aspettare. Era una cosa in cui era sempre stata brava.

Solo, dopo tanti anni, iniziava ad esserne logorata.

«La parola ha potere» si era messo a spiegarle lui ad un certo punto, mentre si dondolava lentamente. Con le gambe che aveva, per spostarsi non aveva neanche bisogno di sollevarle da terra. «Con la parola si crea, con la parola si distrugge. Una minaccia getta un’ombra sul futuro. Un augurio illumina la strada.»

«Per questo parli sempre così tanto?» aveva chiesto Naminé, senza neppure rendersi conto di quello che stava facendo. Aveva sempre così paura che stuzzicarlo non le sembrava neppure pericoloso.

Lui aveva sogghignato: «Per questo ti sto dicendo di stare attenta a quello che chiedi.»

«Do l’impressione di non sapere quello che voglio?»

«Se lo sai - le aveva risposto, mentre il suo sogghigno si trasformava in un sorriso appuntito - allora sei la persona più saggia che io abbia mai incontrato.»

Lei si era dondolata senza alzare i piedi. Si era mossa appena, a differenza di lui.

«Come hanno fatto a catturarti?»

Axel aveva fatto una smorfia. I segni neri che gli tagliavano gli zigomi si erano contorti sulla sua pelle come serpenti.

«Qualche stupido umano conosceva un incantesimo di troppo e mi ha chiuso in quella sfera.»

Naminé si era data una spinta, e nel tornare a terra aveva frenato con i talloni. La gonna corta della divisa si era sollevata, e subito lei l’aveva schiacciata verso il basso perché non rivelasse le cosce magrissime.

«Visto quanto parli, potresti anche averglielo detto tu.»

Lui aveva ghignato, snudando i denti bianchissimi come una chiostra di zanne.

«Può essere. Sono il disonore della mia razza, un giorno Xemnas manderà il suo cane a riportarmi indietro.»

«Non hai paura?»

«No, se riesco a non farmi prendere.»

Lei gli aveva sorriso, per la prima volta. In quel momento, si era sentita più vicina a quel djinn, a quella cosa mostruosa, che a qualunque essere umano. Avrebbe dovuto leggere nei suoi occhi verdissimi che non sarebbe durata.

Stava per rispondergli, ma in quel momento una massa di capelli scuri all’entrata del parco aveva attirato i suoi occhi come una visione. Ed a volte lo era stato, troppo abbagliante per poter fissare lo sguardo.

Si era rattrappita sull’altalena, nascondendosi dietro il djinn per paura di essere vista. Come se l’avessero mai fatto. Come se ci fosse stato al mondo un singolo momento in cui uno dei tre non fosse stato troppo impegnato ad osservare gli altri per sbirciare fuori dalla loro piccola torre di vetro.

Guardare Sora era sempre stato troppo doloroso. E dopo pochi passi loro avevano già passato il punto in cui avrebbero potuto vederli, mezzi nascosti dagli alberi com’erano. Così aveva alzato lo sguardo verso l’Efreet.

Solo in quel momento aveva realizzato che anche lui lo stava fissando. Il bagliore crudo dei suoi occhi, come fuoco greco, avrebbe dovuto metterla in guardia. Così attento, così morboso, così disturbante nella sua avida ferocia.

In fondo, non poteva dire di non essere stata avvertita.

Ma quando Kairi aveva sfiorato il fianco di Sora con una mano piccola e bianca, cercando furtivamente la sua, era stato come se quell’immagine timidamente intima l’avesse accecata.

«È lui?» aveva sussurrato allora il djinn, pianissimo, come se non avesse voluto svegliarla. Era sconcertante il potere della sua voce, le scivolava nelle orecchie come acqua.

Lei aveva stretto i pugni attorno alle catene dell’altalena. Aveva sentito gli anelli affondare nel palmo, imprimendo la loro impronta.

«Voglio un Sora che sia mio.» I suoi occhi aperti, sgranati come quelli di un animale da preda erano caduti su Riku, che seguiva la coppia felice, distratto, disattento come se avesse potuto esistere un’infima flessione della schiena di Sora che non fosse stata il perno del suo mondo. Come se non fosse stato consumato da quell’attesa senza fine. Come se non fosse stato disperato. «Voglio il mio principe. Sono stanca di aspettare.»

Le era sembrato di sentire l’eco di una risata nella sua voce. Aveva un suono bellissimo, liscio come seta, ma era come se nel profondo nascondesse il cuore di un latrato.

