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Autore: _yulen_    20/01/2014    1 recensioni
Era tempo che volevo fare una FF su CoD ma per un motivo o per l'altro ho sempre rimandato perchè non avevo l'ispirazione. Poi mi sono resa conto che il CoD non si vedono quasi mai ragazze e quindi ho deciso di inserirne una io anche perchè secondo me è una cosa ingiusta U__U
Fine della Terza Guerra Mondiale, Praga. Una ragazza, ex spia e ora Spetsnaz, è in giro per la città alla ricerca di sopravvissuti e si imbatte nel corpo quasi senza vita di un soldato.
Una nuova guerra all'orizzonte e un'altro nemico da affrontare. Sembra che per la Task Force 141, alla quale poi si aggiungerà anche la stessa ragazza, la pace non sia destinata a durare molto e anche il mondo, guarda il sole sorgere all'alba di una nuova guerra.
Genere: Azione | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti
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Fuori dalle mura di quel vecchio magazzino guardai l’entrata del condotto dell’aria proprio sopra di me. La grata era appena stata rimossa e ora penzolava da un lato.
Controllai le funzionalità del mio fucile e attesi pazientemente l’ordine di Price.
La luna quella sera era più luminosa del solito, se ne stava lassù a illuminare il cielo come un grande lampione. Non c’era un filo d’aria e faceva davvero troppo caldo. Eravamo in pieno luglio e il gelo legato all’inverno sembrava essere sparito per lasciare spazio all’afa. Non mi piaceva l’estate.
Tutto intorno a me era silenzioso, la quiete era rotta solo dai miei respiri. Mi presi un po’ di tempo per me stessa. Avevo bisogno di rallentare ogni tanto, per non reprimere sempre la voglia di mostrarmi per quello che ero davvero. Fragile come una bambola di porcellana e rotta come se qualcuno l’avesse lasciata cadere e poi non si fosse nemmeno curato di raccogliere i pezzi.
Fingevo che la cosa non mi importava, ma in realtà non era così e anche in quel preciso istante, seduta su quelle macerie, finsi che tutto fosse normale, che io ero lì in squadra perché quel lavoro necessitava di altre persone e non perchè avevo bisogno aiuto.
Forse dovevo smetterla di scappare e combattere, è questo ciò che mi promisi di fare prima di nascondermi fuggendo da un posto all’altro.
-Siamo in posizione. Raggiungi la stanza della videosorveglianza e guidaci fino all’entrata-disse Price.
Mi rialzai e presi la rincorsa per avere un po’ di slancio, poi saltai aggrappandomi al bordo per riuscire ad entrare.
-Mi ci vorrà qualche minuto-risposi con voce piatta.
Accesi la torcia per illuminare la via di quei cunicoli sudici e sporchi. Non era come stare in un Hotel a cinque stelle. C’erano ragnatele ovunque e anche topi che correvano squittendo quando li illuminavo con la torcia. L’umidità e l’aria densa facevano ristagnare ancora di più la puzza di muffa e di vecchio. Le pareti in alluminio erano tutte ammaccate, in alcuni punti i fianchi si incastravano impedendomi di avanzare e a ogni minimo movimento il condotto oscillava. Avevo paura che cedesse quindi continuai a farmi strada con mosse lente e impercettibili per non cadere anche se non vedevo l’ora di uscire.
Mi fermai a una biforcazione cercando di ricordare da che parte fosse la stanza della videosorveglianza, erano più di quattro anni che non mettevo piede lì e non mi ricordavo nemmeno che la sorveglianza fosse così scarsa all’interno. Dalla mia postazione infatti vidi una pattuglia composta solo da due uomini che invece di fare il lavoro per cui erano pagati, stavano seduti a bere vodka e a fumare scambiandosi qualche battuta di pessimo gusto.
Cercai di avanzare ma sentii qualcosa trattenermi e quando con uno scatto riuscii a liberarmi avvertii un lieve bruciore sul fianco destro. Portai la mano sulla ferita e sentii qualcosa dentro la carne. Le mie dita sporche di sangue percorsero prima il segno del taglio e poi si soffermarono nel punto in cui prima avvertii la pelle aprirsi per capire cosa mi avesse ferita. Era qualcosa di sottile e dalla forma allungata, il ferro mi fece pensare a un chiodo e ne ebbi la conferma quando sentii una delle estremità diventare piatta.
Sbottai e mi voltai per trovarmi a pancia in su. Cercai di alzare la testa per verificare l’entità del danno ma lo spazio era troppo angusto per poter riuscirci così mi limitai a passarci sopra la mano. Non appena le dita sfiorarono nuovamente la ferita feci una piccola smorfia, non mi faceva male, era solo molto fastidioso, come la puntura di qualche insetto.
Fortunatamente il taglio non era grave, bastava solo coprirlo per evitare che si infettasse. Presi il coltello dal cinturino per tagliare il lembo strappato della maglia, poi da una tasca dei pantaloni recuperai una garza e del nastro per sistemare quel piccolo incidente. Ero solo all’inizio e già si prospettava una missione di merda.
Ripresi a muovermi cercando di stare più attenta per evitare di farmi male di nuovo, l’ultima cosa che mi mancava era ferirmi seriamente in modo da attirare tutti i nemici su di me.
Avanzai di qualche altro metro prima di vedere un’altra grata che dava proprio sulla sala dei monitor, tolsi la griglia lentamente per non fare rumore e osservai la stanza sotto di me. C’erano due guardie adagiate su due sedie in fondo alla stanza in modo da sembrare addormentate. Non c’era una goccia di sangue o segno di strangolamento che potessero testimoniare il loro omicidio.
Opera di Nikita.
-Nachinaya s zavtrashnego dnya diyeta (Da domani dieta)-borbottai scendendo cercando di far passare i fianchi.
