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Autore: vannagio    19/01/2014    11 recensioni
«La rossa al bancone ti punta da più di un’ora».
Connor ripose la chitarra nella custodia e sollevò lo sguardo. L’esibizione si era conclusa da un pezzo, l’ora di chiusura era vicina. Per via di qualche tizio collassato sul pavimento e di due o tre ubriaconi ai tavoli, il Goldfinger sembrava a stento sopravvissuto a un rave party. Non c’era da sbagliarsi, quindi. Honey stava sicuramente parlando della tipa che sorseggiava un cocktail colorato al bancone, che aveva i capelli rossi e uno stacco di coscia vertiginoso. Connor scosse la testa.
«Seee, certo, come no».
«Ti dico di sì, non fa che guardare da questa parte. Chi dovrebbe puntare? Me?».
«Be’, può essere. Magari è lesbica».

[Dedicata a OttoNoveTre, che quest'anno fa il compleanno con otto ore di anticipo. Tantissimi auguri!]
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Gender Bender | Contesto: Contesto generale/vago
- Questa storia fa parte della serie 'Una storia di metallo e inchiostro'
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Per la serie…
“Quando vannagio vaneggia!”







Dedicata a OttoNoveTre, che quest'anno fa il compleanno con otto ore di anticipo.
Primo caso di missing moment pubblicato prima della storia vera e propria, ed è tutto per te!
Tantissimi auguri!




Misunderstanding




«La rossa al bancone ti punta da più di un’ora».
Connor ripose la chitarra nella custodia e sollevò lo sguardo. L’esibizione si era conclusa da un pezzo, l’ora di chiusura era vicina. Per via di qualche tizio collassato sul pavimento e di due o tre ubriaconi ai tavoli, il Goldfinger sembrava a stento sopravvissuto a un rave party. Non c’era da sbagliarsi, quindi. Honey stava sicuramente parlando della tipa che sorseggiava un cocktail colorato al bancone, che aveva i capelli rossi e uno stacco di coscia vertiginoso. Connor scosse la testa.
«Seee, certo, come no».
«Ti dico di sì, non fa che guardare da questa parte. Chi dovrebbe puntare? Me?».
«Be’, può essere. Magari è lesbica».
Honey staccò i cavi delle casse, sbuffando.
«Non te ne va mai bene una. Si può sapere come deve essere la tua donna ideale?». Connor si morse la lingua a sangue, mentre Honey sbarrava gli occhi come folgorata da un'improvvisa illuminazione. «Oppure…».
Una gocciolina di sudore freddo gli scese lungo la tempia.
«Oppure cosa?».
«Oppure c’è già qualcuno».
Ricominciare a respirare fu un sollievo, peccato che non si fosse minimamente reso conto di aver trattenuto il respiro.
«No, non c’è nessuno».
«Andiamo, a me puoi dirlo!».
Connor sospirò, sconfitto.
«E va bene. Ci sarebbe, ma è fuori dalla mia portata. Contenta?».
«Be’, potresti…».
«No, non potrei. Discorso chiuso. Non parliamone più».
Connor era già pronto. Honey avrebbe sicuramente insistito e insistito e insistito, cercando di vincerlo per sfinimento. Ma lui non avrebbe ceduto per nessuna ragione al mondo, così avrebbero finito col litigare e non parlarsi per qualche giorno. Questa volta, però, lei lo colse di sorpresa, riprese a occuparsi delle casse senza aggiungere nulla.
«Scusa, Connor».
O quasi.
«Non ti devi scusare».
«No, non mi riferivo alla rossa ma… a quella storia del cinema, quando ti ho dato buca».
Ah, ecco. Connor si grattò la nuca, a disagio. In realtà non ci aveva pensato più. E adesso che lei tirava fuori l'argomento, scopriva che lo lasciava... indifferente.
«Non preoccuparti, è acqua passata».
Honey si stava massaggiando il polso, mordendosi il labbro.
«Sì, ma non ti ho mai chiesto scusa».
«Be’, tu non lo fai mai in generale, quindi…».
«Lo so, infatti sto provando a cambiare il mio carattere da stronza».
«Uh, che bella novità!».
Honey si imbronciò e lo colpì sulla faccia con uno spartito. Risero entrambi. Poi Ben li sgridò, perché non avevano ancora finito di mettere a posto la loro roba. Così tornarono a lavoro, sghignazzando sotto i baffi per via di Jonathan, che faceva il verso a Ben alle sue spalle.
«Hai bisogno di un passaggio per tornare a casa?», chiese Connor, quando anche l'ultimo amplificatore venne riposto nel furgoncino volkswagen.
«No, ho la moto. E poi non torno subito a casa».
Gli occhi di Honey si posarono su JD, che la stava aspettando fumando una sigaretta, accanto alla moto.
Domanda scema, Connor. Domanda davvero scema.
«Ah, capito».
«Però potresti offrilo a lei, il passaggio...».
Honey ammiccò e Connor inarcò un sopracciglio. La rossa li aveva seguiti fino al parcheggio e bighellonava accanto al furgoncino.
«Dai, piantata!».
«Uff, quante prove ti servono?».
«Ho detto di piantarla».
«Come vuoi». Gli diede un bacio sulla guancia. «Ci vediamo dopodomani, al garage di Ben».
«D’accordo».
La guardò correre verso JD, poi decise che era meglio non affondare il coltello nella piaga e voltare le spalle alla scenetta romantica che si sarebbe sicuramente consumata di lì a poco. Intanto la rossa era ancora là, studiava il furgoncino con l’occhio critico dell’esperta. E porca puttana se erano lunghe quelle gambe!
Tentar non nuoce, si dice. E tentiamo, allora!
«Ehi, stavi cercando di fregarmi il furgoncino o ti serviva un passaggio?».
Aveva un sorriso rosso fuoco, come i suoi capelli.
«Entrambe le cose, in realtà. Questo furgoncino è una figata!».
Connor sorrise di rimando. Spalancò lo sportello del passeggero, lo richiuse subito dopo che lei fu salita e poi salì a sua volta dal lato del conducente.
«Allora, tu…».
«Io sono Connor».
«E se state ascoltando questo messaggio, siete della resistenza». La rossa scoppiò a ridere, sotto lo sguardo perplesso di Connor. «Andiamo, non dirmi che non hai mai visto la saga di Terminator!».
«Certo che l’ho vista, ma…».
Ma… cosa?
L’obbiezione evaporò dal suo cervello senza lasciare traccia nel momento esatto in cui la rossa accavallò le gambe, gambe lunghe, lunghissime, che finivano in una minigonna di paillettes corta, cortissima, sul cruscotto del furgoncino. Le calze autoreggenti nere avevano un merletto di pizzo sul bordo che ti faceva venire voglia di rincorrere i ricami con le labbra. Connor si allargò il collo della felpa, improvvisamente si scoppiava dal caldo dentro l’abitacolo, e girò le chiavi nel quadro.
«Tu, invece, come ti chiami?».
«Rouge».
Come quella degli x-men?
«Che razza di nome è Rogue?».
«Non lo so, che razza di nome è Wolverine?». Lei sorrise di nuovo e Connor si sentì come se gli avessero dato una botta in testa. «No, hai capito male. È Rouge, non Rogue».
«Ah, oh, scusa. Quindi… Rouge, dove ti porto? A casa?».
«Certo, però prima dovrei andare in un posticcino a prendere una cosuccia, se non ti dispiace».
«Nessun problema, figurati. Dove…».
«Tu vai, ti guido io».
Era difficile tenere gli occhi sulla strada, con quelle gambe da giraffa a poco più di trenta centimetri dalla sua mano. Senza contare le tette che ballonzolavano come budini ogni volta che la ruota del furgoncino prendeva una scaffa. Non ci pensare, Connor. Ma come cazzo faceva a non pensarci? Erano lì, a portata di mano, e avevano un aspetto morbido e cremoso e… Non ci pensare, non fare la figura del cafone.
«Siete bravi, tu e la tua band», disse Rouge.
«Cosa? Ah, uhm… grazie».
«È così che ti guadagni da vivere, suonando nei locali?».
«No, la musica è solo un hobby. Faccio il magazziniere per un ferramenta. Tu? Accetti spesso passaggi dagli sconosciuti?».
«Solo quando hanno la faccia da cucciolo come te». Connor sbiancò e lei ridacchiò. «Potrei farti la stessa domanda, comunque. Offri spesso passaggi alle sconosciute? Ti piace rischiare o sei un po’ sprovveduto?».