«Come desideri.»



Era quasi finita la terza settimana quando Roxas aveva deciso di affrontarla.

Axel stava dormendo sul divano, e lui l’aveva bloccata sulla porta quando era tornata con la spesa. Stava bruciando tutti i suoi soldi ad una velocità preoccupante, ma finché ne aveva poteva permettersi di accantonare il problema. Aveva già un djinn a cui pensare, e la situazione non era ancora critica. Però non poteva fare a meno di sentirsi stupida, a non aver pensato ad un problema così scontato come mantenere ben due persone che per ovvi motivi non potevano né uscire né tantomeno trovarsi un lavoro. La loro isola era piccola, ed un ragazzo biondo con la faccia di Sora sarebbe stato notato subito. Senza contare che non avevano nessun documento, e che per il mondo Axel e Roxas non erano nessuno.

Era strano quanto suonasse consolante quel pensiero.

Non si era resa conto che la sua piccola, deludente famiglia si stava incrinando, mentre lei combatteva ogni giorno con quelli che le sembravano problemi insormontabili. Ma lo capì subito, quando Roxas, con uno sguardo ostile che non ricordava di avergli mai visto, le domandò: «Perché sono qui?»

Lei rimase ferma con le borse in mano, stupidamente senza parole.

«…cosa?»

Roxas sbuffò, nervosamente. «Axel ha detto che sei stata tu a crearmi. Perché?»

«Io non ti ho creato.»

«Ma mi hai voluto, è la stessa cosa. Perché?»

Iniziava a diventare inquietante sentirlo ripetere la stessa domanda con lo stesso tono. Lei soppresse un brivido.

«Perché Axel mi ha chiesto cosa desideravo. Ed io desideravo te.»

«È illogico, non puoi desiderare qualcuno che nemmeno conosci. A meno che tu non possa crearlo esattamente come vuoi. Mettere insieme i pezzi, come una bambola. È questo che hai fatto? Hai detto ad Axel cosa volevi e lui mi ha fatto su misura per te?»

Non sapeva cosa aveva fatto Axel, ma di certo, di certo, quello non era Sora. Era qualcosa di diverso, di spaventoso. Senza radici, senza passato, senza significato. Non era una persona ed al tempo stesso non poteva essere nessuno. Era un’anima in bilico, che non apparteneva a nessun mondo. Neppure a quello del djinn che l’aveva creata.

E lei non aveva nessuna risposta. Sapeva soltanto che era Axel il problema, lo era sempre stato.

«È importante?»

«Certo che lo è» sibilò Roxas tra i denti. «Ho guardato la tv. Tanto. Ho visto persone. Camminavano, correvano. Vedevano altre persone, facevano la spesa, andavano al cinema, camminavano sotto gli alberi e calpestavano le foglie rosse in autunno. Passeggiavano lungo la spiaggia. Io non so cos’è l’autunno, e non ho mai visto il mare. Perché?»

Era la prima volta che Roxas manifestava il desiderio di uscire. Lei si sentì come se il suo tempo fosse finito.

«Tu hai visto cose che gli altri non sanno nemmeno che esistono.»

Roxas la guardò dubbioso, ma la lasciò entrare. A Naminé sembrò all’improvviso di aver guadagnato un altro insostituibile attimo.

Portò le borse in cucina, cominciando a svuotarle. Axel era sdraiato sul divano, apparentemente addormentato, ma Naminé non avrebbe scommesso un munny sul fatto che non avesse sentito nulla. Non c’era niente che Axel non sapesse, niente che non avesse provato a manipolare, niente su cui non avesse messo le mani. Era ora che sparisse. Non ricordava che nel loro patto fosse compreso vitto e alloggio gratis.

Roxas si accucciò sul tappeto ai piedi del divano, osservandola in silenzio. Era troppo, troppo vicino alle mani di Axel, ed anche se sia lei che il djinn sapevano che toccandolo per primi avrebbero distrutto tutto quello che erano riusciti ad accaparrarsi, si sentiva sempre in ansia quando lui aveva una possibilità a cui lei non aveva neanche pensato.

Nessuno dei due si aspettava che fosse Roxas ad infrangere per primo la distanza. E sapere che Axel ne fu sorpreso, quando Roxas gli prese una mano, era un conforto davvero misero.

