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Autore: PurpleStarDream    19/01/2014    5 recensioni
Robert e Mel sono colleghi, amici, compagni in quelle sventure che li hanno accompagnati nel corso della loro vita.
Quando Robert si è trovato in difficoltà Mel lo ha aiutato; ora spetta a lui fare altrettanto.
Mel Gibson/Robert Downey Jr - Bromance
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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In questa fanfiction ci saranno accenni al passato di Robert, specialmente ai periodi bui, ma questo è solo un contorno. Soprattutto si parlerà della sua amicizia con Mel Gibson.

Ci tengo a precisare che non si tratta di slash (anche se l’idea mi ha sfiorato più volte di una^^), piuttosto di un rapporto paterno, in cui Mel per Robert è più di un amico, è un mentore, qualcuno di cui fidarsi e su cui poter contare quando ci si sente davvero persi.

Adoro Robert Downey Jr, e per questo non mi vergogno di parlare del suo passato perché, come Robert stesso ha affermato, si tratta di una parte di lui, una parte che non c’è più, ma pur sempre qualcosa che ha contribuito a renderlo quello che è, perciò trovo che si possa e si debba parlarne, senza fingere che non sia successo niente. Io lo farò in modo piuttosto soft, perché il cuore di questa storia, il suo tema di fondo, è l’amicizia.

La storia si articola in tre periodi: quello di Air America, in cui Robert aveva appena iniziato la sua prima disintossicazione, quello di The Singing Detective, quando Gibson credette in lui e lo scritturò per la parte del protagonista, e una cerimonia cinematografica del 2011.

Le cose che dice e che pensa Robert… alcune sono farina del mio sacco, altre vengono da due sue biografie, rispettivamente:

“Robert Downey Jr: 11.15 to 6.00”, scritto da William Hamilton, che consiste in una raccolta di frasi di Robert in persona e di gente che lo conosce, prese da interviste e confidenze.

“Robert Downey jr: The fall and rise of the Comeback Kid”, scritto da Ben Falk, che invece è una vera e propria biografia.

Queste sono le due fonti a cui mi ispiro quando parlo di lui.

Il discorso finale, lo potete trovare su youtube:

http://www.youtube.com/watch?v=BXDPiFJX2Wg

 

 

 

Robert, hug the cactus.

 

 

 

 

Senza guardarlo, ma con il tono di chi per quelle cose aveva sviluppato un’abitudine, l’infermiera gli disse che poteva andare.

Robert spinse indietro la sedia e tentò di alzarsi. Rimase in piedi, vacillando sulle gambe malferme e sentendo il peso di ogni respiro, la mano sinistra premeva un batuffolo di cotone nell’incavo del gomito destro.

L’infermiera stava già per raccogliere il porta provette, che conteneva certamente almeno mezzo litro del sangue di Robert, quando vide che il suo paziente non accennava a muoversi. Gli riservò uno sguardo di rimprovero mentre lui fissava il vuoto con due grandi occhi liquidi marrone scuro, e lasciando perdere per il momento le provette gli si mise accanto.

Prendendolo con fermezza per le spalle lo condusse nel corridoio, dove gli altri membri della troupe stavano discutendo del più e del meno, aspettando il loro turno.

-Dovrebbe mangiare qualcosa prima di andare a casa- consigliò l’infermiera, e lo lasciò lì, tornando al suo lavoro.

Robert mentalmente si corresse: il sangue prelevato doveva essere almeno un litro. Raggiunse a passi cauti la prima fila di sedie di plastica blu che riuscì a trovare e ci si lasciò cadere, ricevendo in cambio un violento giramento di testa. Mollò la presa sul batuffolo di cotone e si prese il viso tra le mani. Dio, era distrutto.

Girare Air America era stato un lavoraccio, la Thailandia lo aveva sfinito sia nel corpo sia nello spirito, e adesso lo stavano dissanguando per assicurarsi che, durante il soggiorno in Asia, non avesse contratto qualche malattia esotica; come se le vaccinazioni prima della partenza non fossero state sufficienti.

L’unica consolazione era che anche tutto il resto della troupe avrebbe dovuto sottoporsi allo stesso salasso.

Mentre era intento a coprirsi gli occhi con le mani, Robert giurò a sé stesso che non avrebbe mai più recitato in film d’azione, a meno che non avessero qualcosa di profondo da dire. Una pellicola in cui tutti si prendevano a pugni o si sparavano addosso senza nessun messaggio particolare decisamente non faceva per lui; non valeva affatto tutto lo stress a cui si era sottoposto. L’unica cosa che lo aveva reso sopportabile era stata la possibilità di raffinare la sua arte lavorando accanto a qualcuno come Gibson; lui e la momentanea bolletta in cui si trovava erano state le uniche ragioni che lo avevano spinto a partecipare a Air America. Come pellicola prometteva bene.

Senza contare il fatto che aveva la sgradevole sensazione che, in quasi ogni film per cui era stato scritturato, gli facessero recitare di proposito la parte del drogato, o comunque di uno che, ironicamente, le droghe le detestava. Era successo con Less than zero, 1969, True Believer, e adesso anche con Air America. Sapeva delle risate alle sue spalle che si facevano tutti, quando in una scena diceva di odiare la droga.

Per qualcuno che era in via di disintossicazione non era un buon incentivo, specie se il disintossicando in questione non prendeva bene queste velate derisioni nei suoi confronti.