«Be’, senza offesa, ma nemmeno tu sembri pericolosa». Il suo sorriso rosso fuoco però diceva il contrario. Connor avvampò. «Non ti ho mai vista al Goldfinger, prima di stasera».
«Sì, perché oggi avevo la serata libera. Di solito lavoro in un locale… il Misunderstanding. Ne hai mai sentito parlare?».
Connor scosse la testa.
«Cosa fai lì? Canti? Hai l’aria di una che sa cantare».
«Qualcosa del genere», rispose lei, mentre guardava fuori dal finestrino, arrotolandosi una ciocca rossa intorno al dito. Poi i suoi occhi guizzarono, improvvisamente attenti. «Ci siamo, rallenta. Ecco, accosta qui. Qui va benissimo».
«Sei sicura?».
«Sicurissima».
Qui era un edificio fatiscente a tre piani. I mattoni rossi di cui era fatto erano ormai neri di smog e muffa. La maggior parte delle imposte penzolavano sbilenche. Soltanto la finestra dell’ultimo piano era illuminata da una luce soffusa, come quella di una candela. Forse era saltata la corrente elettrica. E viste le condizioni in cui versava l’edificio non era difficile crederlo.
«Allora… ti aspetto qui?».
«Non dire sciocchezze, sali anche tu. Ti presento il mio amico!».
«Non so, è tardi. Non vorrei disturbare».
Rouge scoppiò a ridere, come se avesse appena sentito una battuta spassosissima. Tre secondi più tardi, senza sapere esattamente come o perché, Connor si stava arrampicando su una rampa di scale ripidissima e scricchiolante. In realtà il culetto a mandolino foderato dalla gonna di paillettes rossa che dondolava davanti al suo naso era un perché più che sufficiente.
Si fermarono solo quando raggiunsero l’ultimo piano. La carta da parati del pianerottolo si trovava nelle stesse condizioni di quella dei pianerottoli sottostanti: gialla e gonfia di… urina, a giudicare dall’odore pungente. Se non fosse stato per il campanello funzionante, che Rouge stava suonando insistentemente, Connor avrebbe detto che quell’appartamento era sfitto, esattamente come quelli dei piani di sotto.
La porta si aprì.
«Vin, finalmente, ci hai messo una vita!».
«Scusami, fragolina. Ero… impegnato».
Vin aveva l’aspetto di chi si è svegliato da poco. O meglio, aveva l’aspetto di chi non si sveglia se non è qualcun altro a svegliarlo e poi si alza molto lentamente e molto svogliatamente. Aveva capelli lunghi e arruffati, due linee di matita nera sbavata sotto gli occhi, una pelle pallida, da malato, e un corpo molto efebico. E Connor aveva notato quei particolari perché Vin indossava una vestaglia da camera allacciata in vita che lasciava scoperto il busto, pantaloni di seta, un paio di pantofole e… nient’altro.
Rouge lo baciò sulla bocca, facendo scorrere le unghie laccate di rosso sul suo petto. Vin le palpò il culo e lei rise. Connor dovette lottare contro se stesso per non darsi del coglione davanti a tutti. Cosa c’era che non andava in lui? Possibile che beccasse solo quelle impegnate e che non se lo filavano nemmeno di striscio?
«Be’, allora io vado».
Fece per scendere le scale, ma si sentì trattenere per la felpa, da dietro.
«Andare dove? Dai, entra. Faccio in un attimo, promesso».
Era un modo elegante per dire che si sarebbe fatta una sveltina con Vin? Connor esitò, indeciso. Di figure da coglione ne faceva abbastanza, con Honey.
«Veramente…».
Rouge fece spallucce.
«Se vuoi andare, non ti trattengo. Insomma, me lo hai offerto tu il passaggio, non te l’ho mica imposto. Però capisco che ti secchi aspettare. Non ti preoccupare, tornerò a casa a piedi».
«Ti accompagnerei io, fragolina», disse Vin. «Ma lo sai che non ho la macchina».
«Non vi preoccupate, torno a casa a piedi tutte le sere. Al massimo prendo la metropolitana».
La metropolitana. Alle tre del mattino. Con quella gonna. E quelle gambe.
Rouge entrò nell’appartamento, insieme a Vin. Prima che la porta si chiudesse, Connor era già dietro di loro. Lei gli sorrise, riconoscente, e per premiarlo gli diede un bacio sulla guancia.
«Mettiti comodo, torno subito».
Rouge sparì dietro a una tenda colorata insieme a Vin e Connor si guardò intorno. In effetti, per mettersi comodi c’era l’imbarazzo della scelta. Il pavimento era ricoperto da tappeti persiani, grossi cuscini rossi, divanetti morbidi e pouf vaporosi. Qua e là c’erano tavolinetti di legno scuro, sui quali erano stati poggiati bicchieri con impronte di labbra rosse, bottiglie vuote, candele profumate, stecche fumanti di incenso e porta ceneri dai disegni etnici con… quella era una canna? Connor annusò l’aria e sollevò il naso, notando solo in quel momento la cappa di fumo cremoso e lattiginoso sul soffitto. Questo spiegava perché si sentiva improvvisamente la testa leggera.
C’erano una decina di persone, nella stanza. Un tizio dai capelli viola e dagli occhi rovesciati stava disteso a pancia in su sul pavimento. Un altro sedeva su una panca, accanto alla finestra e guardava fuori con sguardo trasognato. Un altro ancora fumava da una pipa, dava dei lunghi tiri, risucchiando le guance. Dall’espressione sembrava che stesse ricevendo o facendo un pompino meraviglioso. Nessuno badava a Connor, in piedi come un fesso in mezzo alla stanza.
«Ehi, dolce stecca di liquirizia, qui c’è posto, se ti va!».
Aveva cantato vittoria troppo presto. Seduto su un divanetto di vimini, un tizio elegantissimo, dal sorriso abbacinante, guardava nella sua direzione. Con quel completo giacca e cravatta d’alta sartoria era completamente fuori posto.
«Dice a me?».
«Vedi qualcun altro cosciente, in questo posto, a parte me e te?». Diede una pacca al cuscino. «Avanti, bellezza, non essere timido».
Connor si lasciò cadere sul divano di mala voglia, sedendosi il più lontano possibile dal tizio. Che però gli si appiccicò subito addosso, sempre col sorriso sfavillante sulle labbra.
«Dimmi, cioccolatino alla crema, sei qui per Vin, il fumo, l’assenzio o tutte e tre le cose?».
Casualmente il suo braccio era finito sullo schienale del divano, esattamente dietro le spalle di Connor.
«No, io… ho solo dato un passaggio a Rouge».
«Aaah, sei uno di quelli, quindi…».
«Uno di quelli? In che senso?».
«Uno di quelli che Rouge si rigira come vuole».
«No, ti sbagli. Le ho offerto io il passaggio».
Il sorriso abbacinante si allargò, facendosi malizioso. Il tizio gli diede un buffetto affettuoso sulla coscia. «Convincerti a fare quello che vuole lei, facendoti credere che sia una tua idea, è una delle specialità di Rouge». Un altro buffetto sulla coscia e questa volta la mano rimase lì, un po’ troppo vicino al pacco per i gusti di Connor. «Dai retta alla zia. Resta con me, ti terrò al sicuro dalle sue grinfie».
Connor prese la mano e la poggiò sul cuscino.
«Non che non apprezzi il pensiero, ma credo che noi due viaggiamo su lunghezze d’onda diverse».
«Che modo elegante per dire che non sei frocio! Perdonami, tesoro. L’assenzio inibisce il mio gay-radar e faccio confusione». Agitò il bicchiere davanti al naso di Connor, conteneva un dito di un liquido verde e semitrasparente. «Ne vuoi un po’? Magari facciamo confusione insieme».
«Ehm… no, grazie». Connor fece vagare lo sguardo sulla stanza, alla disperata ricerca di uno spunto per cambiare argomento. Non lo trovò. «Lei perché è qui?».
«Non darmi del lei, mi fai sentire decrepito… Di solito vengo qui per l’assenzio e per Vin».
«In che senso per Vin? Pensavo che lui fosse…».
«Etero?». Il tizio lo guardò come si guarda un bambino ingenuo. «A Vin piace variare, oggi il cono, domani la coppetta, dopodomani… chi può dirlo? Entrambi, forse! In ogni caso, oggi sono in missione».
Connor alzò il sopracciglio.
«Missione?».