L’Efreet rimase perfettamente immobile sotto le dita curiose di Roxas, che gli accarezzavano appena il palmo guantato come se lo stessero studiando. Risalirono lungo l’indice e poi scesero di nuovo nella valle del pollice, premendo un po’ più a fondo. E mentre gli sfiorava il polso in una maniera dolorosamente intima, Roxas stava guardando lei.

La possibilità che quella fosse una vendetta, che Roxas avesse capito come ferirla e come manipolare la loro squilibrata famiglia, fece male solo all’inizio. Quando si rese conto delle sue implicazioni, di quello che Roxas avrebbe potuto far fare ad entrambi, se solo avesse voluto, divenne spaventosa.

Ma lui sembrò stancarsi presto anche di quel gioco, ed interrompendo bruscamente le carezze a cui si stava dedicando afferrò l’orlo del guanto e lo strattonò. Non lo sfilò; lo strappò via dalla mano del djinn come se non gli importasse che ci restasse attaccata. Axel non protestò. Aveva sulla faccia uno strano sorriso, che definire soddisfatto sarebbe stata una approssimazione per difetto.

Roxas si infilò il guanto e si rimirò la mano, le dita che scomparivano nel leather nero. Non stava parlando con nessuno in particolare quando osservò: «È troppo grande. Ed è ancora caldo.»

Naminé era rimasta immobile vicino al tavolo con un cartone di latte in mano, come la stupida che era. Guardò Axel, e vide che il sorriso appuntito era ancora sulle sue labbra, salendo agli occhi verdissimi che osservavano Roxas come se potessero materialmente toccarlo. Non lo sopportava.

Ma poi Roxas si tolse il guanto e girò a guardarlo, gli occhi blu freddi come laghi d’inverno. «Perché sorridi? Io ti odio.»

Fu quasi appagante vedere il suo insopportabile, terrificante sogghigno aguzzo spegnersi come una candela.

Roxas si alzò di scatto e gli gettò addosso il suo guanto. «Vi odio tutti e due.»

Naminé rimase perfettamente immobile, gli occhi fissi sulla mano nuda che Roxas aveva accarezzato. Era pallida, ossuta, dalle dita lunghe come artigli. Non doveva neanche sforzarsi per rivedere Roxas che la toccava.

Non lo sentì andare via, chiudersi in camera come se potesse esistere uno spazio che gli appartenesse. Le sue dita leggere erano ancora lì con lei.

Axel doveva sparire.



Aveva scelto con cura il posto. Il djinn le aveva accennato a quello che sarebbe successo, così aveva preso la stanza più grande di tutta la casa. Aveva spostato i mobili in un angolo ed aveva aspettato.

Axel, con il suo cappotto nero così stretto che gli sembrava tatuato addosso, si era messo davanti a lei. La pelle faceva un rumore sdrucciolevole al minimo movimento, ed ormai conosceva il djinn abbastanza da sapere che apprezzava l’idea di risultare fastidioso ogni volta che faceva un passo.

«Come lo chiamerai? Sora?»

Lei aveva chiuso gli occhi. Era la prima volta che pronunciava il suo nome. Sperava di non sentirglielo dire mai più. «Roxas.»

Lui aveva annuito, come se avesse capito davvero.

«Cosa farai se non dovesse funzionare?» le aveva chiesto poi all’improvviso, il sorriso aguzzo che si apriva come il sogghigno di un teschio.

«Hai detto che potevi farlo.»

«Io posso darti la copia di quello che vuoi. Non quello che tu vuoi da lui.»

Aveva aggrottato la fronte. «Non capisco.»

«Cosa farai se lui dovesse odiarti?»

«Non lo farà» aveva risposto allora, come se potesse crederci. «Non può odiarmi. Lui… è Sora, giusto?»

Lui non aveva detto niente, ma aveva riso forte, come un lungo ululato.

Era stato quello il momento in cui aveva capito di odiare la sua risata. Era troppo terrificante per poter essere sopportata.



Era stato più facile del previsto. Era bastato andare al negozio di magia, chiedere un incantesimo di costrizione e comprare un contenitore adatto. A lei la prima sfera era piaciuta, così ne aveva presa un’altra. Ma questa volta aveva scelto la plastica, per essere sicura che non bastasse un incidente per farlo rimbalzare fuori dalla sua prigione come una pallina di gomma.

Così aveva imparato l’incantesimo ed era tornata a casa dei suoi nonni. Non l’aveva stupita trovare Roxas sdraiato sul divano, impegnato a sonnecchiare, almeno quanto trovare Axel al tavolo intento ad osservarlo.