Robert era conscio di ciò che faceva, non lo aveva mai negato, ma adesso cominciava a pensare che fossero gli altri ad avere un problema. Come si faceva a restare puliti in un mondo che ti risbatte in faccia i tuoi errori ad ogni occasione disponibile?

Senza contare lo stress, quello era insopportabile. La voglia di farsi di nuovo era già abbastanza forte senza che qualcosa lo opprimesse anche da fuori, ma in quelle condizioni resistere diventava un travaglio. Il non avere nessuno con cui parlarne non faceva altro che peggiorare la situazione, ma Robert dubitava che, anche se l’avesse avuto, le cose sarebbero andate meglio. La verità era che la sua vita aveva sempre avuto una piega strana: si sentiva distante, come se la gente che lo circondava abitasse un piano della realtà diverso dal suo; poteva vederli e interagire con loro, ma non poteva connettersi, e dunque era solo, isolato, inaccessibile.

Gli stupefacenti e l’alcool avevano un loro scopo.

Robert sapeva quello che faceva, di certo non voleva morire; conosceva i suoi limiti e sapeva rispettarli. La droga era solo un sistema per sentire qualcosa, per spostarsi dal suo piano di realtà se non a quello della gente, almeno ad uno dove avrebbe potuto riempire quel vuoto emotivo che gli pesava così tanto.

Mentre la maggior parte della gente si drogava per stordirsi, lui lo faceva per sentire.

La gente non capiva, pensava fosse per divertimento, o perché era annoiato…

Per capire avrebbero dovuto essere disconnessi come lui, e sapeva che nessuno di quelli che conosceva lo era, neppure Sarah. Non erano in grado di comprendere i momenti vitali che gli dava, cosa significasse per lui; cercava di smettere per il loro bene, non per il suo, perché non vedeva che vantaggio potesse dargli correre il rischio di vivere in un mondo mediocre, di diventare una persona mediocre, la sua paura più grande. Si sforzava, ci provava. Ma la voglia era sempre troppo forte, ci ricadeva perché vedeva la promessa di emozioni brillanti che non trovava nella vita di tutti i giorni. Sarah cominciava a dargli ultimatum; era sempre più distante, e la gente lo trattava come un malato da tenere a distanza di sicurezza, perché con i tossici non si sa mai, l’unica cosa certa è che appartengono ai rifiuti della società.

Robert prese un respiro profondissimo e avvertì un altro capogiro. Era stufo marcio di pensare a quelle cose.

Avrebbe davvero voluto andarsene a casa, farsi fino a cancellare il mondo in cui si trovava, e dormire un sonno lungo e piacevolmente corretto. Nel mezzo avrebbe potuto starci anche una doccia; era stanco, ma si sarebbe sforzato, in onore del suo ritorno in America.

Qualcosa gli picchiettò su una spalla. Sollevò la testa e, spiando tra le dita, vide la figura di Mel in piedi davanti a lui con in mano un pacchetto di carta.

-Stanco, ragazzino?- domandò, con un sorriso che faceva brillare i suoi occhi azzurri sotto le luci dell’ospedale.

Robert notò che aveva le maniche della camicia arrotolate, e sulla pelle del gomito spiccava un cerotto che bloccava un batuffolo di cotone identico a quello che era stato dato a lui. Come Mel riuscisse ad essere così pieno di energie dopo il prelievo, per Robert era un mistero. Forse a lui non avevano succhiato un litro e mezzo di sangue. Magari tra quelle provette erano comprese quelle per l’ispezione antidroga… Non ci aveva proprio pensato.

-Non chiamarmi ragazzino- protestò Robert, sfregandosi le mani sul viso per darsi una svegliata.

Gibson ribatté con un sorriso ancora più luminoso. –Ti chiamo ragazzino perché sei un ragazzino.- Si sedette accanto a lui sulle sedie di plastica, e cominciò a rovistare dentro il sacchetto di carta. Alla fine ne estrasse una ciambella glassata e la porse a Robert. –Tieni. Fa bene assumere zuccheri dopo un prelievo di sangue, e tu sembri averne un gran bisogno.-

La debolezza avrebbe dovuto fargli venire fame, ma ora come ora l’odore di cibo gli appariva nauseante. Robert non aveva alcuna voglia di mangiare, ma sapeva che sarebbe stato opportuno sforzarsi; inoltre l’educazione imponeva di non rifiutare, quando Mel, tra tutti i membri del cast, aveva pensato proprio a lui.

Così prese la ciambella e l’addentò di malavoglia, proprio mentre Gibson ne afferrava un’altra per sé, ricoperta di cioccolato.

-E’ bello essere a casa, vero?- domandò l’uomo, masticando di gusto.

Robert stava ancora rimescolando con la lingua il primo boccone, ma sorrise a quell’affermazione, perché la condivideva con tutto sé stesso.

-Già. Non ne potevo più della Thailandia.-

-Mi dispiace che tu ti sia trovato male a Bangkok.-

Robert disegnò degli otto sul pavimento con un piede, ma non rispose, troppo immerso nel ricordo di quel posto da incubo, dove si potevano trovare non solo quelle droghe da cui si sforzava di allontanarsi, ma anche ogni genere di perversione per chiunque fosse disposto a pagare: uomini che offrivano delle bambine piccole agli stranieri com’era capitato a lui…

Dopo quel fatto era tornato di corsa sul set, scusandosi con Mel e gli altri, e non aveva più voluto sentir parlare della città. Quello che aveva visto non l’avrebbe mai più potuto cancellare, e decise di medicarsi aggiungendolo alla lista di incubi che da anni si portava dietro.