«Li vedi quei due lì?». Indicò un ragazzo e una ragazza. Lui era biondo e palestrato, se ne stava stravaccato su una poltrona rossa e sorrideva in direzione del soffitto. La ragazza sedeva sulle sue ginocchia e gli si era accoccolata contro il petto, sembrava assopita. La maglietta lasciava scoperta una spalla, sulla quale era stato tatuato un drago verde. «La mia missione stasera è fare passare il cattivo umore a quei due lì. Però non è detto che al dovere non debba accompagnarsi il piacere, tu che ne dici, bombolotto alla vaniglia?».
Il viso del tizio era pericolosamente vicino, adesso. Connor cercò di scostarsi, ma il divano a due posti era troppo stretto, il bracciolo gli premeva contro il fianco e lo faceva sentire in trappola.
Qualcuno inciampò sul suo piede, salvandolo in corner.
«Ma che…».
Un ragazzino sui quindici anni si stava rimettendo in piedi. Indossava una felpa grigia con lo stemma di Capitan America e aveva il viso seminascosto dal cappuccio sollevato. Da dove era sbucato fuori? E soprattutto che ci faceva un ragazzino di quell’età in un posto come quello?
«Ehi, scricciolo!».
«Ciao, Bree».
«Era un po’ che non ti si vedeva in giro».
«Sì… scusa, vado di fretta».
Uscì dall’appartamento prima che… Bree? potesse chiedergli spiegazioni. Che però non sembrava offeso. «Dove eravamo rimasti?», chiese infatti, tornando a fissare Connor con espressione da gatto geloso.
«Ehm…».
«Bree, non ti si può lasciare solo nemmeno un minuto!».
Salvato in corner per la seconda volta di fila, quella sì che era la sua serata fortunata. Il sorriso rosso di Rouge lo mandò K.O. per qualche istante e Bree scosse la testa, sconfitto.
«Andato, perso per sempre».
«Anche quei due lì», constatò Vin, indicando gli amici di Bree.
Rouge sgranò gli occhi.
«Ancora? Pensavo che il Capodanno al Misunderstanding li avesse tirati un po’ su».
Bree sbuffò, agitando la mano come per scacciare una mosca. «L’unica cosa che ha tirato su si trova su questo divano». Sorrise in direzione di Connor. «Nei miei pantaloni».
Connor deglutì.
Rouge roteò gli occhi.
«Andiamo, Connor. O finirà col stuprarti».
Connor non aveva intenzione di farselo ripetere due volte.
«Oh, certo, perché invece le tue intenzioni sono onorevoli, vero?», protestò Bree.
Prima che riuscisse a mettersi in piedi, lo afferrò per il viso e lo baciò sulla bocca. Quando lo lasciò andare, Connor era ormai rigido come un pezzo di legno. E non nel senso buono.
«Scusa, dolcezza». Il sorriso di Bree era di nuovo abbacinante. «Hai una bocca troppo graziosa, non ho resistito».


Il motore del furgoncino borbottò un po’, poi si accese definitivamente.
«Adesso? A casa?».
Rouge accavallò di nuovo le gambe sul cruscotto e sorrise. Aveva scoperto i suoi punti deboli, era chiaro.
«Be’, in realtà, hai presente quella cosuccia che dovevo prendere da Vin? È saltato fuori che non l’aveva con sé, Vin l’ha affidata a un amico in comune. Ecco, se tu potessi accompagnarmi da lui, in modo che io possa recuperarla…».
«Ah, ehm… io pensavo che…».
«Cosa?».
Non poteva dire ad alta voce cosa aveva pensato che lei avesse preso da Vin, quando erano scomparsi dietro la tenda colorata. Rouge l’avrebbe come minimo insultato. Come minimo. Quelle unghie erano troppo lunghe e troppo appuntite, per mettere a repentaglio le sue palle. Si sentiva un idiota ad aver pensato male di lei. Forse era colpa di quella checca, che gli aveva messo una fastidiosa pulce nell’orecchio. Però adesso l’aveva scacciata. Così sorrise.
«Niente». Azionò la freccia e si inserì in carreggiata. «Indicami la strada».
«Sempre dritto, per adesso. E dimmi cosa pensavi».
«Niente, te l’ho detto». Optò per una mezza verità. «Avevo capito che tu e Vin… che eravate una coppia».
L’angolo della bocca di Rouge si arricciò.
«No che non lo siamo. Abbiamo avuto dei… trascorsi. Adesso siamo solo amici. In ogni caso… non mi conosci da troppo poco tempo per essere geloso?».
«Geloso? No. Figurati, ero solo…».
«E poi cosa dovrei dire io, uhm? Pensi non abbia notato come guardavi la tua amichetta?».
«Amichetta?».
«Quella che canta nella tua band, quella del parcheggio del Goldfinger».
«Ah, quella amichetta». Per un attimo, chissà perché, Connor aveva pensato che stesse parlando della checca dell’appartamento di Vin. «Siamo solo amici anche noi, poi lei ha un ragazzo».
«Sì, l’ho notato».
Connor fissava la strada, ma sentiva lo sguardo ustionante di Rouge addosso. Un po’ gli ricordava Melisandre de Le Cronache Del Ghiaccio E Del Fuoco. Non sapeva se la cosa lo spaventava o lo eccitava. Forse tutte e due.
«Svolta a sinistra, per favore. Vedi l’insegna di quel discopub? C’è un vicolo subito prima, infilati lì dentro».
Connor obbedì e fermò il furgoncino proprio davanti a quella che aveva tutta l’aria di essere l’uscita sul retro del discopub.
«È questo il Misunderstanding?».
«Oh, no. Qui ci lavora l’amico di cui ti parlavo. Forza, andiamo. Prima iniziamo, prima finiamo».
«Dici che posso lasciare qui il furgoncino?».
Rouge gli scompigliò i capelli, affettuosa. A lui si arricciò la pelle sulla nuca.
«Rilassati, sei con me. Nessuno toccherà il tuo furgoncino».
Suonò al citofono e pochi istanti dopo anche quella porta si spalancò. Il tizio che era venuto ad aprire, però, non poteva essere più diverso da Vin di così.
«Buonasera, Rouge».
«Buonasera, Grande Jack».
Ecco, grande era l’aggettivo giusto. Grande Jack era un colosso nero di due metri, con delle spalle quadrate che riempivano tutto lo spazio lasciato libero dalla porta. Era un muro vivente, impossibile da valicare. I suoi bicipiti erano grossi come le cosce di Connor. La maglietta aderente sembrava sul punto di esplodere sotto la pressione dei pettorali super-pompati. Le sue mani erano grosse come le vanghe che si usano per spalare la neve e, Connor ne era sicuro, dovevano fare altrettanto male quando ti colpivano sulla testa.
Tutto di Grande Jack urlava “Si salvi chi può!”.
Anche l’ombretto dorato sulle palpebre, il rossetto scarlatto sulle labbra e il reggiseno da donna che si intravedeva sotto la maglietta nera. Anzi, quei tre particolari urlavano più di tutti e mettevano in guardia chiunque avesse la felice idea di insultare Grande Jack per le sue scelte stilistiche.
«Tanti saluti da Vin. Mi fai entrare? Si ghiaccia qui fuori».
«E lui?».
«Sta con me, è a posto».
Grande Jack fece strada ed era così grande che non si preoccupava di dare le spalle a uno sconosciuto. O di lasciar intravedere il tanga rosa dai pantaloni, anche. Percorsero un lungo corridoio, i tunzi tunzi delle casse diventavano sempre più forti, fin quando non raggiunsero il locale vero e proprio, dove era stipata una marea di gente, in piedi, al bancone, seduta ai tavoli, che ballava in pista. Le luci psichedeliche rendevano impossibile distinguere un corpo dall’altro, trasformando la calca di gente in un unico immenso essere palpitante e sudato.
Grande Jack si fermò all’improvviso, davanti al bancone.
«Lui deve aspettare qua».
Rouge sorrise in direzione di Connor.
«Per te è un problema?».
«No, affatto. Ordino qualcosa da bere, se vuoi».
«Sarebbe una bellissima idea! Per me prendi un Sex On The Beach, è il mio preferito».
Gli strizzò l’occhio e lo baciò di nuovo sulla guancia, poi si fece inghiottire dalla folla insieme a Grande Jack. Connor sorrise in direzione del punto in cui era scomparsa, fin quando non si rese conto che il barman lo stava fissando con un sopracciglio inarcato e un’espressione compassionevole.