Tolsi la polvere dai pantaloni e controllai velocemente i cadaveri per essere sicura che fossero davvero morti. Avevano entrambi il collo spezzato e uno di loro aveva anche una mano rotta, segno che almeno lui doveva aver reagito, ma senza successo.
-Price, sono dentro-dissi sedendomi.
-Trova un modo per farci entrare-rispose.
Guardai lo schermo che mi mostrò come fosse predisposta la sorveglianza. Il magazzino aveva telecamere sia all’esterno sia all’interno e ce n’era una posta proprio sopra l’entrata principale protetta da quattro guardie mentre il cortile era sorvegliato da tre unità cinofile. Lungo il perimetro c’erano altre entrate ma anche quelle erano sorvegliate da cecchini il cui occhio non sfuggiva a nulla.
Dovevo condurli fino al portone sul retro, era l’unica zona libera. Passare da lì sarebbe stato facile ma l’interno mi preoccupava. Il corridoio non aveva telecamere e una volta dentro non sarei stata più in grado di seguirli.
-Dovete tornare indietro e usare la porta dietro l’edificio, una volta che sarete entrati vi perderò di vista fino quando non arriverete alla fine del corridoio-dissi.
-Nulla di difficile-commentò Price.
Mi abbandonai sulla sedia, seguendo per quanto possibile i loro spostamenti.
Scossi la testa. Non dovevo essere lì, non per loro. Una parte di me mi diceva di alzarmi e cercare il mio amico mentre l’altra mi sussurrava di restare lì, e per un non ben precisato motivo diedi ascolto alla seconda.
Nikita per me era ben più importante di loro, ma poi la stessa vocina nella mia testa mi disse che lui sapeva badare a se stesso, che se era vivo era perché non si sarebbe lasciato uccidere tanto facilmente, invece loro due avevano bisogno di me per non farsi ammazzare e di nuovo mi ritrovai d’accordo con la mia coscienza. Nika conosceva quel posto come conosceva me, Price e MacTavish non sapevano nemmeno dove fossero i cessi.
Incrociai le braccia e feci un mezzo giro sulla sedia, poi guardai di nuovo le guardie.
Nikita aveva fatto in modo di semplificare le cose, per questo mi piaceva lavorare con lui, ci supportavamo a vicenda, coprendoci le spalle l’un l’altro. Io aiutavo lui e lui aiutava me.
Come quella volta a Grozny dove fu fatto prigioniero da un gruppo di ceceni. Nessuno sembrò realmente intenzionato a portarlo in salvo, i nostri superiori dissero che non potevano sprecare risorse e tempo per un uomo ormai morto, che la sua era una grave perdita ma che non si poteva fare nulla. Io non lo accettai, non potevo lasciarlo in mano nemica e darlo per spacciato, non dopo la lealtà mostratami e non dopo l’aiuto che mi diede appena arrivata a San Pietroburgo. Quindi dopo un piano studiato nei minimi dettagli, semplice e veloce da portare a termine, partii per la Cecenia, e anche se dopo quella piccola operazione di salvataggio mi sospesero per sei mesi e ci rimisi pure un dito rotto e la vista a causa di un’accecante che scoppiò proprio davanti ai miei occhi, non potei fare a meno di essere felice perché lui era ancora vivo.
Da allora la luce diventò un impedimento per me e i giorni nell’ex capitale sotto il sole non mi facilitarono le cose.
Anche in quel momento i miei occhi bruciavano a causa della luce intensa dei monitori. Socchiusi appena le palpebre per trarre un momento di sollievo, ma quando sentii la porta aprirsi sobbalzai sulla sedia. Presi la pistola e la puntai in direzione dell’entrata senza voltarmi. Quel passo mi era familiare, le prime volte quelle sue improvvise apparizioni mi spaventavano ma con il tempo riuscii a riconoscere la sua camminata.
-Ne strelyayete? (Non spari?)-
Mi voltai abbassando l’arma e mi soffermai a guardare Nikita. Il sudore gli colava dalla fronte e gli appiccicava alcune ciocche alla tempia, inoltre i capelli sempre ben curati erano spettinati e anche la maglia della divisa aveva zone più scure. Il suo volto era leggermente sporco e questo spegneva i suoi occhi verdi sempre vivi .
-Zavisit. Khochesh’ umeret? (Dipende. Vuoi morire?)-risposi tornando a concentrarmi.
Alzò le spalle e chiuse la porta per poi avvicinarsi e sedersi affianco a me senza dire nulla. Restò semplicemente lì a guardare i filmati come se fossero la cosa più interessante al mondo.
Il silenzio avvolse la stanza ma decisi di non interromperlo nonostante avessi tanto da raccontare e chiedergli. C’erano cose volevo sapere e altre che volevano uscire come troppi uccelli messi in gabbia, ma ogni volta che aprivo la bocca per domandargli dove fosse stato e perché non mi avesse cercata, il mio cervello smetteva di funzionare, la gola diventava secca e io incapace di parlare.
Mi era mancato in quell’anno in cui credetti di averlo perso per sempre, e temetti davvero che non lo avrei più rivisto dopo quel giorno a Oymyakon dove pensai stupidamente che mi avesse veramente tradita.
Poi presi coraggio per scacciare via quella mia metà debole.
-Gde ty propadal vso eto vremya? (Dove sei stato per tutto questo tempo?)-chiesi.
-Ya ne mog dogonyayu tebya, yesli eto to o chem ty khochesh' znat' (Non potevo raggiungerti se è questo quello che vuoi sapere)-rispose voltandosi verso di me.
Perché? Era la domanda che volevo fargli ma temevo che la sua risposta potesse ferirmi più di quanto non fece la sua assenza per tutto quel tempo, avevo paura che mi dicesse qualcosa che le mie orecchie non volevano sentire.