Pensò che, se esisteva un inferno in terra, probabilmente si trovava a Bangkok.

Ingoiò il boccone di ciambella sentendolo scivolare grosso e pesante mentre gli ostruiva per un attimo la gola.

-Sono contento di essere di nuovo qui, ma mi sento…- cominciò Robert, senza nessun motivo particolare; forse aveva solo voglia di parlare.

-Stanco?- suggerì Gibson.

-Più che stanco. Girare questo film è stato sfibrante, con Sarah le cose non vanno bene, e ho voglia… ho voglia…-

Ci fu un istante di silenzio, un lungo e profondo attimo di quiete sottile come il guscio di un uovo, e altrettanto fragile.

-Hai voglia- constatò sottovoce Mel; Robert lo guardò in quegli occhi chiari improvvisamente ridiventati seri, e si accorse che capiva. Tutti sapevano dei suoi guai con le droghe, ma lui capiva.

-Sì. Tanto…-

Abbassò gli occhi scuri, lo specchio della sua anima che voleva scappare in un posto lontanissimo. Se solo fosse lui e Mel fossero stati più vicini…

Una delle cose di cui Robert non si vergognava di sentire il bisogno, era la presenza di qualcuno da prendere ad esempio. Ciò che gli sarebbe piaciuto avere di più al mondo sarebbe stato un mentore, una persona speciale con l’intelligenza e l’esperienza che lo avrebbero affascinato, da ascoltare, da cui avrebbe potuto imparare… Una guida, forse, perché c’erano momenti nella sua vita, come quello, in cui si sentiva perso in un mondo che solo lui conosceva, ed era freddo e buio e solitario, lì dentro.

Persone più grandi di lui erano l’ideale, perché se non altro avevano visto abbastanza da avere accumulato una discreta esperienza di vita. Gli davano continue emozioni, e Robert aveva bisogno di emozioni forti, roba di cui il suo spirito poteva farsi anche senza la coca.

Una cosa simile gli era capitata l’anno scorso, con James Woods, sul set di True Believer. Allora l’attore lo aveva preso sotto la sua ala, e a Robert sarebbe piaciuto andare avanti così, ma sapeva che al mondo ognuno va per la sua strada. Avere la presunzione che un uomo ti considerasse speciale al punto da farti da amico e da maestro per tutta la vita era qualcosa che il ragazzo sperava, ma che non si era realizzato, e cominciava a perdere la speranza che potesse accadere ancora; dopotutto, anche questa era una lezione: imparare il più possibile da chi si incontrava lungo il cammino e poi cavarsela da soli.

Adesso con Mel gli stava capitando la stessa cosa.

Lui gli piaceva, aveva accettato quel ruolo solo per recitare con quello che sapeva essere un grande attore, un uomo aperto al dialogo. Aveva conosciuto la sua famiglia, erano diventati amici… Forse? A Robert sembrava di sì; per lui nessun membro della troupe era importante quanto Mel, e sul set Gibson non passava tanto tempo con nessun altro come con Robert.

Sarebbe stato bello avere lui come amico, ma Robert non si faceva troppe illusioni. Conosceva bene l’opinione che gli altri avevano di lui, quindi perché in quel caso avrebbe dovuto essere diverso?

-Bobby…- iniziò Gibson, -Non devi badare a quello che pensano gli altri, per la gente che non ci conosce è facile giudicare.-

-Non mi interessa quello che pensano gli altri-rispose sinceramente il ragazzo. –Ma è seccante sapere che per loro sarò sempre e solo un’unica cosa. Tutti pensano che lo faccia perché mi piace. Beh, sì, mi piace… ma non è quello il motivo. Se fossi davvero solo forse non mi importerebbe, ma so che le persone che amo ci stanno male, e non vorrei questo, però… Ogni tanto desidero solo andare via, vorrei prendermi una pausa dal mondo per un po’ e sentire qualcosa di diverso dalla pressione e dal vuoto, e con quello che faccio ci riesco. Mi fa stare bene, anche se dopo a volte capitano dei momenti in cui mi sento fisicamente male. Forse è l’abitudine, ho cominciato presto, molto presto… Voglio solo sentirmi bene. E’… è complicato.-

Una mano si sollevò, e cominciò ad arruffargli i capelli. Oltre la frangia spettinata, Robert vide Gibson fargli un piccolo, caldo sorriso.

-Hey, benvenuto nel club. So tutto di tuo padre e… di quello che hai fatto. Tutti in questa città hanno la loro droga preferita, tu sei solo uno che sta più male degli altri, e ne hai più bisogno, può capitare. Io ho cominciato a bere a tredici anni, e mi hanno diffidato dal guidare nell’Ontario, quindi sei in buona compagnia.-

Gli occhi color cioccolato di Robert si accesero di interesse. Non pensava di poter incontrare qualcuno che era stato lì, dove si trovava lui adesso.

-Non è facile liberarsi di una dipendenza, Robert. Tutto quello che possiamo fare è andare avanti e stare attenti a non mancare il momento in cui avremmo capito di non averne più bisogno; perché quel momento arriverà, prima o poi, devi solo avere fede. Tu hai fede, Bobby?-

Robert ci pensò su. Non è che non ce l’avesse, ma forse semplicemente non era mai stato un buon credente.