Il primo quarto d’ora passò abbastanza velocemente. Connor si scolò la sua birra appoggiato al bancone, dondolando la testa al ritmo con i tunzi tunzi. Il secondo quarto d’ora fu più difficile da mandare giù, invece. Connor scandagliava distrattamente la folla, nella vaga speranza di individuare Rouge. Chissà che aspetto aveva, quando ballava. Se la immaginò lì, incuneata tra tutte quelle persone, i capelli rossi e sudati incollati al viso, il corpo che disegnava esse sinuose mentre si dimenava. Non appena sarebbe tornata, l’avrebbe invitata a ballare. Non c’era fretta di riaccompagnarla a casa, in fondo. E l’inquilino dei piani bassi aveva tanta voglia di vederla ballare. Non proprio su una pista da ballo, ma…
Ma quello non è il ragazzino dell’appartamento di Vin?
Connor strabuzzò gli occhi. Felpa grigia con lo stemma di Capitan America, cappuccio sollevato, andamento circospetto... coincideva tutto. Era troppo strana come coincidenza, così lasciò due banconote sul bancone e si tufò all’inseguimento, nel punto in cui l’aveva visto venire risucchiato dal vortice di corpi. Lo individuò quasi subito, fortunatamente. Muoversi nella folla era come nuotare in un pantano, ma Connor riuscì ugualmente ad allungare una mano e ad acciuffarlo per la felpa. Sentendosi tirare, il ragazzino si voltò, non appena lo vide sgranò gli occhi e cominciò a divincolarsi.
«Aspetta un attimo, voglio solo chiederti…».
Il ragazzino si liberò dalla sua presa e urtò due tipacci, facendo rovesciare sulle loro giacche le birre che tenevano in mano. Solo che il ragazzino era minuscolo, quando i tipacci si guardarono intorno in cerca del colpevole era già sparito e Connor si trovò a tu per tu con i loro ghigni incazzati.
«Oye, cabrón, no tan ràpido! Guarda cosa hai fatto!».
«Non sono stato io, e poi i coglioni siete voi che bevete birra in mezzo a ‘sto bordello».
Si era fatto cullare dall’illusione che in quella bolgia infernale non avrebbero potuto picchiarlo. Invece lo spagnolo lo colpì in pieno, sulla mascella. Il dolore gli fece vedere le stelline. Il suo amico gli rovesciò il resto della birra sulla testa, ridendo.
«Usted puede ir ahora, hijo de puta».
Tornò al bancone con la mascella dolorante e puzzolente di birra.
«Connor, eccoti finalmente! Dove ti eri cacciato?».
Rouge lanciava sorrisi civettuoli al barman. Il bicchiere da cocktail del Sex On The Beach era vuoto, adesso.
«Hai fatto?», chiese sconsolato.
«Sì. Ma stai bene? Cosa è successo al tuo mento?».
«Niente, lascia perdere, ti accompagno a casa».
«Connor?».
«Uhm?».
Il sorriso di Rouge era più rosso che mai.
«Ti va un ballo, prima?».
All’improvviso la mascella non faceva più tanto male.
Rouge lo prese per mano e lo condusse sulla pista da ballo, col passo sicuro di una pantera.
Connor ci aveva azzeccato alla grande. Ballare con lei era come sbronzarsi, senza i fastidiosi effetti collaterali del dopo sbornia. Le circondò la vita con entrambe le braccia, per averla faccia a faccia. Gli piaceva che fosse così alta, perché poteva guardarla negli occhi mentre la stringeva. La percepiva tonica e scattante quando le sfiorava le braccia, il ventre piatto o le cosce, ma morbida e accogliente sul seno che gli premeva addosso. Mentre Rouge gli si strusciava contro, Connor si sentiva la testa gonfia come un pallone. Esattamente come quella volta che si era ubriacato al garage di Ben, quando si era convinto di trovarsi su una mongolfiera che saliva su e su e su e… Oh, cazzo, c’era qualcos’altro che nel frattempo era salito su!
«Hola, preciosa, lascia perdere el niño e balla con nosotros!».
I due tipacci della birra rovesciata avevano accerchiato Rouge, che li guardò con sufficienza.
«Spiacente, ragazzi. Sto bene con chi sto».
L’ego di Connor crebbe in altezza di cinquanta centimetri.
«Vamos, non farti pregare!».
Uno dei due l’aveva afferrata per un braccio.
«Lasciami andare!», protestò lei, divincolandosi dalla sua presa.
Connor si frappose tra Rouge e i due tipacci.
«L’hai sentita?».
«Non ti immischiare, cabròn!».
A parlare era stato il tizio che l’aveva colpito poco prima. Connor gli restituì il pugno e lui causò una specie di effetto domino finendo addosso a una decina di persone. Una ragazza strillò e la gente si ammassò subito sui lati dello stanzone, facendo largo tutto intorno a loro.
«Hijo de puta!».
Il secondo tipaccio andò alla carica, placcando Connor contro un pilastro. Gli spaccò il labbro con un manrovescio, poi gli scaricò nello stomaco una sequenza di pugni che lo lasciò senza fiato. Rouge tentò di tirarlo via, colpendolo sulla schiena, ma si beccò una gomitata allo sterno e cadde per terra. Intanto l’altro tizio si era rimesso in piedi e da come faceva scroccare le nocche sembrava intenzionato a prendersi la sua parte di divertimento. Sollevò il pugno chiuso, Connor serrò gli occhi e… Non successe niente. Riaprendo gli occhi, vide il mare di persone dividersi in due.
Tra le due sponde avanzava Grande Jack.
I due tipacci si allontanarono di un passo da Connor, con le pupille ridotte a due puntini. Lui ne approfittò per aiutare Rouge ad alzarsi.
«Ha cominciato lui», disse uno dei due tipacci.
«Non è vero, Jack», intervenne Rouge. «Connor ha solo tentato di difendermi».
Grande Jack si fermò davanti ai due tipacci. Che erano grossi. Ma lui di più. E li guardò dall’alto in basso, con espressione di pietra. Gli occhi ridotti a due fessure cattive, contornate di oro. Le labbra stirate in due linee sottilissime e scarlatte. I pettorali guizzavano pronti a scattare, gonfiando le coppe del reggiseno sotto la maglietta.
«Fuori. Di. Qui».
I due tipacci evaporarono in un nano secondo.
Cinque minuti più tardi, Connor si stava facendo medicare da Grande Jack nel suo ufficio. Aveva mani grosse come vanghe, sì, ma delicate come piume. Rouge assisteva alla mediazione, seduta su una poltrona a gambe accavallate.
«Mi piacciano gli uomini coraggiosi». Nessuna inflessione maliziosa nella voce. Nessun ammiccamento. Una semplice costatazione. Lo sguardo duro e inflessibile di Grande Jack era fisso sul labbro spaccato che stava tamponando con un batuffolo imbevuto di disinfettante. «Da adesso in poi tu qui sei il benvenuto».
«Ehm… grazie?».
Rouge scoppiò a ridere.
Solo quando furono tornati nel furgoncino, Connor si concesse un sospiro di sollievo.
«Non è facile impressionare Grande Jack», disse Rouge.
«Lo credo bene».
«Dicono che i suoi pompini siano miracolosi».
«Non sembra uno che su… cioè, che fa pompini. Sembra uno che costringe gli altri a farli a lui».
Rouge rise.
«Di solito sì. Ma Grande Jack fa delle eccezioni, ogni tanto. E qualcosa mi dice che per te la farebbe eccome, un’eccezione. Sai perché dicono che sono miracolosi, i suoi pompini?».
«No, e non vedo come potrei saperlo».
«Dicono che i suoi pompini ti succhiano via anche i guai. O le pene d’amore, se preferisci».
«Non starai suggerendomi di…».
Rouge fece spallucce.
«Che c’è di male a sperimentare?».
«C’è che io personalmente preferisco il classico».
Il sorriso rosso fuoco tornò alla ribalta.
«Ah, be’, invece a qualcuno piace caldo».
Connor sbuffò.
«Quindi adesso dove ti porto?».
Sperava tanto che non gli dicesse a casa, perché Rouge sembrava il genere di donna che gli uomini li lascia fuori, sulla porta. A guaire come cuccioli abbandonati. A casa, quindi, in quel caso sarebbe significato salutarla e… be’, sì, rimanere in bianco.
«Lo so che ti avevo promesso che questa sarebbe stata l’ultima tappa, ma…».
Rouge si morse il labbro, ma in un modo che di indeciso e imbarazzato non aveva nulla.