-Eto kto takiye? (Chi sono?)-chiese tornando a guardare lo schermo.
Mi lasciai a un respiro liberatorio prima di rispondere. Non aveva senso continuare con quel teatrino e nascondergli tutto.
-Kapitan John Price i Kapitan John “Soap” MacTavish (Capitano John Price e Capitano John “Soap” MacTavish)-
-Operativno-takticheskaya gruppa 141?1 (Task Force 141?)-
Il suo tono si alzò di alcune note e notai anche stupore nel suo sguardo. So a cosa stava pensando e non potevo dargli torto. Ero completamente fuori di testa, ma quell’alleanza non sarebbe durata per sempre. Ora che lui era tornato, avremmo ripreso il nostro cammino insieme.
-Ty znayesh' chto delayesh'? (Sai cosa stai facendo?)-chiese preoccupato.
Annuii per fargli capire che non volevo parlarne, non in quel momento. C’erano troppe cose da fare e iniziare una conversazione con lui, nonostante non avessi finito con le domande, non era nei miei piani.
Tornai a guardare i video per aver un quadro generale della situazione. La zona era libera, solo l’esterno era sorvegliato. Uscire non sarebbe stato così semplice come credevo, l’ora del cambio delle guardie si stava avvicinando e noi eravamo ancora in alto mare.
Notai Price e Soap dietro la porta del secondo piano, pronti ad agire.
-Ok, vi vedo. Datemi tre minuti e sono da voi-
Mi alzai dalla sedia e mi avvicinai alla porta.
-Kuda vy napravlyayetes'? (Dove state andando?)-chiese Nikita.
-Gde ty skazala menya skhodit' (Dove tu mi hai detto di andare)-risposi come se fosse la cosa più ovvia al mondo, e in un certo senso lo era visto che era stato proprio lui a dirmi di farlo.
Scosse la testa e tornò a portare la concentrazione verso lo schermo.
-Prikhodite posmotret' (Vieni a vedere)-disse.
Guardai prima lui con un sopracciglio inarcato e poi i video della sorveglianza del secondo piano. Sbottai prima di lasciarmi cadere a peso morto sulla sedia. Passare inosservati non sarebbe stato così facile con un’interna unità di guardia, e usare la forza era un’idea che scartai a priori.
Feci vagare lo sguardo da uno schermo all’altro guardando la numerosa squadra nemica. Ora capivo perché l’intero edificio sembrava deserto, tutti i soldati erano messi a protezione del piano superiore.
Ci mancava solo quella scocciatura.
-Price, aspettate-dissi senza staccare lo sguardo dal grande monitor. -Ci sono quattro uomini dietro la porta dove siete voi, pattuglie lungo tutto il corridoio e altre due vicino agli uffici. Vi serve un diversivo se volete entrare-
Posai lo sguardo sulla piantina della struttura come se lì fosse scritta la risposta. Dovevo arrivare al piano terra e disattivare la corrente. La stanza con il generatore non era tanto lontana e se non avessi incontrato nessuno, l’avrei raggiunta in pochi minuti.
Guardai Nikita che annuì, si avvicinò ai cadaveri per prendere due auricolari e me ne diede uno prima di uscire dalla stanza.
-Ne hai uno?-chiese.
-Devo togliere la corrente. Appena le luci si saranno spente Nikita vi aiuterà ad entrare-
-Chi diavolo è Nikita adesso?-chiese spazientito.
-Non è meglio rimandare a dopo le presentazioni?-domandai retorica.
Il mio sguardo cadde sulle guardie e mi venne un’altra idea. Mi tolsi la mia divisa per prendere quella della security, facendo così avrei avuto più possibilità di passare senza attirare l’attenzione anche se la taglia non era proprio la mia. La maglia e i pantaloni mi stavano larghissimi, sembrava che dovessi andare a un concerto rap e chiunque guardandomi si sarebbe insospettito.
-Bud' ostorozhneye, ladno? (Fai attenzione, ok?)-dissi rivolgendomi a Nikita.
-Kak obychno (Come sempre)-rispose.
Guardai fuori dalla finestra il blu scomparire per lasciare spazio ad un rosa tenue. L’alba si stava avvicinando. Sapevo che ben presto le guardie si sarebbero date il cambio e noi non avevamo nemmeno iniziato. Il piano così come era stato studiato era semplice; dovevo entrare, recuperare le informazioni, cercare Aleksandr, ucciderlo, trovare Nikita e uscire di lì e per il momento ero riuscita a portare a termine solo due punti.
Sorrisi senza poterlo impedire, lui e Ivan erano vivi e non era un sogno. Fui intenzionata a darmi un pizzicotto ma quando risentii la sua voce attraverso l’auricolare che mi disse di essere arrivato, realizzai che era tutto vero.
Nonostante il destino avverso, ci eravamo ritrovati, e poco importava se eravamo dei ricercati perché finchè l’uno avrebbe avuto l’altro, sarebbe andato tutto bene.
Arrivai alla fine del corridoio, sporsi leggermente la testa per essere sicura che l’area fosse libera e camminai veloce fino alla stanza del generatore. Entrai richiudendo la porta alle mie spalle senza farla sbattere e mi avvicinai al grande pannello. Accesi la torcia per illuminare il quadro quel tanto che bastò per farmi trovare i cavi giusti. Invertii le loro posizioni per creare un corto circuito, tagliai i fili principali che portavano la corrente e in poco l’edificio restò al buio.
-Ho tolto la corrente. Vi raggiungo-dissi rivolgendomi a Price.