-Non lo so… Forse?-

-Avere fede fa sentire meno soli. Io sono cattolico, ma va bene averla in qualunque cosa: in un dio, in un ideale, in una persona… Anche in te stesso.-

Lì il ragazzo si sentì punto sul vivo: la persona di cui si fidava di meno, quando si trattava delle cose che lo riguardavano, era proprio sé stesso. Sapeva di essere un tipo sveglio, e anche aperto ai rimproveri e disposto a imparare, una qualità rara nei giovani. Tuttavia non si fidava di sé stesso perché sapeva che, prima o poi, avrebbe abbandonato la strada dritta per avventurarsi su una più tortuosa semplicemente perché, dietro tutte quelle curve, ci sarebbe stata maggiore possibilità di trovare quel particolare qualcosa di cui era alla ricerca per riempirsi la vita.

-Potrebbe aiutarti a smettere. Dico potrebbe, perché so com’è difficile uscirne veramente. E’ qualcosa che, quando ti fa sentire bene, ti fa sentire in animo di passare sopra a tutti i disagi, anche se questi superano i vantaggi.-

Robert sbuffò una risata. –E’ così. Io sto cercando di smettere per tanti motivi, ma sai… Ci sono quei momenti in cui si ha in corpo la giusta quantità di prodotti chimici, e allora è un’esperienza mistica. Sono sensazioni così intense che mi riempiono davvero, è come se riuscissi ad entrare in contatto con un lato di me che altrimenti non vedrei. Quei momenti sono una parte di me. Non rimpiango niente di quello che ho fatto, ma verrà il momento in cui non sarò più quel tipo d’uomo. E’ un momento che desidero e che insieme mi fa paura, perché vorrebbe dire trovare qualcosa che mi accende dentro emozioni altrettanto forti, e non so se riuscirò a trovare una cosa del genere. Per adesso mi va bene come vivo, anche se ferisco le persone che amo. E’ l’unica cosa di cui mi dispiace, ma è come se avessi una pistola carica in bocca e il dito sul grilletto; e mi piace il sapore del metallo. Io ho bisogno di sentire, Mel, capisci?-

Gli occhi scuri brillarono di speranza, aperti e soli, esponendo il suo cuore come un bersaglio e sperando che l’altro non gli facesse troppo male.

L’espressione di Mel era calda, comprensiva.

-Si, capisco.- E nei suoi occhi Robert lesse che capiva davvero. -La dipendenza è una sicurezza: sai già cosa succederà dopo che ti sarai fatto- osservò Gibson.

-Mentre quando scegli un percorso di vita non hai garanzie. La droga finora non mi ha mai deluso, le persone e il mondo invece sì- continuò Robert, che si sentiva libero di esprimersi.

-Forse devi solo incontrare le persone giuste. Certe volte la vita dà il voltastomaco, ma certe altre, sotto tutto questo schifo, trovi qualcosa per cui è valso la pena soffrire.-

-Mmh, mmh.-

Guardò Mel e non disse nulla. In momenti come quello i suoi pensieri correvano talmente veloci che se avesse voluto dar loro voce sarebbe stato impossibile capire da che parte cominciavano e da che parte finivano. Se fosse riuscito a trasmettere quel sentimento a parole, se fosse riuscito a comunicarlo a Mel, forse ce l’avrebbe fatta anche con altri, e oltre a diventare un grande attore sarebbe riuscito anche a diventare un uomo migliore.

Ma i suoi occhi dovevano avere parlato per lui, perché Gibson gli scompigliò nuovamente i capelli con una mano, come si fa con un ragazzino pestifero ma adorabile, e dovette avere capito comunque; dopotutto, un bravo attore comunica emozioni semplicemente con le sue espressioni.

-Trovati una fede, ragazzino, qualcosa in cui credere. E non dimenticare mai che il tuo lato peggiore è comunque una parte di te. In quanto ai tuoi trascorsi… Nessuno vive senza commettere errori; quello che devi fare è abbracciare il cactus.-

Robert alzò un sopracciglio, incuriosito. –Cosa?-

-Abbracciare il cactus- ripeté l’uomo. –Devi vivere accettando la responsabilità dei tuoi errori, perché vuol dire accettare te stesso, senza rinnegare niente di ciò che fai, neppure la parte peggiore di te. Vivi pensando che, in qualsiasi ginepraio ti infilerai, ne uscirai comunque con qualcosa in più: avrai imparato una lezione. Se abbraccerai il cactus abbastanza a lungo diventerai un uomo umile, e imparerai cosa significa vivere con il coraggio di essere sé stessi.-

Robert ascoltava attento. Adorava sentir parlare la gente del lato spirituale della vita, avrebbe passato ore a riflettere su come il piano emotivo fosse importante e su come troppo spesso la gente lo trascurasse. La crescita spirituale e il lato filosofico dell’esistenza lo affascinavano: a suo parere rendevano la vita degna di essere vissuta.

-Grazie- mormorò, barattando un sorriso con un altro sorriso da parte del collega.

-Dovresti ridere più spesso, sei più carino se lo fai; alle ragazze piace.-

Robert arrossì e si chiuse in un mutismo stavolta imbarazzato. Gli era già capitato di sentirsi dire da altri uomini che era carino, ma quelli avevano sempre un secondo fine poco nobile; sentirselo dire da quell’uomo su cui adesso sapeva di poter contare era un’altra cosa: il complimento lo riempiva di orgoglio, come quando gli aveva detto, alla fine di Air America, che la sua performance era stata eccellente.