«Ma…?».
«La cosuccia che dovevo prendere da Grande Jack… non è mia, in realtà. La devo portare a un tizio».
Connor aggrottò la fronte.
«Senti, fino ad ora non ti ho chiesto nulla perché pensavo che non fossero affari miei…».
«E infatti ti sono infinitamente grata per la tua discrezione, Connor». Rouge gli si fece vicina e prese ad accarezzarlo sulla nuca, come si fa con un gatto. Presto si sarebbe messo a fare le fusa, ne era sicuro. «Sarà una cosa velocissima, te lo prometto. Poi…». Soffiò sul suo orecchio, mentre una mano giocherellava con la fibbia della cintura. «…ti prometto che ti ripagherò a dovere».
Connor deglutì a vuoto.
«No, ma… non è che… che io mi a-aspetti qualcosa i-in…».
«Oh, lo so che sei un bravo ragazzo, me ne sono accorta». Gli prese in bocca il lobo dell’orecchio e succhiò. «Ma io pago sempre i miei debiti». Tornò al suo posto, lasciandolo intontito e affamato come un lupo.
Quando finalmente Connor riuscì a infilare le chiavi nel quadro, le sue mani tremavano ancora.
«Ah-ehm. Fai strada, allora?».
Rouge accavallò le gambe sul cruscotto.
«La prima a sinistra».


Il sexy shop dava su una stradina abbastanza imboscata, tra due grossi edifici grigi. L’insegna al neon era spenta, la saracinesca abbassata per metà, ma le luci all’interno del negozio erano accese e dalla vetrina si intravedeva una bambola gonfiabile con un braccio alzato che sembrava pronta a salutare i passanti.
«E ‘sto tizio ha aperto il suo negozio solo per riavere questa… cosuccia?».
«Esatto. Barnaby ci tiene alle sue cose».
La pulce era tornata a saltellare nell’orecchio di Connor, però ormai era troppo tardi per tirarsi indietro. Insomma, era stato quasi molestato da una checca, preso a pugni in un discopub e avevo attirato su di sé le attenzioni di un grosso travestito nero. Cosa poteva capitargli ancora? Peggio di così...
Rouge fece toc toc sulla saracinesca e si chinò per guardare dentro al negozio.
«Barnaby, sono Rouge, sei lì?».
«No, sono qui, in magazzino».
La faccia arcigna di un signore stempiato, sulla cinquantina, fece capolino da una porta, proprio accanto all’ingresso del negozio. Aveva capelli sottili e unti, molto radi sulla testa, che gli arrivavano alle spalle. Indossava una camicia hawaiana aperta su una canottiera e un paio di bermuda color kaki. E masticava come una capra.
«Tanti saluti da Vin. Mi fai entrare? Si ghiaccia qui fuori».
Connor si grattò la nuca. Era la seconda volta che lo diceva, ma non è che facesse poi così freddo.
«Il ragazzino è con te?».
Ragazzino a chi, vecchio di merda!
Rouge annuì. Barnaby sputò sul marciapiede un grumo nero e salivoso. Connor si scansò di un passo, con una smorfia.
«Cos’è, ti fa schifo il tabacco, principessina?». Barnaby sputò di nuovo, questa volta proprio davanti ai piedi di Connor. «Fatti un giro in negozio, va’. Mammina e papino devono discutere di cose da grandi in magazzino. Ma non toccare niente, se manca qualcosa me ne accorgerò».
Quel tipo non gli piaceva proprio per niente, non si fidava a lasciarlo da solo con Rouge.
«Va’ pure nel paese dei balocchi, sta’ tranquillo, non ci vorrà molto», disse lei per rassicurarlo.
Connor roteò gli occhi.
«Non fai che ripeterlo».
Il terzo bacio sulla guancia.
Poi Rouge scomparve in magazzino insieme a Barnaby e a lui non rimase altro da fare che entrare nel negozio.
La pulce nell’orecchio era diventata più fastidiosa che mai. La checca aveva detto che a Vin piaceva variare. Grande Jack forse aveva un debole per i ragazzi coraggiosi, ma chi poteva dirlo? Magari gli piacevano anche le donne. E Barnaby era chiaramente un porco. Connor guardò di sbieco il Kit Sadomaso Per Principianti appeso alla parete (Per chi si avvicina in punta di piedi al mondo sadomaso). Il sospetto che Rouge lo avesse usato per farsi scarrozzare da un cliente all’altro si faceva sempre più forte. Davanti a una confezione di falli applicabili agli elastici degli slip (Per la donna che vuole sperimentare da attiva l’ebrezza della penetrazione), si passò la mano sulla faccia. Dio, era ovvio, lampante. Chi altri se non una prostituta lo avrebbe adescato in quel modo? E dire che frequentava il Goldfinger da un po’, ormai. Sapeva come funzionavano queste cose, come aveva fatto a non capirlo subito?
Sei un coglione, Connor.
Stava contemplando sconsolato un vibratore a forma di delfino, quando il ragazzino entrò. Felpa grigia. Stemma di Capitan America. Cappuccio sollevato. Di nuovo lui! Non degnò Connor nemmeno di uno sguardo, neanche fosse uno degli articoli in vendita. Sfrecciò al bancone, aprì il registratore di cassa e si riempì le tasche.
«EHI, CHE CAZZO FAI?».
Ma era già corso fuori. Non prima di aver afferrato al volo un fallo di gomma rosa shocking, però.
Era successo tutto tanto velocemente che Connor rimase lì, impalato come uno scemo, convinto di aver avuto un’allucinazione. Delle bestemmie provenienti dal magazzino, però, lo riscossero all’improvviso. E quando finalmente si decise a uscire per inseguire il ragazzino, per poco non finì addosso a Barnaby. Dietro di lui c’era una Rouge allarmata.
«Che cazzo combini, principessina?».
Barnaby raggiunse il registratore di cassa e imprecò.
«Mi hai fregato l’incasso, maledetto finocchio!».
Connor sgranò gli occhi e scosse la testa.
«No, io… si sbaglia, c’era un…».
«E MANCA PURE UN FALLO DI GOMMA, RIDAMMELO! RIDAMMI IL MIO FALLO».
Rouge afferrò Connor per il braccio, cercando di trascinarlo via.
«Lascia stare, è inutile. Andiamo, Connor, andiamo!».
Non dovette ripeterlo una volta di più, perché un Barnaby con gli occhi iniettati di sangue aveva appena estratto da sotto il bancone un fucile. Un fucile puntato contro di loro.
Il primo sparo mandò in frantumi la vetrina e una pioggia di vetro li investì in pieno mentre passavano sotto la saracinesca. Il secondo sparo fischiò sopra le loro teste, quando già stavano correndo per strada. A Rouge si ruppe un tacco e Connor dovette sostenerla per evitare che si fratturasse la caviglia. Il terzo colpo mancò la ruota anteriore del furgoncino per un pelo, perché Connor aveva appena messo in moto e dato gas. Il quarto colpì lo specchietto laterale, qualche istante prima che il furgoncino svoltasse l’angolo e si togliesse dalla traiettoria di tiro.
«PORCA PUTTANA!».
Connor diede un pugno al volante, per la frustrazione.
«Calmati, l’abbiamo scampata ormai, non c’è bisogno di andare in escandescenza».
Rouge si stava massaggiando la caviglia. Sembrava più seccata dall’idea di aver perso il tacco, che spaventata dalla possibilità di finire ammazzata per mano del proprietario di un sexy shop.
«Adesso mi spieghi cosa cazzo è successo. E chi era quel ragazzino. Subito».
«Ragazzino? Quale ragazzino? Connor, non so di che diavolo stai parlando».
«Quello che ci viene dietro dall’appartamento di Vin. Non prendermi per il culo, va bene? O giuro che ti riporto indietro da Barnaby».
«D’accordo, ma accosta, ti prego. Non voglio che guidi in questo stato d’animo».
Adesso sì che sembrava spaventata. Connor si sentì in colpa, così prese un respiro profondo e si fermò nel parcheggio di un piccolo supermercato. Era notte fonda e non c’era un’anima viva in giro. Williamsburg sembrava un quartiere fantasma.
«Allora?».
«Connor, tu devi credermi. Non so chi sia questo ragazzino di cui parli».
«Rouge…».
Gli prese il viso tra le mani e lo guardò dritto negli occhi.
«Mi dispiace di averti messo in pericolo, dico sul serio, mi sento malissimo se penso che potevi beccarti una pallottola per colpa mia, ma ti giuro che non è dipeso da me. Non ho idea di cosa sia successo, ma ti assicuro che non c’entro niente».
