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Autore: David 10    20/01/2014    0 recensioni
David è un giovane detective che, grazie suo intuito, riuscirà a dissipare il mistero che nella sua città avvolge diversi omicidi all'apparenza inspiegabili. Purtroppo la sete di conoscenza porterà il ragazzo a scoprire un ulteriore storia al di sotto dell'intrigo, all'interno della quale è coinvolta la sua amica Katerina, apparentemente la colpevole.
[ Fic scritta a quattro mani, Crossover: alex simon e david 10]
Genere: Drammatico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Cross-over | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Le luci dei lampioni erano riflessi sull'umido dell'asfalto, ricordo della nebbia mattutina. Mark come consuetudine percorreva quella strada per giungere in paese, ma quella sera sarebbe rimasto in periferia,e questa volta per sempre. La luna era annegata tra le nubi,e l'unico compagno del ragazzo era il vento, che con le sue parole preannunciava un temporale, le cui gocce avrebbero segnato la vita di Mark. Quella strada era segnata al suo inizio da una scena macabra, un gatto sul ciglio, morto, consumato dalla pioggia, e che ogni volta Mark era costretto a vedere, ed in quegli occhi fissi, un grido di aiuto perduto nel vento. Ma il mantello della morte quella sera prediligeva una vittima diversa, e si apprestava a calare su di essa come una soffice nuvola, per poi stritolarla. Un lampo e un luccichio distrassero lo sguardo di Mark, in una frazione di secondo un coltello uscì dall'oscurità si piantò nella giugulare del ragazzo e la saetta scomparve. A terra il ragazzo che si dimenava, cercava di premere le mani sulla gola, un ultimo disperato tentativo di reagire al suo destino. Cercò di alzarsi, voleva, doveva sapere chi! Aveva il diritto di conoscere a chi appartenesse la mano della morte, la fine dei suoi sogni. Voleva scrutare il volto di chi aveva messo un muro invalicabile tra lui e la sua vita futura; doveva ancora scoprire cosa fosse il mondo, cosa significasse amare. Le sue paure si stavano affievolendo, ormai la fine era giunta, ma una sola cosa lo fece agghiacciare "Credevi di sfuggire a me! Pensavi di nasconderti tra le nuvole della notte?" una voce ultraterrena apparve di fronte a Mark "Hai segnato il tuo destino caro mio! Sei davvero ingenuo, percorrere la stessa strada... " un ghigno comparve sul volto dell'uomo "Ora muori, ma in silenzio, e non sorprenderti, lo sapevi che ti avrei trovato". La voce si allontanò, lasciando il ragazzo morire, ma nell'ombra c'era qualcun altro.
L’uomo si allontanò velocemente e la figura che prima si celava nell’ombra, uscì allo scoperto illuminata dalla luce dei lampioni. Una giovane ragazza rimase immobile di fronte al corpo del giovane ragazzo, un tremito improvviso le attraversò i corpo, forse era il freddo, oppure una sensazione di liberazione; l’incubo era finito, e lei ora era libera. Con un coraggio che non sapeva di avere guardò negli occhi ormai freddi, ma con la chiara espressione di paura, di Mark, ora lui era a terra e lei lo guardava dall’alto-quanto può essere ironica la vita a volte- pensò Jennifer, e si allontanò a grandi passi.
La scuola subiva una trasformazione nelle ore pomeridiane, e se la mattina era piena di vita, ora sembrava una di quelle vecchie fabbriche abbandonate. All’interno vi si potevano trovare solo alcuni professori, ma per la maggior parte erano ragazzi che seguivano dei corsi di recupero. I corridoi erano limpidi di detersivo, le pulizie avevano appena terminato il loro lavoro, e a breve i corsi sarebbero terminati, lasciando il plesso completamente deserto. Se alcuni dei piani erano silenziosi e pieni di voci istruttive, uno dei piani in particolare era pervaso da un’aria densa, un rumore di sciacquone ruppe quello stato di sinistra quiete, e Justin si apprestò ad uscire dal bagno. Un ombra all’apparenza innocua, trascinava dietro di sé l’ombra della morte, la mano armata doveva agire; era il momento. Una spinta improvvisa e la porta si spalancò, il ragazzo venne catapultato contro la porta del gabinetto e per poco non si scardinò; l’ombra si rivelò ai lampi che illuminavano il bagno che l’ignaro Justin aveva reso buio, inconsapevole che questo avrebbe determinato la sua morte. Appoggiato al duro legno della porta cercò di scrutare nel buio il suo aggressore, ma era tutto inutile, quando la mano malvagia agisce un buco nero assorbe ogni cosa; sfuggirgli è una mera utopia. Freddo, improvviso rumore di gocciolio, qualcuno potrebbe pensare ad un rubinetto vecchio, tipico delle scuole, ma non era così. Justin si piegò in due, ginocchia a terra, un dolore addominale lancinante, ed un viso proveniente da un lontano ricordo si mostrò a lui; non era la salvezza, ma il chiaro segno che la sua fine era giunta. Un ultimo ma non meno saldo solcò di netto la gola del ragazzo, che ne determino quasi la fuoriuscita del pomo d’Adamo; Justin si accasciò a terra con gli occhi verso quei lampi ormai sempre più lontani. La figura con fare disinvolto lavò il coltello e uscì dal bagno fischiettando, quel motivetto inondò l’intero piano, ma nessuno lo udì, e appena scese le scale il silenzio tornò a regnare.