-Ti sei un po’ ripreso?- domandò Gibson.

Sulle prime, Robert si chiese a cosa si stesse riferendo. Poi si ricordò della debolezza, dei litri di sangue che gli avevano prelevato.

Si riscosse, e guardandosi la mano vuota capì di avere mangiato tutta la ciambella mentre Mel parlava. Si sentiva ancora stordito, ma non tanto come prima. –Un po’.-

-Non hai nessuno che ti venga a prendere?-

-Sarah è fuori città- disse distratto Robert. Non voleva pensare alla reazione della sua ragazza di fronte alle difficoltà incontrate con la riabilitazione. Si stava rivelando più dura del previsto, e sentiva che restare pulito certi giorni era semplicemente una scommessa, come una roulette russa: sapeva che prima o poi sarebbe arrivato il giorno in cui gli sarebbe capitata la pistola carica, e allora ci sarebbe ricascato.

-Ti accompagno io- decise Gibson.

-Se per te non è un disturbo…-

-No, non lo è.-

 

In macchina, Robert si distese sul sedile del passeggero, inclinando la testa all’indietro per impedirle di pulsare dolorosamente come aveva fatto durante la camminata. Nonostante la ciambella, non si sentiva per niente bene: era fisicamente distrutto, ma dentro gli stava montando un’inquietudine ancora peggiore, che non gli dava pace, e lui sapeva già di cosa si trattava. Chiuse gli occhi assaporando con tutto il corpo le vibrazioni dell’auto in movimento.

-Tieni duro, Robert- sentì la voce di Mel accanto a sé, ma non aprì gli occhi per guardarlo. La loro conversazione lo aveva esaltato, e come ogni cosa ne avrebbe voluta di più, ne avrebbe voluta fino a perdersi in essa, fino a trovare quel qualcosa di indefinito che stava cercando, per cui valesse la pena ogni volta rischiare di distruggersi. Allontanarsene era come precipitare bruscamente dal più bel volo mai vissuto con la coca: tornavi a sentirti uno schifo.

Forse, pensò Robert, avrebbe potuto riporre la sua fede in lui, ma non voleva annoiare Mel con tutti i suoi guai. Che si prendesse il disturbo di aiutarlo quando lavoravano insieme era già abbastanza, Robert non voleva rischiare di perdere quel rapporto speciale che aveva appena trovato.

Con gli occhi chiusi pregò perché il viaggio durasse il più a lungo possibile, perché sentiva già i suoi demoni strisciargli sotto la pelle, pronti a saltargli alla gola; sentiva la pistola fare clic, e poi clic, e poi clic, mentre il proiettile si avvicinava, lui aveva ancora la canna in bocca, e gli piaceva.

 

 

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Qualcuno suonò il campanello.

Robert lo sentì dalla camera da letto, e gli riportò alla mente parecchi brutti ricordi. Il primo pensiero fu che potesse essere la polizia, come l’altra volta, in quel motel.

Si strofinò gli occhi e infilò nel cassetto del comodino il biglietto da cinquanta dollari e la lama di rasoio che aveva usato, spolverando il ripiano da tracce compromettenti. Solo per abitudine, gli piaceva avere le cose in ordine; tanto era tutta fatica sprecata. Se gli avessero fatto un test adesso non l’avrebbe passata liscia, ma forse sarebbe stato sufficiente guardarlo in faccia: gli occhi arrossati, con le pupille fuori fase, e le narici screpolate dai capillari rotti erano più rivelatori di qualunque esame del sangue. E comunque lui era sempre stato del parere che fosse inutile avere segreti, tanto erano destinati ad essere scoperti, prima o poi.

Il campanello suonò di nuovo. Il trillo era lo stesso, ma a Robert parve più insistente.

Questo rafforzava l’ipotesi che fosse la polizia. Poi si ricordò di avere staccato il telefono. A quel punto avrebbe potuto trattarsi di chiunque.

Decise di prendersela comoda, di andare ad aprire con la massima tranquillità e la mente vuota; venire giù lo mandava sempre in quella depressione per cui non gli importava davvero un cazzo di niente, avrebbe solo voluto tornarsene a dormire e poi aprire gli occhi e preparare un’altra pista per svegliarsi davvero.

Quando aprì la porta si trovò davanti un uomo chino sul campanello, che appena si accorse di essere stato notato si raddrizzò. Capelli più bianchi che grigi scintillavano al sole, e due occhi azzurri come un cielo senza nuvole gli sorrisero, consci di quello che vedevano e intenzionati a farlo apparire migliore di quanto non fosse.

-Ciao, Bobby. Ti trovo in forma- disse Mel, dandogli una pacca sulla spalla coperta solo dalla canottiera nera.

Robert abbozzò un mezzo sorriso e roteò gli occhi, facendo quell’autoironia che aveva sempre amato.

-Tu hai proprio bisogno di un paio di occhiali, Mel.-

-Posso entrare?-

-Perché no?-

Robert lo fece accomodare, facendogli strada nel soggiorno spoglio di una casa in cui ormai abitava solo lui. Si accese una sigaretta e ne offrì una a Gibson, che però rifiutò.

-Come stai?- domandò l’uomo, studiando la sua figura magra, dalla cui bocca sottile il fumo di sigaretta pareva uscire come gli ultimi ansiti di vita di un fuoco sul punto di estinguersi. Non era consumato come nel ’97, ai tempi di One night stand, quando il suo interesse principale era l’eroina, ma ci andava vicino. Gli occhi arrossati parevano quelli di uno che aveva passato troppo tempo a piangere, ma il fisico magro e nervoso e le pupille raccontavano un’altra storia. O forse ne aggiungevano una alla prima.