«Cos’è che dovevi dare a Barnaby?».
Quando le labbra rosso fuoco di Rouge si posarono sulle sue, Connor venne attraversato da una scossa elettrica. Dovette fare appello a tutto il suo autocontrollo, per scostarsi e mettere le dovute distanze tra loro. Fesso fino a un certo punto.
«Rispondi alla domanda».
Sorridendo, Rouge estrasse dalla pochette di paillettes una bustina di erba. Connor impallidì.
«Solo questo? Tutto questo giro per un po’ di erba?».
«Te l’ho detto che era una cosuccia, no? Solo che non ho avuto il tempo di dargliela, perché ti abbiamo sentito gridare e siamo corsi da te in negozio. E poi… be’, il resto lo sai».
Connor si massaggiò l’attaccatura del naso, esausto.
Rouge prese ad accarezzarlo di nuovo sulla nuca. «Senti, che ne dici di festeggiare lo scampato pericolo con dell’erba di prima scelta?». Agitò la busta davanti alla faccia di Connor. «Barnaby si è bruciato il diritto di averla quando ha cominciato a sparare, non credi anche tu?».
Il sorriso di Rouge era rosso fuoco, le sue dita gli solleticavano l’orecchio e Connor si ritrovò a rollare una canna senza nemmeno rendersene conto. Il fumo su Ben e Jonathan aveva sempre un effetto esilarante, attaccavano a ridere per una cazzata ed erano capaci di andare avanti per delle ore. Su Connor invece l’effetto era calmante, il tempo si dilatava fino a non avere più alcun senso.
Si portò la canna alla bocca e… toh, era già ridotta a un mozzicone. Quanti minuti erano passati? Oppure ore? Non lo sapeva. Guardò l’orologio da polso, ma non riuscì a dare alcun senso ai numeri lampeggianti. Si sentiva come un palloncino: se qualcuno avesse tagliato il filo, avrebbe potuto volteggiare libero in aria, sospinto dalla brezza notturna verso il cielo stellato. Alzò il viso e infatti incontrò due stelle rosse. Sorridevano maliziose e lui sorrise di rimando.
«Connor?».
«Uhm?».
Ah, ma non erano stelle. Erano gli occhi di Rouge.
«Ti ricordi che ti ho detto che mi sarei sdebitata?».
Boh? Gli venne un po’ da ridere.
«Forse».
Le dita di Rouge scottavano sulla sua pelle, scivolavano sotto la felpa, lasciando solo terra bruciata. Din din din faceva la fibbia della cintura. Il bottone sgusciò fuori dall’asola e la cerniera scese giù lenta, lenta, lenta. Le stelle rosse scomparvero dal suo campo visivo e la notte si fece buia, impenetrabile. Connor strizzò gli occhi, chiedendosi se non fosse diventato cieco, fin quando qualcosa di umido non prese a stuzzicarlo e allora… la notte divenne incandescente, rossa.
Connor doveva aggrapparsi, o sarebbe precipitato. Agitò le mani, alla cieca. Perché il rosso era peggio del buio, lo abbagliava e non capiva più niente. Trovò un appiglio tra le ciocche setose di Rouge, ma non bastava. Cercò di muovere il bacino, tutto inutile, due mani lo tenevano giù. La notte era incandescente, rossa. Sempre più rossa, una fiamma viva che diede fuoco ai suoi nervi come una miccia. Il tempo di innescare il detonatore e…
Oooh.
…la notte esplose in una pioggia di scintille scarlatte.
Quando Connor aprì gli occhi, il cielo non era più nero, ma blu. Un blu che dietro gli edifici sfumava e si schiariva in un rosa tenue. Brrrr, certo che si ghiacciava, aveva lasciato il finestrino aperto? Cercò a tentoni la maniglia per tirare su il vetro e afferrò solo aria. Sgranò gli occhi, scattò a sedere e… Come cazzo c’era finito sdraiato su una panchina accanto all’ingresso del supermercato? Dov’era Rouge? E soprattutto, dov’era il suo furgoncino? Cazzocazzocazzo, tutta l’attrezzatura della band!
Questa è la volta buona che Ben e Jonathan mi ammazzano.
Okay, calma e sangue freddo. Qual era l’ultima cosa che ricordava? Il pompino. Il migliore pompino della sua vita, per la precisione. Sì, non perdere il filo, però. Cosa era successo dopo? Bella domanda! Non ricordava nient’altro. Di sicuro si era addormentato. Aveva la bocca impastata e lo stomaco borbottava. Sì, per questo ringrazia la canna.
Un tizio con il marchio del supermercato sulla giacchetta a vento stava aprendo il catenaccio dell’ingresso principale. Gli rivolse un’occhiata compassionevole.
«Spiacente, amico, devi sloggiare. Il direttore non vuole barboni davanti al suo supermercato».
Connor si coprì la faccia con entrambi le mani.
«Non sono un barbone».
«Oh, giusto. Scusa, amico». Passi che si avvicinavano. Connor sollevò lo sguardo, il tizio gli stava di fronte e si stava frugando nelle tasche. «Ecco, prendi», disse poi, porgendogli due banconote da venti. «Chissà da quanto tempo non fai una colazione come si deve!».
Essere scambiato per un mendicante. Il coronamento perfetto di una notte da pazzi.
Sul serio, Connor. Tu sì che sei sfigato.


Trovare il Misunderstanding non era stato difficile. Era bastato cercarlo sull’elenco telefonico.
Connor varcò la soglia del locale nel tardo pomeriggio, trovandolo già in fermento. Sul palco una ragazza vestita da raffinata dama francese stava provando il suo numero di spogliarello, mentre un’altra faceva capriole avvinghiata a un palo. Alcuni ragazzi col farfallino allacciato intorno al collo e un grembiulino davanti al pacco si occupavano di rassettare i tavoli. Le ragazze travestite da sexy cameriere, invece, sembravano già calate nella parte mentre spazzavano il pavimento. Il dietro le quinte era un andirivieni di gente svestita. Rischiò di venire travolto da un gruppo di ragazzi super-pompati, in tanga, unti dalla testa ai piedi, che correvano da una parte all’altra come pazzi. Era così ovvio che Rouge lavorasse in un night club, che non sprecò tempo a stupirsene. Anche se si diede del coglione per non averlo intuito subito.
«Ehi, tu? Si può sapere chi cazzo sei?».
Un uomo. Viso bianco di cipria. Neo finto sopra il labbro. Maglietta trasparente, slip neri, reggi calze e calze a rete.
«Ehm… cercavo Rouge».
«Chi?».
«Rouge. Sono un suo… Mi ha detto che lavora qui».
Ma ancor prima di finire la frase si rese conto di quanto fosse idiota e ingenuo. Per quale motivo una ladra di furgoncini e presunta prostituta avrebbe dovuto dirgli la verità sul suo mestiere?
«Aaaaaah, tu intendi Feu Rouge! Si pronuncia alla francese, non all’americana».
«Eh?».
L’uomo col viso incipriato sorrise.
«La trovi in camerino, si sta preparando. Ultima porta in fondo».
Connor bussò alla porta col cuore in gola e il sangue che pulsava nelle orecchie, ma solo quando Rouge venne ad aprirgli, capì il motivo della sua agitazione. Rouge mozzava il fiato, aveva i capelli sciolti in lunghe onde rosse, che scendevano morbide sulle spalle, ed era avvolta in una vestaglia nera, sotto la quale si vedeva e non si vedeva un completino intimo di pizzo rosso. Il veno-non-vedo lo aveva sempre mandato su di giri, in una donna. Trovava più eccitante immaginare cosa si nascondeva sotto una camicia da notte, tirare a indovinare tra una carezza e l’altra, far vagare le mani alla cieca sotto il tessuto, piuttosto che guardare direttamente. Cristo, sarebbe stato più difficile del previsto fare il duro e… E forse era meglio se bandiva la parola duro dal suo vocabolario, fin quando non fosse uscito da quel camerino.
«Ciao, Connor».
«Non sembri sorpresa di vedermi».
«Naturale, ho preso qualcosa che ti appartiene. Vieni dentro, dai».
Si fece da parte e lui, anche se titubante, entrò.