Non attesi nemmeno una risposta perché sapevo che Nikita mi avrebbe detto di andarmene e io non potevo farlo. Era solo questione di tempo prima che le luci si riaccendessero, l’allarme suonasse e tutto l’edificio fosse circondato. Mi immaginai già la sua espressione di rimprovero. Lui si preoccupava sempre per me, mi proteggeva e lo avrebbe fatto fino alla fine ma per me era come mettermi sotto una campana di vetro a osservare il lento degrado del mondo e questo io lo odiavo. Dovevo agire, non potevo restarmene con le mani in mano mentre tutto quello che c’era attorno a me spariva velocemente e cambiava come il giorno e la notte. Se c’era anche una sola possibilità che il mio aiuto potesse servire a qualcosa, dovevo darlo.
Uscii cauta dalla stanza e con passo felpato percorsi il corridoio per trovarmi nell’atrio al piano terra, mi guardai attorno furtiva prima di raggiungere le scale e fu proprio in quel momento che sentii un dolore acuto alla testa prima di vedere tutto nero.
 
Ripresi coscienza a causa di un forte boato seguito da una violenta scossa. Sentii la porta aprirsi, una voce urlare qualcosa e poi dei passi allontanarsi seguiti dal cigolio della porta che si richiudeva dietro di loro. Aprii gli occhi ma avevo la vista annebbiata, le immagini si sovrapponevano le une alle altre creando una visione distorta. Solo quando riuscii a mettere a fuoco la scena mi accorsi di essere legata. Le braccia erano dietro la schiena fissate ad una catena mentre le gambe premevano contro quelle fredde della sedia. Nel braccio sinistro avevo attaccato una sacca di sangue ormai finita mentre sulla gamba c’era un taglio profondo, l’unica cosa che gli impediva di sanguinare era il laccio emostatico. Potevo comunque sentire il dolore farsi strada su tutto il muscolo e poi espandersi fino a raggiungere la soglia della non sopportazione, probabilmente era stato danneggiato.
Guardai quella stanza con un sorriso sghembo. Non c’era nulla di nuovo. Tutto era rimasto come lo ricordavo. Le pareti e il pavimento, entrambi in pietra, erano ricchi di crepe e non c’era nessuna finestra. Solo una grata troppo piccola per passarci permetteva il cambio d’aria ed era posizionata ai piedi di un armadietto, dove se ricordavo bene, c’erano antidolorifici e altri tipi di medicazioni per gli interrogatori lunghi. Davanti a me c’era un vetro oscurante illuminato da una fioca luce che lasciava in penombra la parte in cui ero, sotto a esso un tavolo e una sedia entrambi in metallo.
In quel momento pensai a quanto ironica potesse essere la vita. Tempo fa io ero quelle che interrogava le persone sedute sulla stessa sedia in cui ero io, che torturava fino alla morte prigionieri che si rifiutavano di collaborare o che semplicemente uccidevo. Vederli agonizzare era una cosa che mi faceva sentire soddisfatta e potente.
Abbassai lo sguardo verso il pavimento coperto di sangue per poi rialzarlo verso lo specchio. Alcuni brividi si fecero largo sulla mia schiena per arrivare alla nuca. Aleksandr era là dietro, me lo sentivo. Percepivo quella paura ogni volta che lui era nei paraggi. Un nodo alla gola mi impedì di deglutire, sembrava quasi che avessi paura.
Dopo qualche minuto la porta si aprì di nuovo mostrandomi la sua figura. Nonostante la sua età aveva ancora una muscolatura robusta merito di anni di servizio militare. Lo guardai di sbieco meravigliandomi del fatto che il suo aspetto fosse rimasto immutato negli anni come i lineamenti duri e ben marcati messi in risalto da due occhi neri che gli conferivano un aspetto ancora più cattivo. L’unica cosa che trovai cambiata furono i suoi capelli neri anch’essi cresciuti e legati alla base del capo. Per il resto era rimasto lo stesso stronzo.
Sorrisi divertita nel vedere una cicatrice all’altezza dello zigomo, la stessa che gli procurai io quando cercai di ucciderlo.
Si avvicinò a me per togliermi l’ago e gettare via la sacca vuota, poi prese dall’armadietto delle garze con cui medicò il braccio e mi guardò. Era uno sguardo che non riuscii a decifrare, c’erano crudeltà, odio, stanchezza e una calma che faceva paura più della sua presenza.
-Tak chto zachem ty syuda priyekhali? (Allora, cosa ci sei venuta a fare qui?)-chiese.
-Nostal'giya starye dobrye vremena (Nostaglia dei vecchi tempi)-risposi sarcastica.
Ghignò divertito prima di sedersi di fronte a me e incrociare le braccia al petto.
-Ty v bodrom nastroyenii, uchityvaya obstoyatel'stva (Sei di buon umore considerando il tutto)-
Spostai lo sguardo per non dover incrociare il suo e mi concentrai su ciò che mi passava per la testa. Un groviglio di pensieri e ricordi non collegati tra loro che si rincorrevano per cercare un nesso logico che non esisteva. Ci ero già finita in una situazione simile, solo che non ero legata con delle catene e non potevo contare sul fatto che Aleksandr fosse impegnato a fare altro per badare a me.
Lo guardai giocherellare con il suo coltello. Sapevo come sarebbe andata a finire ma non mi diedi per vinta. Avrei lottato fino alla fine con tutte le mie forze pur di non aprire bocca e dire qualcosa che potesse mettere in pericolo Nikita o peggio ancora, Ivan.
Dopo vari minuti in cui non dissi una parola, Aleksandr si alzò e fece un giro in torno alla sedia, il coltello sempre in mano.
-Ya videl Nikita. Gde teper on? (Ho visto Nikita. Dov’è ora?)-
Lo guardai con aria di sfida. Anche se avessi saputo dove fosse non glielo avrei mai detto.