-Difficile dirlo… Male, suppongo?-

In effetti c’erano momenti in cui stava male. Ripensare al carcere e a ciò che vi era capitato dentro, al divorzio, al fatto di essere stato arrestato di nuovo e aver fatto piangere Calista, al fatto che non trovasse lavoro neanche in una pubblicità perché nessuno era disposto a fidarsi di lui… Tutte cose che lo facevano sentire male.

Ma poi bastava fumare una canna o un po’ di crack e si sentiva subito meglio. Oppure una pastiglia: non c’era nulla che l’ecstasy non potesse curare.

-Vuoi parlarne?-

-Non ho tanta voglia di ricordare quello che è successo in galera. Non… non adesso.-

Prese un tiro nervoso dalla sua sigaretta, con le dita che la stringevano tremando, e l’espressione di Mel crollò, e sperò che l’altro non la percepisse come troppo triste.

-Non devi parlarmi per forza di quello, lo farai quando ti sentirai pronto e se ne avrai voglia. Io intendo in generale.-

Gli occhi marroni si abbassarono, guardando dappertutto. Pensando a sé stesso, a Robert venne improvvisamente da ridere, una risata nervosa e inquietante: la situazione in cui si trovava sembrava talmente assurda, surreale… dal passato al presente pareva tutto un sogno. Forse era ancora fatto…

Ridacchiò, sarcastico, come faceva sempre quando si ricordava di abitare un piano della realtà diverso dagli altri, e ciò che aveva fatto a sé stesso non era ancora abbastanza, non aveva ancora trovato quel qualcosa. –Non so da che parte cominciare.-

-Devi abbracciare il cactus ancora un po’- gli disse Gibson, con un tono comprensivo che non si era mai arreso da quando Robert lo aveva conosciuto, più di dieci anni prima.

Robert ridacchiò di nuovo, un tentativo disperato di salvare una conversazione destina a precipitare. Schiacciò la sigaretta in un posacenere e riservò a Mel quell’espressione particolare che faceva innamorare, quella che spingeva le persone che lo incontravano a rendersi conto che in lui ci fosse qualcosa di misterioso che ancora non avevano scoperto.

-Se continuo a farlo penseranno tutti che io sia masochista.-

-Forse solo un po’, ma non riusciresti ad abbracciare il cactus se non lo fossi- disse Gibson.

Robert stirò appena le labbra. C’erano momenti in cui non amava cha la gente avesse fiducia in lui, perché sapeva che, in qualche modo, ne sarebbero usciti delusi, e lui ci sarebbe stato più male di tutti. Non importava quanti sforzi facesse, qualcosa inevitabilmente non sarebbe andato per il suo verso. Però era piacevole sentirsi rivolgere con gentilezza, dopo tutto quello che gli avevano detto e fatto.

-Senti, Bobby…- cominciò Mel, con un tono carico di buoni propositi. –Sto producendo un nuovo film, si intitola The Singing Detective, e ti voglio fare una proposta: ti andrebbe di recitare nel ruolo del protagonista? Avrei dovuto farlo io, ma poi mi sono accorto che era il personaggio perfetto per te.-

La sua mente, che già pensava alla prossima dose che lo avrebbe tirato su, si fece attenta all’istante. Gli occhi si accesero.

-Mel, no. Non posso rubarti il ruolo, e in un film che produci tu, per giunta. Se vuoi scritturarmi per darmi una mano potrei avere un’altra parte.-

-No- disse risoluto l’attore. –In questa sceneggiatura nessuno è importante quanto il protagonista, e devi essere tu.-

Robert incrociò le braccia al petto, e inconsciamente si strinse forte con entrambe le mani. Da troppo tempo non aveva un ruolo decente; con i suoi precedenti era diventato difficile essere assunti, tutti avevano paura che ne avrebbe fatta un’altra delle sue, che sarebbero venuti a portarlo via a metà produzione, e allora chi li avrebbe risarciti dei milioni di dollari buttati nel cesso?

-Ti fidi così tanto di me? Non hai paura che combini qualche casino?- domandò Robert, ed ebbe la sensazione di chiederlo più a sé stesso che a Mel.

Quest’ultimo gli posò le mani sulle spalle, e le fece scorrere sulle sue braccia delineando ogni muscolo nervoso, costringendolo dolcemente a sciogliere quella presa protettiva attorno al suo corpo. Le mani dell’altro si fermarono nell’incavo dei suoi gomiti, dove ogni tanto sulla pelle nasceva un livido nuovo, specialmente a sinistra, dove entrava l’ago, e lì rimase. Robert rabbrividì; non seppe perché, ma con quel gesto ebbe la strana sensazione che Mel vedesse quella parte oscura di lui con cui si stava consumando, e lo perdonasse.
Si sentì violentemente esposto, ma allo stesso tempo al sicuro, come non gli capitava più da mesi. Era come cadere nel vuoto con la certezza di essere afferrati prima di toccare il suolo e morire. Chiuse gli occhi, e socchiuse la bocca per respirare meglio.

-A te piace recitare, confido in questo. E poi hai talento. Io voglio gente di talento.-

Quando Robert riaprì gli occhi vide l’altro osservarlo con un sorriso incoraggiante. E fu tutto ciò che gli servì.