Il camerino era un’orgia di piume, veli rossi, specchi e lustrini. Le pareti erano tappezzate di foto di Rouge sul palco e abiti di scena. C’era un divanetto, stipato tra la toletta e il paravento, Connor si sedette senza chiedere il permesso. Rouge invece prese posto davanti alla toletta. Come da copione accavallò le gambe e la vestaglia si aprì, scoprendo le cosce. Connor si allungò la felpa il più possibile, per coprire il cavallo dei pantaloni.
«Ti avrei restituito il furgoncino stasera stessa», disse Rouge, passandosi il rossetto sulle labbra. «Anzi, avevo intenzione di fartelo recapitare sotto casa».
«Tu non sai dove abito, Rouge».
«Sì, invece. Ho letto l’indirizzo sui documenti che ho trovato nel cruscotto». Stirò le labbra, contemplando il suo riflesso. Poi, apparentemente soddisfatta del risultato, lanciò un bacio in direzione dello specchio, posò il rossetto in mezzo agli altri trucchi e si voltò completamente verso Connor. «Ti devo delle spiegazioni».
«Ah, tu credi?».
«E te le darò, ma devi promettermi che non mi denuncerai alla polizia».
«Per fare la figura del coglione davanti a tutti? Mi interessa soltanto riavere il furgoncino con l’attrezzatura della band e sapere in cosa mi hai coinvolto. Nel caso te ne fossi dimenticata, ci ho quasi rimesso la pelle».
Rouge fece per alzarsi dallo sgabello, ma Connor la fermò, scuotendo la testa.
«Niente giochetti, questa volta. Tu rimani lì, a distanza di sicurezza, e cominci a parlare».
Il sorriso rosso fuoco di Rouge lo stordì per l’ennesima volta. Forse c’era qualche sostanza allucinogena nel rossetto, che si liberava ogni volta che lei sorrideva.
«Ti ho adescato di proposito al Goldfinger, perché mi serviva il furgoncino», disse lei, tornando seduta.
«E fin qui ci ero arrivato da solo».
«Non avevo intenzione di fregartelo, però. Avevo necessità di trasportare della roba piuttosto ingombrante da un posto a un altro. Il mio piano era piuttosto semplice: tenerti impegnato, mentre il mio socio caricava la roba sul furgoncino, non avresti dovuto accorgerti di nulla».
«Il tuo socio? Il ragazzino con la felpa di Capitan America?».
Rouge annuì.
«Esatto. Si è nascosto dentro al furgoncino quando eravamo nell’appartamento di Vin. Mentre noi ballavano nel discopub, aiutava Grande Jack a caricare la merce sul furgoncino. E avrebbe dovuto scaricarla nel magazzino di Barnaby, il nostro acquirente, se Barnaby non avesse tentato di fregarci».
«Per questo gli ha rubato l’incasso? Per vendicarsi?».
Rouge prese a giochicchiare con la cinta della vestaglia, slacciandola e allacciandola continuamente.
«Sì, è stato un gesto impulsivo da parte sua. Avrebbe dovuto mettere in conto la reazione di Barnaby. Ad ogni modo, se l’affare con Barnaby fosse andato in porto, tu saresti tornato a casa col furgoncino e non avresti mai scoperto che ti avevamo usato come facchino. Invece l’affare è saltato, gli scatoloni erano ancora sul tuo furgoncino e non potevamo lasciarti andare via con la nostra roba. Avevamo bisogno di tempo per trovare un posto in cui portarla, non potevamo abusare oltre della generosità di Grande Jack. Così... come dire? Ti ho fatto rilassare un po’…».
«E poi il ragazzino ti ha aiutata ad abbandonarmi nel parcheggio del supermercato. Chiaro. Tanto per sapere… cosa c’era negli scatoloni?».
«Oh, niente di che, lettori dvd per auto».
Connor sospirò. Non poteva essere sicuro che si trattasse di tutta la verità, nient’altro che la verità, ma almeno la storia aveva un senso. Un senso nella sua assurdità, ovvio.
«Dov’è il mio furgoncino, adesso?».
Rouge intinse una piuma rossa nel calamaio, prese un foglietto, ci scarabocchiò sopra un indirizzo e glielo porse.
«L’attrezzatura della band non è stata toccata».
Connor si mise il foglietto in tasca, poi si alzò. Rouge fece altrettanto e lo accompagnò alla porta.
«Per quello che vale, sono stata bene in tua compagnia ieri sera».
Lui abbozzò un sorriso, grattandosi la nuca.
«Be’, sì, anche io. Rissa, sparatoria e risveglio all’agghiaccio a parte. Sono stato molto bene».
Rouge lo guardava dritto negli occhi, le mani sempre impegnate a giocherellare con la cinta. Il colletto della vestaglia scivolò sulla spalla, scoprendo una porzione considerevole di pizzo rosso e di seno bianco. Ecco, era arrivato il momento, quello in cui lei lo avrebbe messo alla porta, come un cane randagio. Lo aveva sempre saputo, che sarebbe finita così, perché si faceva coinvolgere solo da donne che non lo consideravano altro che un amico. O un facchino, nella fattispecie. Tentar non nuoce, si era detto nel parcheggio del Goldfinger. E invece tentare aveva nuociuto assai. Però… chi non risica non rosica, giusto?
«Pensi che… potremmo vederci un’altra volta? Magari in circostanze più tranquille?».
Aveva una voglia matta di baciare quel maledetto sorriso rosso.
«Mi piacerebbe tanto, Connor. Ma non credo sia una buona idea».
«Perché?».
«Perché se scoprissi certe cose sul mio conto, non avresti più voglia di vedermi».
«Ti sto dicendo che mi piacerebbe uscire con te, anche se ho appena scoperto che lavori in un night club e che nel tempo libero fai la ricettatrice. Mettimi alla prova, no?».
Per la prima volta lesse un’insicurezza autentica nei suoi occhi.
«Connor…».
Ne aveva abbastanza di parlare, la baciò e basta. Rouge rispose subito al bacio, come se non avesse aspettato altro, poi poggiò le mani sul suo fondoschiena e spinse in modo che i loro bacini entrassero a stretto contatto. Molto stretto. Moltissimo. Troppo. Talmente tanto, che quando lei prese a strusciarglisi contro, Connor si rese conto che non era l’unico ad avere qualcosa di duro in mezzo alle gambe.
EH?
Si allontanò da lei come scottato, gli occhi sbarrati fissi sul suo inguine. Il vedo-non-vedo che tanto lo mandava su di giri questa volta gli aveva tirato un bruttissimo scherzo.
«Ma cosa… come… tu sei un… ieri sera io ho… e tu mi hai fatto un… Oh, porca puttana, tu… tu…».
Il sorriso di Rouge adesso era di un rosso smorto, spento.
«Prova non superata».


«Salve, sono…».
«So chi sei, entra».
Connor sbatté stupidamente le palpebre un paio di volte, prima di seguire dentro l’appartamento la ragazza che gli aveva aperto la porta. Era bassa, secca e piatta come una tavola di legno. Indossava solo una t-shirt extralarge che le arrivava alle ginocchia, portava i capelli quasi rasati a zero sul lato destro della testa e lunghi fino alla spalla sul lato sinistro. Non l’aveva mai vista prima in vita sua.
«Come fai a…».
«Aspetta lì, vado a prenderti le chiavi del furgoncino».
Almeno adesso aveva la certezza che Rouge gli avesse dato l’indirizzo giusto.
La ragazza scomparve in una stanza, chiudendosi la porta alle spalle, così a Connor non rimase altro da fare che sedersi su una vecchia poltrona polverosa. Dall’attaccapanni, accanto alla porta, pendeva una felpa grigia. C’era un disegno, sopra: una specie di scudo rosso, azzurro e… Lo stemma di Capitan America!
I casi sono due: ha un fratello di quindici anni oppure…
«Salve, straniero».
Vin, quel Vin, era emerso da un’altra stanza, con un nido al posto dei capelli, un paio di pantaloni di seta spiegazzati e i piedi scalzi: erano quasi le otto di sera, ma sembrava essere stato appena buttato giù dal letto. Si sedette sull’altra poltrona, proprio di fronte a Connor.
«Tu abiti qui?», gli chiese.
«Sì, con mia sorella Liz. L’appartamento in cui sei stato ieri lo usiamo solo per gli affari».
«Tua sorella è… L’ho scambiata per un ragazzino, ieri. Rouge non me l’ha detto che era una ragazza».
Be’, non gli aveva detto un mucchio di cose. Una in più o una in meno non faceva molta differenza.
«Non preoccuparti, capita spesso e a mia sorella sta bene così. Soprattutto quando dà una mano a Rouge».