-Ne budu povtoryatʹ. Gde on? (Non lo ripeterò di nuovo. Dov’è?)-
-Mne nechego skazat’ (Non ho nulla da dirti)-risposi con tranquillità. –I poshel k chertu (e va all’inferno)-
Sorrise e poi appoggiò la punta del coltello sul dorso della mano.
-Ya predprezhdal (Ti avevo avvertita)-disse spingendo la lama dentro la carne.
Mi lasciai sfuggire un gemito di dolore e mi mossi sulla sedia con una violenza tale da tagliarmi i polsi con le catene.
-Kto byli ostalʹnyye? (Chi erano gli altri?)-
Invece di rispondere gli sputai in un occhio. Sorrise pulendosi e mi diede uno schiaffo con il dorso della mano. Sentii un terribile sapore ferreo in bocca, sputai il sangue a terra e tornai a guardarlo. La rabbia ribolliva dentro di me. Era come essere investiti da tante piccole scariche piene di energia, la quale mi dava poi una forza nuova, che non sapevo nemmeno io di avere.
-Yesli khochesh' igrat' sdelayem eto po- moim pravilam (Se vuoi giocare lo faremo a modo mio)-disse. La calma di prima sembrava essere sparita.
Liberò i polsi e poi tirò la catena che avevo legata ai piedi, la issò al soffitto e in un secondo mi ritrovai a testa in giù, mi immobilizzò le mani e si piegò sulle ginocchia per potermi guardare meglio.
I suoi occhi neri brillavano di una nuova luce e sul suo volto si formò un sorriso sadico.
-Gde Ivan? (Dov’è Ivan?)-chiese.
Mi dondolai in avanti e gli diedi una testata che gli fece perdere l’equilibrio. Cadde all’indietro ghignando di nuovo prima di tornare verso di me.
-Skazhi mne gde Nikita i Ivan i ty budesh' svoboden. Ty prosto podumay no znayete chto u tebya net mnogo vremeni  (Dimmi dove sono Nikita e Ivan e sarai libera. Riflettici ma sappi che non hai molto tempo)-disse, poi uscì.
Mi dimenai di nuovo sperando di poter almeno allentare le catene ma fu tutto inutile, dovevo trovare un altro modo per liberarmi prima che fosse troppo tardi. In quella posizione non sarei durata a lungo, il sangue sarebbe defluito verso la testa e in meno di un’ora sarei morta.
Guardai prima i piedi e poi le mani. Se fossi riuscita a slegare i polsi avrei potuto alzarmi e cercare un modo per liberare anche le caviglie ma non c’era nulla a portata di mano. Il coltello se lo era portato via e le mie armi erano sparite. Probabilmente le avevano prese prima di legarmi e torturarmi quando mi catturarono.
Ripensai a quanto stupida fossi stata. Ero abituata a captare anche i più piccoli respiri eppure non mi accorsi di quegli uomini dietro alle mie spalle.
Provai tristezza per loro che non sapevano nemmeno perché erano lì o cosa stessero facendo. Non ero nemmeno sicura che gli importasse qualcosa della loro vita. Erano solo certi del perché stavano facendo quello che stavano facendo; volevano avere la loro fetta di torta una volta che i loro piano sarebbero andati in porto, ma non avevano calcolato una cosa. Me. Finché ci fossi riuscita li avrei ostacolati in tutti i modi possibili.
Chiusi appena gli occhi e come in un flash mi ritrovai a guardare una scena familiare in una casa nel centro di Mosca sette anni prima. Casa mia, la mia vita, la stessa sera in cui tutto cambiò.
Quando varcai la soglia mi accorsi subito che c’era qualcosa che non andava, le luci erano tutte spente e la porta era rimasta aperta, il salotto era sottosopra e verso le scale c’era una scia di sangue che portava verso il piano superiore dove c’erano le camere. Il mio cervello aveva già elaborato cos’era successo ma il mio cuore si rifiutò di crederci e solo quando trovai i loro corpi privi di vita dovetti accettare il fatto che loro non c’erano più. Erano morti, spariti.
Caddi in ginocchio ma non piansi, non riuscii a versare nemmeno una lacrima perché non c’era più nulla per cui valesse la pena farlo, restai semplicemente piegata su me stessa con sguardo vuoto senza prestare attenzione a nulla in particolare perché ovunque dirigessi lo sguardo, vedevo tutto nero come un buco destinato a non chiudersi mai e a trascinarmi con sé nell’oblio dal quale sarei riemersa ancora più distrutta.
Il giorno dopo il funerale partii verso San Pietroburgo. Non potevo continuare a stare in quella casa, troppa paura dei ricordi, non sarei mai riuscita a dormire nella nostra camera da letto o camminare in quelle stanze ormai vuote. Sarebbe stato un po’ come vivere in una città fantasma, avrei continuato a percepire la loro presenza ovunque, sarei impazzita nel guardare tutte quelle foto che mi rimandavano a un passato che dovevo cancellare.
Abbassai lo sguardo per guardare le mani e avvertii un forte senso di nausea, seguito da un momentaneo offuscamento della vista e da una terribile una fitta ai polmoni. Dovevo slegarmi, e anche subito se non volevo rimetterci la pelle per davvero.
Guardai di nuovo le catene e mi venne un’idea. Non potevo sfilare le mani però potevo spezzarmi i pollici.
Esitai qualche secondo quando vidi il vetro oscurante. Se ci fosse stato qualcuno là dietro mi avrebbero vista, ma non avevo tempo per ripensarci.
-Davay, ty soldat. Ne bud' devchonkoy (Coraggio, sei un soldato. Non fare la femminuccia)-dissi per darmi forza e proprio un attimo prima di rompermi le due dita sentii la porta aprirsi.