-Farò del mio meglio- disse infine Robert.

Il sorriso di Mel si allargò. –Ragazzino, tu lo fai sempre- disse, scompigliandogli i capelli come fece tanti anni fa, al loro primo incontro.

-Non sono più un ragazzino- lo rimproverò scherzosamente Robert, accennando, dopo lungo tempo, un sorriso sincero.

-Sì che sei un ragazzino- ribatté Gibson. –Vieni a casa mia, così ti offro un tè per farti riprendere e ti faccio leggere la sceneggiatura.-

-Non sono molto presentabile…- Quella di Robert era una semplice affermazione, ma entrambi sapevano cosa significasse; non si riferiva certo agli abiti.

-Non andiamo mica al ristorante, solo a casa mia.-

Senza aggiungere altro, Robert si infilò una giacca di jeans e un paio di scarpe da ginnastica, preparandosi per uscire.

-Com’è la storia?- domandò, prima di chiudere la porta.

-E’ una storia di rinascita- disse Mel enigmatico. –Ed io voglio darla a te. Ne hai bisogno in più sensi che uno.-

Negli occhi di Robert passarono mille pensieri e mille emozioni diverse. Mel pensò che non si sarebbe mai stancato di guardarli, avevano una luce particolare: quando guardava quegli occhi era come se Robert nascondesse un segreto che solo lui conosceva, era la sua magia. Meritava una possibilità, ne meritava più di una, e con lui l’avrebbe sempre avuta.

-Grazie Mel- mormorò infine Robert, con un tono che conteneva in sé un discorso molto più lungo, che entrambi percepivano a pelle.

-E’ il tuo film, Robert, devi stare attento e vivere ogni parola- disse Mel, di nuovo criptico come un oracolo, e si scambiarono quello sguardo, quella comunione di emozioni per cui sembravano parlarsi da dentro.

-Reciterò con te- continuò Gibson. –Così ti farai meno male abbracciando il cactus.- Rise di nuovo. Quell’uomo rideva spesso. Robert aveva davvero voglia di tornare a ridere.

-Grazie- ripeté con sincerità.

L’altro scrollò le spalle. –Non devi ringraziarmi. Da te voglio solo che ti ricordi quello che ti ho detto. Quando arriverà il momento anche tu troverai qualcuno da risollevare.-

 

 

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Il film era strano, su questo non c’era nessun dubbio.

Recitare di nuovo con Mel era stata un’esperienza ai limiti della realtà, anche perché, più Robert andava avanti, più gli sembrava che Gibson in quel film ci avesse messo lo zampino. I dialoghi tra loro, le battute che il suo personaggio aveva, i gesti che doveva compiere… Tutto sembrava costruito apposta per lui, per fargli toccare il fondo, scavare e andare ancora più giù, e poi riemergere; o per meglio dire, venire trascinato fuori da quella parte di lui che rifiutava di arrendersi.

-Ci sono cose in quel libro, dottore, che si allungano per saltarmi alla gola!- diceva Dan Dark, il suo disastrato alter ego in The Singing Detective.

-Perché non glielo lascia fare?- domandava paziente il dottor Gibbon, lo psichiatra che Mel interpretava.

-Perché? Cosa?- mormorava, e da lì cominciava la sua svolta.

-Glielo lasci fare- ripeteva l’altro.

-Mi ritrovo in quel libro e neanche lo sapevo- realizzava Dan Dark.

-Sì.-

 

-Si alzi in piedi- diceva ancora il dottor Gibbon.

-Che cosa?-

-Lei può. Lei può farcela.-

-Lei crede?- No, lui non ci credeva.

-Adesso o mai più.- Sì, invece, ci credeva.

E mentre lui e Dan Dark, mentre Mel e Robert stavano in piedi l’uno di fronte all’altro, sostenendosi a vicenda, Dan, o forse Robert, chiedeva: -Quanti passi per il Paradiso, dottore?-

E dopo un sorriso si sentiva rispondere, cantando: -Tre.-

 

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Il film Gothika non sembrava un granché, ma la svolta vera, Robert l’aveva incontrata proprio lì.

Era stato allora che aveva conosciuto Susan, la persona speciale che aspettava, quella per cui tutta quella sofferenza era valsa la pena.

Per lei aveva smesso di farsi, aveva rimesso in ordine la sua vita… Tutto perché importava a lei, e perché Susan lo aveva definitivamente convinto di avere un valore. Susan… Susy, gli aveva detto che lui era importante, che lo avrebbe aiutato a riaggiustare la propria vita perché lui ne valeva la pena.

Mel era un amico, l’unico che gli fosse stato accanto, ma non gli era mai capitata una compagna di vita che lo vedesse sotto quella luce.

Non si sentiva solo felice, si sentiva pieno, si sentiva libero.

Lui era un cercatore di emozioni, doveva sentire per stare bene. L’amore di Susan era qualcosa di travolgente, una sensazione che, pur non essendo uscita da una siringa, era talmente intensa da diventare tutto ciò di cui Robert aveva bisogno. Tutte le droghe del mondo non avrebbero potuto eguagliare un sentimento così vero, e forse era proprio questo che gli era mancato: la verità.

Ripensò sorridendo al suo passato, a Mel; si disse che ne valeva davvero la pena. Aveva abbracciato il cactus abbastanza a lungo, farsi trapassare da tutte quelle spine era servito a qualcosa.