Connor si passò una mano tra i capelli, sospirando pesantemente.
«Cos’altro scoprirò, oggi. Che tu sei un ermafrodita?».
Vin sorrise, enigmatico. Accavallò le game e inclinò la testa, fissandolo intensamente.
«Bree non ha fatto che parlare di te, dopo che te ne sei andato. Non si dà pace, non riesce a credere che il suo gay-radar abbia toppato, di solito non sbaglia mai».
Connor si grattò la nuca, a disagio.
«Be’, c’è sempre una prima volta».
«Però dal modo in cui guardavi Rouge mi è parso di capire che…».
«Non lo sapevo. Che non era una donna, intendo. È stato un equivoco, un fraintendimento, okay?».
Le dita di Vin tamburellavano pigramente sul bracciolo della poltrona.
«Rouge É una donna».
«Volevo dire che…».
«Non conta come sei fuori, conta solo come ti senti dentro. E lei dentro è stata sempre una donna, anche prima di apportare delle modifiche al suo corpo. Credimi, io c’ero».
«Sì, ma per uno come me conta anche come sei fatto fuori».
Vin inarcò un sopracciglio.
«Uno come te?».
«Il pompino ti è piaciuto, però». Lo sbattere della porta annunciò il ritorno di una Liz imbronciata, che si appollaiò a cavallo del bracciolo della poltrona di Vin. Rispose all’espressione scioccata di Connor con una scrollata di spalle. «Ero sul furgoncino, ricordi? Ho sentito tutto. Purtroppo».
Sotto gli sguardi inquisitori di fratello e sorella, Connor si sentì come di fronte a una giuria.
«Senti, ragazzina. Tu qui sei l’ultima che può permettersi di mettere becco. O devo ricordarti che per colpa tua ho rischiato di rimanerci secco? Ben due volte».
Liz sbuffò e Vin le arruffò i capelli, con fare affettuoso. Adesso che li vedeva uno accanto all’altra, Connor notava una certa somiglianza tra di loro. Nella forma del naso e nel taglio degli occhi, soprattutto.
«Cos’è che ti turba di più?», chiese improvvisamente Vin, che lo guardava come si guarda una creatura bizzarra, di difficile classificazione. «Ritrovarti con un pacco regalo inaspettato tra le mani o scoprire che il contenuto del pacco non ti è dispiaciuto come pensavi?».
Ora basta. Connor si alzò dalla poltrona.
«Posso avere le chiavi del mio furgoncino?».
Un’altra scrollata di spalle, poi Liz gli lanciò il mazzo di chiavi.
«L’ho parcheggiato nel vicolo accanto alla caffetteria», disse.
«Grazie».
Connor uscì dall’appartamento senza voltarsi indietro.
Solo dentro all’abitacolo del furgoncino, si sentì libero di rilassare le spalle e accasciarsi contro il sedile come un palloncino sgonfio. Non riusciva a togliersi dalla testa l’espressione ferita di Rouge, quando era praticamente fuggito via a gambe levate dal suo camerino. Le parole di Vin e Liz di certo non contribuivano a farlo sentire meglio. Insomma, era lui la vittima in tutta quella storia. Rouge gli aveva mentito praticamente su tutto, fin dalla prima volta in cui aveva aperto bocca. Perché adesso la parte del brutto e cattivo toccava a lui? Rouge avrebbe dovuto sentirsi in colpa, non lui, perché era stata lei a nascondergli la verità, era stata lei a ingannarlo, era stata lei a…
Lei.
Cos’è che ti turba di più?

Che continuava a pensare a lei come donna.
Perché se pensava Rouge, davanti ai suoi occhi si delineava subito una silhouette rossa dalle curve conturbanti.
Cos’è che ti turba di più?
Che il vedo-non-vedo continuava ad attizzarlo, nonostante tutto.
Perché adesso si immaginava davanti alla porta del camerino di Rouge, con gli occhi fissi sul quel maledetto sorriso rosso fuoco, e non scappava via, rimaneva lì con lei, mentre la sua mano scostava i lembi della vestaglia ed esplorava alla cieca.
Cos’è che ti turba di più?
Che era spaventato, ma curioso. Ed eccitato.
Come quando aveva fatto l’amore per la prima volta.


Rouge uscì dal Misunderstanding alle tre del mattino. Era avvolta fino alle caviglie in un trench di pelle nera e ai piedi portava delle décolletté tempestate di lustrini rossi. Non appena si accorse del furgoncino volkswagen posteggiato lungo il marciapiede, sgranò gli occhi e cominciò a girargli intorno, come per accettarsi che non si trattasse di un’allucinazione.
Chi non risica non rosica, si dice. E risichiamo, allora!
«Ehi, stavi cercando di fregarmi il furgoncino o ti serviva un passaggio?».
Connor uscì dal cono d’ombra proprio mentre Rouge si voltava. Vedere comparire il sorriso rosso fuoco sulle sue labbra fu un sollievo.
«Entrambe le cose, in realtà. Questo furgoncino è una figata!».
Risero brevemente, poi lei si fece seria.
«Cosa ci fai qui?».
Lui scalciò un sassolino.
«Ho visto il tuo spettacolo. Sei stata meravigliosa. Anche se… non credi che i cerchi di fuoco siano un po’ eccessivi?».
Rouge inarcò un sopracciglio.
«Connor, non cambiare argomento».
«Okay, okay. Volevo solo… farmi perdonare per essere scappato via in quel modo e… be’, chiederti se mi concedevi di ripetere la prova».
«Perché dovrei? Cos’è cambiato?».
«Tutto e niente. Avevo solo bisogno di riflettere».
Lei strinse le braccia al petto come se sentisse freddo.
«C’è poco da riflettere. Sotto l’ombelico sarò sempre un uomo».
Connor si grattò la nuca, abbozzando un mezzo sorriso.
«Be’, nessuno è perfetto».







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Note autore:
Questa oneshot è stata scritta per il compleanno di OttoNoveTre, che ha un kink per gli uomini vestiti da donna. Spero che la storia soddisfi il tuo kink, Chiara, e che sia riuscita a strapparti un sorriso. Tantissimi auguri!
Citazioni più o meno colte:
- la frase “…e se state ascoltando questo messaggio, siete della resistenza”, lo dice Rouge stessa, viene dalla saga di Terminator;
- lo scambio di battute “Che razza di nome è Rogue?” / “Non lo so, che razza di nome è Wolverine?” viene dal film "X-men";
- “C’è che io personalmente preferisco il classico” / “Ah, be’, invece a qualcuno piace caldo” è un riadattamento di un celebre scambio di battute del film “A qualcuno piace caldo”. In originale era “Vuol dire che suona quella musica moderna, il jazz?” / “Già, il jazz caldo” / “Ah be', a qualcuno piace caldo... personalmente io preferisco il classico”;
- anche “C’è poco da riflettere. Sotto l’ombelico sarò sempre un uomo” / “Be’, nessuno è perfetto” è un adattamento di un celeberrimo scambio di battute del film “A qualcuno piace caldo”. In originale era “Ma non capisci proprio niente, Osgood! Sono un uomo!” / “Be’, nessuno è perfetto”.
Questa oneshot è un missing moment di un’altra storia, una long, che ho scritto a dicembre e che spero di cominciare a pubblicare a fine gennaio/inizio febbraio. Si tratta di Rovi & Rose: ebbene sì, finalmente sono riuscita a finirla. Devo solo revisionarla per bene. Perciò, se qualcuno di voi sa di cosa sto parlando e ha voglia di sapere come prosegue Rovi & Rose, non deve far altro che tenere d’occhio il mio account autore o il mio profilo facebook. Vi dico subito che il primo capitolo di Rovi & Rose che avevo pubblicato su EFP verrà cancellato (la storia si è allungata parecchio e ho dovuto modificare un po’ anche il primo capitolo), quindi è inutile metterlo tra i preferiti/ricordati/seguiti. Se volete essere avvisati personalmente della pubblicazione della long, potete mandarmi un mp su EFP.
Nel frattempo, sempre se avete voglia, potete leggere il prequel di Rovi & rose, Pavoni & Giarrettiere.
EDIT 03/02/2014 - Ho cominciato a pubblicare la nuova versione di Rovi & Rose.
Un grazie speciale a Dragana, che mi ha betato anche se si trovava dall’altra parte del mondo e avrebbe dovuto pensare solo a divertirsi.
E un grazie speciale anche a voi, che continuate a leggere le mie storielle.
A presto, vannagio
   
 
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