Il djinn la guardò senza espressione, quando la vide tirare fuori la sfera di plastica.

«Dovresti spendere meglio il tuo tempo» commentò soltanto, mentre Naminé la tendeva verso di lui ed iniziava a recitare l’incantesimo. Sentì Roxas sussultare sotto la sferza del vento innaturale che si sollevò, ma Axel la fissò e basta, a lungo, prima di esplodere in una risata feroce come un latrato.

«Non occorreva improvvisarti strega per liberarti di me. Bastava chiedere per favore.»

Naminé esitò, ed Axel, sollevandosi in piedi come se non fosse al centro di una tempesta, si allungò sul tavolo e le afferrò la gola. I capelli rossi ondeggiavano come grano spinto dal vento.

«Il nostro patto è concluso. Ed in cambio del tuo desiderio, io mi prendo la tua anima» le sussurrò pianissimo, gli occhi verdi come acqua profonda che la inghiottivano. Era incredibile come la sua voce risuonasse chiarissima, nel caos del vento impazzito.

Poi la presa si strinse, e la realtà si disfò sotto i suoi piedi mentre la sfera palpitava tra le sue mani e la luce la abbagliava.

Quando si svegliò, aprì gli occhi sul bianco. Era in un posto dal candore accecante, un castello troppo strano per poter essere vero. Axel era lì, vicino a lei. Una macchia rossa sulla neve.

Naminé si alzò in piedi e si guardò attorno. Era il posto più desolato che avesse mai visto, silenzioso come un sepolcro.

«Dove sono?»

Il djinn le accarezzò i capelli.

«Sei a casa» le rispose, con voce stranamente dolce, prima di chinarsi su di lei e strapparle la guancia con un morso.

Il sangue gocciolò a terra come lacrime, e lei sentì l’eco delle sue urla rimbalzare all’infinito lungo le pareti di vetro.



*



La sfera rotolò lungo il corridoio con un rumore strano, come quello delle ruote di un triciclo, prima di fermarsi vicino alla porta. Roxas la fissò a lungo, in silenzio, in attesa del prossimo colpo di mano.

Non ce ne furono. La sfera rimase immobile e silenziosa, morta. Roxas infilò la porta ed uscì.

Lo schermo piatto della TV non rendeva giustizia al colore del cielo. Calpestò un sasso e si rese conto che lo sentiva attraverso la suola delle scarpe. Qualcuno per strada lo salutò, e lui ricambiò subito, troppo confuso per pensare che forse l’aveva scambiato per un altro.

Era così convinto che la sua vita si sarebbe consumata dentro quella casa che non aveva creduto davvero che avrebbe mai visto cosa c’era fuori. Ed anche se tutto sembrava così immenso, privo di definizione e di contorni dopo il mondo di pareti e di porte che aveva conosciuto, sotto quel cielo azzurro sentiva di non avere nessuna paura. Non sapeva dove stava andando, ma non gli importava. Stava andando.

Poi girò un angolo, ed incrociò una persona che nel vederlo inchiodò, fissandolo allibita. Si fermò anche lui, diffidente. Cercando i suoi occhi sotto la folta frangia bianca, Roxas si rese conto che erano dello stesso colore di quelli di Axel, e che in qualche strano, spaventoso modo gli ricordavano quelli di Naminé.

Smise di respirare. Ed indietreggiò.



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Note dell’autrice:

Dopo Unfinished avevo promesso una AkuRokuNami, ed anche se è passato un sacco di tempo e non è questa la storia che avevo in mente allora, eccola per voi<3 Mi è piaciuto tanto scriverla, quindi ne arriveranno altre. Promesso è_é

Questa storia, così come il titolo, è ispirata al film horror Wishmaster, un vecchio splatter non particolarmente interessante che non si ricorderà nessuno XD

I djinn sono i geni della mitologia araba, tipo quello che Aladino libera da una lampada nelle Mille e una notte, e sono intesi come entità sovrannaturali maligne o benigne. Essi avrebbero avuto origine dal fuoco, e gli Efreet in particolare. Gli Efreet sono una tipologia di djinn; appaiono come uomini eccezionalmente forti e belli, e quando vengono interpellati spesso cercano di travisare gli ordini del loro padrone. Come sempre ringraziate Wikipedia<3’

Non penso ci sia bisogno di specificare chi sia quello che Roxas incontra alla fine, vero? *_*;

Spero che la storiella vi sia piaciuta, anche se è su una coppia che nessuno caga mai XD

Seli



  
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