Il mio cuore aumentò i battiti nel timore che fosse ancora una volta Aleksandr, ma quando vidi MacTavish avvicinarsi a me, tirai un respiro di sollievo.
-Price, l’ho trovata-disse attraverso l’auricolare.
Lo guardai di sbieco come a voler formulare una muta domanda. So che dovevo essere felice che qualcuno mi stesse aiutando ma non era lui che volevo. Guardai dietro di lui sperando di vedere Nikita. Nulla era solo.
-Serve una mano?-chiese avvicinandosi.
-No, stavo pensando di restare in questa posizione ancora per qualche ora, tanto non ho di meglio da fare-risposi ironica.
Scosse la testa forse divertito dal mio comportamento. Lo guardai inarcando un sopracciglio non riuscendo a cogliere bene la parte divertente di quella situazione, a parte il fatto che sembravo un maiale pronto a essere portato al macello.
-Dov’è Nikita?-chiesi curiosa.
Mi guardò per un paio di secondi prima di tornare a trafficare con le catene ai polsi.
-Non ne ho idea, siamo entrati e poi è sparito-rispose.
Dalla mia gola uscii un verso strozzato il quale voleva essere più un sussulto ma la mia scomoda posizione mi fece andare di traverso la saliva. Possibile che fosse stato così incosciente da volerlo affrontare pur sapendo che non ne sarebbe uscito tutto intero?
E poi quella che si cacciava sempre nei guai ero io. Quando saremmo usciti gli avrei fatto un bel discorsetto.
Sentii la presa ai polsi allentarsi fino quando penzolarono liberi. Le braccia diventarono pesanti e per un breve istante iniziai a temere che si sarebbero staccate se non avessi fatto qualcosa.
-E tutte le guardie all’esterno?-continuai.
-Hanno il loro bel da fare-rispose prendendomi sotto braccio, poi sparò al lucchetto che teneva ancora prigioniere le caviglie.
Aprì bocca per chiedere cosa volesse dire ma la richiusi subito dopo. Le esplosioni sentite prima dovevano essere opera loro. Avrebbero potuto trovare un modo più discreto per entrare ma non mi lamentai, probabilmente anche io avrei fatto la stessa cosa.
Mi massaggiai i polsi divenuti ormai viola e mossi il collo che scricchiolò.
Respirai felice di non sentire più il fiato morirmi in gola.
-Fatti dare un’occhiata-disse.
E prima che potessi rispondere o fare qualsiasi altra cosa, prese la torcia e la puntò verso i miei occhi che chiusi immediatamente. Voltai la testa dall’altra parte e abbassai il capo sbattendo le palpebre un paio di volte prima di veder scomparire l’ologramma del il flash che si era creato.
-Sto bene-protestai neppure troppo convinta.
-Hai le pupille dilatate-
-Sì, beh, un trauma cranico non fa bene a nessuno-
Sogghignò prima di controllare la mano che continuava a sanguinare.
Non capii subito quel suo sorrisino e solo quando mi accorsi della mia risposta mi morsi la lingua per punire la mia stupidità. Indirettamente gli avevo detto che non ero proprio nella mia forma migliore.
-A nessuno tranne che a me-corressi la frase di prima.
-Non credi che chiedere aiuto renda le cose più facili?- chiese assicurandosi delle mie condizioni.
Fortunatamente non si soffermò troppo a guardare i lividi o i tagli e di questo gliene fui davvero grata, era troppo vicino e la cosa non mi piaceva. Avevo bisogno dei miei spazi per non sentirmi così vulnerabile, se stavo da sola potevo tranquillamente piangere perché nessuno mi avrebbe giudicata, ma quando le persone mi stavano attorno, sembrava che volessero abbattere quella corazza che mi ero costruita con tanta fatica per scoprire i miei segreti e usarli contro di me. È per questo che piano, piano iniziai a isolarmi nella mia solitudine stando bene attenta a non farci entrare nessun’altro se non i miei demoni interiori con i quali conversavo pure nell’inutile speranza che almeno loro mi comprendessero, a volte mi capitava pure di sentirli ridere mentre raccontavo loro i miei problemi.
Per questo non mi piaceva sembrare debole. La prima e unica volta in cui mi mostrai per la ragazza fragile quale ero mi ritrovai un proiettile nel polmone destro e un coltello all’altezza del cuore. Tutta gentile concessione di Aleksandr che dopo essersi occupato di mio fratello pensò di riservare lo stesso trattamento anche a me.
Alzai lo sguardo verso MacTavish ma non risposi. Per la prima volta non trovai una risposta adeguata eppure ero sempre stata una che non smetteva mai di parlare, sapevo sempre e in qualsiasi situazione cosa dire perché anche se solo verbale, io il duello lo dovevo vincere.
Indicai l’armadio dietro di lui. –Lì ci sono delle garze-
Avevo solo bisogno che si allontanasse.
Mi guardò per qualche secondo temendo che potessi andarmene, e fui davvero tentata di farlo ma avevo bisogno di curare le ferite prima.
-Non vado da nessuna parte-dissi per convincerlo.
Raggiunse l’armadietto e fece qualche passo indietro prima di inginocchiarsi per prendere qualcosa dall’ultimo ripiano.
Guardai la porta temendo di vedere tornare Aleksandr da un momento all’altro, dopotutto aveva detto che sarebbe tornato per conoscere la mia risposta anche se sapeva che non gli avrei detto un bel nulla e, comunque, dubitavo che dopo aver cercato di ucciderci a vicenda saremmo tornati in squadra come nulla fosse, alla prima occasione mi sarei ritrovata con un coltello alla gola, poco ma sicuro. E poi anche io avrei tentato di toglierlo di mezzo. È questo quello che fanno due nemici, cercano di distruggersi a vicenda.