Adesso era un attore di successo, era Iron Man, era Sherlock Holmes, era tutto quello che voleva essere… Per la prima volta era anche Robert e basta, e questo era forse il traguardo più grande di tutti.

Tutto questo, Mel avrebbe detto che lo doveva a sé stesso: nessuno riesce a risollevarsi se non trova la volontà di restare in piedi da solo, ma Robert non sarebbe stato d’accordo. Susan lo aveva salvato, Mel l’aveva spinto a non arrendersi. Due delle persone più care della sua vita lo avevano tirato fuori dalle tenebre di sé stesso, e adesso una di loro era nei guai.

Robert sapeva che Mel non se la stava passando bene, tra i guai con il suo matrimonio e quelli con l’alcool, con la giustizia e con tante altre cose ancora.

All’improvviso ebbe un’illuminazione.

Era stato invitato al 25th American Cinematheque Awards, un prestigioso riconoscimento alla sua carriera, e aveva bisogno di un presentatore.

Afferrò il telefono e compose il numero che aveva in testa. Gli rispose quasi subito.

-Pronto, Mel?-

 

 

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Quella sera, sul palco, le luci accecanti gli facevano strizzare gli occhi di fronte a tutti i suoi colleghi, a tutti i produttori, e lui, Robert Downey Jr, cercava ad ogni costo di tenerli aperti. Respirava l’atmosfera riempiendosi di una frizzante e sana tensione. Quello che doveva dire era fondamentale.

Nelle sue iridi color caffè quella scintillante serata si rifletteva in un baluginio irreale, che faceva sembrare il suo passato una dura lezione di vita che era riuscito a superare con il massimo dei voti.

Nel tempo che gli era stato concesso per parlare di sé, Robert guardò in un angolo dietro il palco, dove Mel aspettava, e gli fece un cenno incoraggiante, come tante volte l’uomo aveva fatto con lui. Strinse il microfono e cominciò a parlare.

-Ho chiesto a Mel di presentare questo premio per me, per una ragione. Perché, quando non riuscivo a restare sobrio lui mi disse di non rinunciare alla speranza, e mi ha aiutato a trovare la mia fede, che poteva essere la sua o quella di chiunque altro, purché fosse radicata nel perdono. Non riuscivo a farmi assumere, così mi ha offerto il ruolo da protagonista in un film che in realtà era stato creato per lui.-

Robert guardava il pubblico, che guardava lui.

-Mi ha messo un tetto sulla testa, e cibo in tavola… Soprattutto mi ha detto che se avessi accettato la responsabilità dei miei errori e abbracciato quella parte della mia anima che si era sporcata… Abbracciare il cactus, lo chiama lui… Ha detto che se avessi abbracciato il cactus abbastanza a lungo sarei diventato un uomo più umile. La mia vita avrebbe ripreso la giusta piega. L’ho fatto, e ha funzionato.-

Sguardi sopresi, sguardi interessati. Dovevano esserlo, era giusto così, perché la gente quelle cose doveva saperle.

-Tutto ciò che mi chiese in cambio fu la promessa che un giorno avrei dato un piccolo aiuto a qualcun’altro. E’ ragionevole supporre che allora non immaginava che quel qualcun’altro sarebbe stato lui, o che quel “un giorno” sarebbe stato questa sera.-

Risate. Gente che veniva a conoscenza della verità. Anche lui e Mel risero.

-Ad ogni modo, in questa occasione speciale, e alla luce di queste recenti festività, incluso il Columbus Day, vi chiedo umilmente di unirvi a me, a meno che non siate completamente senza peccato, nel qual caso credo abbiate sbagliato a scegliere questo fottuto settore,- un bip coprì la parolaccia, come se a Hollywood fosse la cosa peggiore che avessero sentito. -Nel perdonare il mio amico per i suoi errori, offrendogli l’assoluzione che avete offerto a me, e permettendogli di continuare a dare il suo grande contributo alla nostra arte senza vergogna. Lui ha abbracciato il cactus abbastanza a lungo!-

E sentirli applaudire, da una parte poter abbracciare quell’uomo che aveva fatto tanto per lui, con la donna della sua vita che lo guardava dall’altra… tutto quello sarebbe stato sufficiente, ma spremere il succo della vita e viverne ogni istante significava anche ascoltare Mel che, senza che nessuno sentisse, gli diceva, con un orgoglio che aveva qualcosa di paterno: -Ragazzino, tutti quelli che non credevano che saresti arrivato da qualche parte… Dovrebbero veramente vederti ora.-

 

 

Fine.

 

 

N.d.A.

 

Una mia cara amica mi ha fatto capire quanto fosse importante vivere in movimento, cambiare e rinfrescarsi un po’ la mente. Sembra facile, ma io, come Robert, spesso devo sbattere tante volte contro lo stesso muro prima di muovermi davvero. Così ho tirato fuori questo progetto che avevo in mente da molto tempo ma che non ho mai elaborato, e l’ho realizzato.

L’ho scritta perché amo Robert, perché è una persona speciale con un’anima particolare, e perché mi ha sostenuto in momenti difficili.

Trovo che quest’uomo sia una fonte di ispirazione, qualcuno da ammirare con i suoi pregi e i suoi difetti, una persona da accettare completamente e amare fino in fondo come si ama un uomo, non un mito, e credetemi, la differenza c’è.

Per me, lui è stato l’uomo che mi ha consigliato di abbracciare il cactus.

  
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