-Perché tengono delle sacche di sangue?-chiese.
-È una cosa scomoda far morire un prigioniero di dissanguamento se può…-
Mi appoggiai al tavolino quando sentii le mie gambe cedere sotto il mio peso e scossi la testa per scacciare quel senso di smarrimento. Quello non era il momento adatto per svenire, prima di farlo dovevo quantomeno trovare un luogo adatto.
-…se può rivelare informazioni utili-finii la frase.
Mi rialzai trovandomi a guardare dentro due piccoli oceani. Non mi resi nemmeno conto che Mac riuscì ad afferrarmi proprio un secondo prima di cadere. Il suo braccio destro mi cingeva il fianco per darmi un minimo di supporto e l’altra mano corse sulla schiena. Sostenei quel suo sguardo fino quando non riuscii più a reggere il confronto, sembrava chiedermi se stessi davvero bene; non mi avrebbe creduto se gli avessi detto di sì ma non potevo nemmeno dirgli che riuscivo a malapena a tenere gli occhi aperti.
Appoggiai le mani sul suo petto e spinsi leggermente per liberarmi. Dopo il disastro a Mosca non ho mai amato che le persone si avvicinassero così tanto a me, Nikita era l’ unica eccezione anche se all’inizio non mi fidavo nemmeno di lui e lo trattavo con la stessa diffidenza di sempre.
Appoggiò sul ripiano un flaconcino bianco e tre fasce che usai per medicare la mano e la gola. La gamba mi limitai a disinfettarla e poi fasciarla con cura, il laccio lo avrei tolto una volta al sicuro.
-Riesci a camminare?-chiese porgendomi una pistola e un coltello.
Annuii prima di fare qualche passo barcollante verso la porta. La testa riprese a girare, mi sembrava di stare su una giostra.
Lo seguii lungo il corridoio guardando furtivamente ogni angolo, avevo paura che Aleksandr potesse saltare fuori e non volevo incontrarlo dopo essere riuscita a scappare. Trovarmi di nuovo faccia a faccia con lui avrebbe confermato quanto sfortunata fossi. La dea bendata si divertiva a prendersi costantemente gioco di me, all’inizio la prendevo un po’ come una sfida che adoravo cogliere, ma con l’avanzare del tempo mi resi conto che quelle continue lotte mi stavano rovinando. Le cose non andavano mai come prevedevo, cambiavano senza il minimo preavviso. Ogni mio piano veniva sempre modificato e io non potevo fare nient’altro se non abituarmi a quella nuova situazione.
Mi fermai improvvisamente quando mi ricordai di Nikita, non avrei mai lasciato che lo fronteggiasse, lo avrebbe ucciso.
-Dove stai andando?-chiese Soap.
-A cercare Nika, non lo lascio da solo-ribattei sicura.
-Sì? Ma se riesci a malapena camminare-
Non risposi, lo sorpassai senza degnarlo di uno sguardo. È vero che non riuscivo a fare quattro passi senza sembrare ubriaca ma non potevo andarmene senza di lui.
-Selena, aspetta-sbuffò.
Lo guardai con la coda nell’occhio, se aveva intenzione di fermarmi non ci sarebbe riuscito.
-Hai dieci minuti, poi partiamo senza di te-disse.
Alzai le spalle noncurante. Per me potevano andarsene anche in quel momento, la cosa non mi avrebbe toccata minimamente.
Tornai indietro fino alla sala della video sorveglianza, da lì avrei avuto più possibilità di trovarlo. Aprii la porta e andai verso i monitor che non mi mostrarono nulla di utile. Le celle erano occupate da prigionieri di guerra ma di Nikita nemmeno l’ombra. Il magazzino era grande e non potevo perquisirlo da cima a fondo. Mi grattai la testa come se quel movimento potesse essermi d’aiuto e risalii le scale, forse sapevo dove poteva essersi cacciato. Arrivai di nuovo al secondo piano e percorsi il corridoio con una spalla attaccata al muro fino quando giunsi alla fine. Quella stanza era l’ufficio personale di Aleksandr, sperai che Nikita fosse lì, intento a cercare qualsiasi cosa che secondo lui potesse essere utile.
Posai una mano sulla maniglia e spinsi leggermente la porta. Feci dardeggiare lo sguardo da un angolo all’altro della stanza vuota. Quella calma non mi convinceva, anche se molti soldati erano alle prese con il loro diversivo, qualcuno doveva pur essere rimasto all’interno.
Estrassi la pistola ed entrai tenendo l’impugnatura ben salda. Le mani mi sudavano e tremavano allo stesso tempo.
Qualcuno mi afferrò il braccio e mi sbattè contro la parete con forza, nell’impatto l’arma mi cadde dalle mani. Il mio aggressore le diede un calcio per allontanarla poi con una mano mi colpì il viso, gli sferrai una ginocchiata nello stomaco che lo fece arretrare di qualche passo lasciandomi abbastanza spazio per staccarmi dal muro e guardare chi fosse.
La sua faccia mi era nuova, doveva essere un nuovo acquisto degli ultranazionalisti. Non poteva avere più di vent’anni, più o meno la stessa età che avevo io. Chissà quali stronzate gli avevano propinato per convincerlo ad unirsi a loro.
Cercai di colpirlo un’altra volta nello stomaco con un calcio ma lui mi prese il piede fermandomi, usai l’altra gamba per saltare e sferrargliene un altro sotto il mento, accusò il colpo indietreggiando di nuovo, lasciandomi il tempo di riprendermi. Ero ormai allo stremo delle forze ma non potevo mollare. Corsi verso di lui e mi abbassai all’ultimo momento per colpire le ginocchia facendolo cadere, tentai di recuperare la pistola per sparargli ma afferrò la mia caviglia e mi trascinò giù. Nell’impatto picchiai la testa molto violentemente, chiusi gli occhi involontariamente e quando li riaprii lo vidi inginocchiarsi vicino a me. Posò un ginocchio sul petto e premette.
Sentii lo stomaco schiacciarsi, l’aria presto iniziò a mancarmi e boccheggiai come un pesce fuori d’acqua per riuscire a respirare.
-Kakiye khrenoten' oni obeshchali tebe? (Quali stronzate ti hanno promesso?)-chiesi riuscendo malapena a scandire le parole.
-Takuyu ne khrenoten' (Non sono stronzate)-rispose premendo ancora di più.
Opposi resistenza cercando di scrollarmelo di dosso ma lui sembrava intenzionato ad andare fino in fondo.
-Uznayesh', kogda budet slishkom pozdno (Te ne accorgerai quando sarà troppo tardi)-
Mi guardai attorno cercando di trovare un’arma la pistola era troppo lontana e non riuscivo a raggiungere il coltello che aveva al fianco sinistro.
Le costole iniziarono a farmi male insieme ai polmoni. All’improvviso tutto diventò buio, mi sentii debole e stordita tanto che non riuscii più a capire se quello che stava accadendo in torno a me fosse reale o meno.  Poi con l’ultimo residuo di lucidità e forza che trovai, presi il coltello dalla mia cintura dei pantaloni e puntai diritto al collo. La lama entrò nella carne causando schizzi di sangue che caddero su di me insieme al suo corpo senza vita. Presi una grande boccata d’aria che i miei polmoni apprezzarono e mi avvicinai alla pistola a carponi tenendo una mano sullo stomaco. Tossicchiai un paio di volte prima di provare a rialzarmi e cadere come un sacco di patate.
In quel momento non c’era un solo muscolo o un solo osso che non mi facesse male, anche respirare mi causava spasmi  e ogni volta che inspiravo sentivo i polmoni arrivare fino alle costole.
Mi ci voleva decisamente una vacanza.
Mi aggrappai al montante della porta per rialzarmi, infilai la pistola nel retro dei pantaloni e uscii per andare verso il deposito documenti dove trovai Nikita intento a cercare qualcosa in uno degli scaffali.
-Nadeyusʹ ya vas ne prerval (Spero di non disturbarti)-dissi appoggiata allo stipite della porta.
Mi guardò per un istante e poi riprese a frugare scartando fascicoli che finirono sparsi sul pavimento.
-Day mne minutu (Dammi solo un minuto)-
-Privezti vodku? (Ti porto della vodka?)-chiesi sarcastica.
Alzò di nuovo lo sguardo verso di me e capì che dovevamo andarcene. Prese alcune carte e uscì dalla stanza.
Camminai lungo il corridoio aggrappandomi al muro, le forze ormai mi stavano abbandonano ma dovevo resistere, presto sarei uscita da lì e avrei cercato un posto dove curarmi.
Sapevo che poco lontano c’era un ospedale e che sicuramente quello sarebbe stato il primo posto in cui mi avrebbero cercata ma non avevo intenzione di restarci per molto, giusto il tempo di trovare degli antidolorifici, delle garze, qualcosa con cui rattopparmi  e della connettivina se ne avessi trovata, poi sarei uscita e sarei rimasta lontana dalla Russia per un po’ o almeno fino quando non si fossero calmate le acque.
Arrivammo alle scale e un lieve senso di vertigini mi colse all’improvviso costringendomi a chiudere gli occhi. Mi appoggiai al corrimano per scendere quella prima rampa ma caddi sul primo scalino. Ansimai sia per lo sforzo sia per il dolore. L’adrenalina il suo lavoro lo aveva fatto e ora stava svanendo.
Mi sedetti per guardare Nika senza dire una parola, non c’era bisogno di parlare in quel momento, volevo solo un po’ di silenzio. In sette anni le mie orecchie non riposarono un solo secondo, sempre sotto l’incessante rumore del fuoco nemico, delle urla e dei pianti disperati. Mai il suono della musica o la risata di un bambino che giocava felice in cortile. Tutto quello che udivo era odio puro, un odio disumano perché nessuno per me poteva essere capace di tanta crudeltà.
Mi rialzai con un lamento di dolore, una fitta al fianco sinistro mi fece piegare su me stessa.
-Davay, nam nado ubirat'sya otsyuda (Forza, dobbiamo uscire di qui)-
Guardai Nikita prendermi sotto braccio e aiutarmi a scendere le scale fino all’atrio del piano terra rischiarato un flebile raggio di sole che entrava dalla porta. Dovevano essere le prime luci, pensai.
Riuscii a fare solo qualche altro passo prima di sentire il mio corpo cadere in avanti e i miei occhi chiudersi.
 
 
 
1=ammetto che non sapevo come si dicesse in russo quindi, onde evitare di scrivere cagate, ho chiesto aiuto a un mio amico nato proprio in Russia per questa parte (tra l'altro mi aiuta a formare parecchie frasi quando non ci arrivo da sola con la mia testolina, quindi suppongo lo dovrò ringraziare il doppio :3 ).
 
 
 
        Angolo dell’autrice *risate generali*
Mi sono accorta che è da febbraio che non aggiorno
*si nasconde dietro il monitor*
ma non riuscivo davvero a scriverlo questo capitolo.
L’ho riscritto una decina di volte togliendo cose
e aggiungendone altre e questo è il meglio che sono riuscita a fare.
se questo è il meglio non voglio immaginare gli altri
starete pensando, e avete ragione, meglio che non sappiate com’erano.
Spero che la lunghezza mi faccia perdonare almeno un po’. C:
 
 yulen reporting. Over and out.
   
 
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