L'aula era ormai deserta, tutti i suoi compagni di corso si erano affrettati a lasciare l'edificio... d'altronde le lezioni pomeridiane non erano poi questo bel passatempo.
Solo una ragazza si era attardata, in fondo alla stanza riponendo le proprie cose all'interno della sacca: Un libro, un quaderno, probabilmente il lucidalabbra disperso in qualche tasca.
Afferrò il cellulare, oggetto della sua ricerca, controllando velocemente se ci fossero nuovi messaggi, fortunatamente solo un paio di amiche, nulla di che preoccuparsi.
Infilato il giacchetto si diresse verso l'uscita. Per quanto poteva vedere attraverso i vetri opachi e graffiati dell'edificio, fuori si stava scatenando un bel temporale: si sarebbe affrettata a raggiungere il parcheggio sperando di non bagnarsi troppo.
Spense la luce e chiuse la porta, entrando nel corridoio oscuro, illuminato di tanto in tanto dai tuoni che in lontananza si intravedevano, come una minaccia.
I vetri scossi dalle intemperie vibravano, e il rumore rimbalzava tra le pareti spoglie e fredde.
L'atmosfera non la metteva esattamente a proprio agio, le porte di alcune classi erano aperte bloccandole a tratti la visuale. Era l'opposto dell'ambiente che era solita frequentare tutte le mattine: Così solare, caotico...
Quella sembrava soltanto una casa degli spettri, il che le suggeriva vivamente di affrettarsi ad alzare i tacchi: c'era qualcosa nell'aria, di indefinibile.
"Calma Kat... Non c'é nessuno di cosa dovresti aver paura?".
Disse a se stessa Katerina, prima di puntare gli stivaletti di pelle a terra e proseguire giù per le scale che l'avrebbero condotta al parcheggio.
I riccioli castani ondeggiavano sulla schiena a ritmo dei passi, le labbra rosse arricciate in un ghigno di sfida, negli occhi neri una determinazione, che sapeva soltanto di convinzione personale. Dopotutto un po' di sicurezza non le avrebbe fatto male, la stessa di cui si vestiva ogni giorno, ostentandola neanche un trofeo.
Nessuno l'avrebbe stesa al tappeto, o almeno nessuno si sarebbe accorto del suo stato, non avrebbe mai concesso tale vittoria a chi non desiderava altro che possederla e vederla sottomessa al suo volere.
Uno spiffero gelido le accarezzò il collo scoperto nel momento in cui svoltò l'angolo per trovarsi dinanzi l'ultimo corridoio da percorrere.
Quando alcune gocce di pioggia andarono a colpirle il viso rabbrividì stringendosi nella sciarpa: La porta di servizio era spalancata, a terra diverse impronte.
Che qualcuno fosse entrato di straforo? Ma perché lasciare una tale confusione intorno?  
Si avvicinò cautamente spingendo la lastra di ferro che si chiuse in un unico lungo cigolio.
La situazione non prometteva affatto bene, la sicurezza che poc'anzi si era imposta andava via via sgretolandosi, riversata lì dove non l'avrebbe più recuperata.
Sapeva perfettamente di trovarsi in una situazione surreale eppure tutta la fredda razionalità con cui era partita la stava abbandonando, lasciando spazio alla paura... All'inquietudine, ad un diverso tipo di gelo che le stringeva il cuore e lo stomaco in una morsa sola, così stretta, così crudele.
Non doveva crollare, si disse, non lì non in quel momento, nella sua stanza avrebbe potuto piangere le ultime lacrime rimaste ma la priorità al momento era aggirare l'ostacolo e scappare lontano.
Quello era il posto che meno preferiva nell'Istituto, sebbene si trovasse al secondo piano era un'ala abbastanza desertica, dove raramente qualcuno passava.
Non c'erano classi bensì solo laboratori, cartelloni, stanzini per le scope e le attrezzature... E il bagno dei ragazzi.
Piastrelle rotte, lavabi sfondati, l'unica cosa di funzionante, lo sapeva fin troppo bene erano le chiavi delle porte. Maledette stupide porte, perché quel posto dimenticato da Dio non era stato chiuso?!
Iniziarono a tremarle le gambe, nel frattempo che ricordi orribili, viscidi, disgustosi si arrampicavano sulle pareti del suo stomaco dandole la nausea.
Cadde in ginocchio, sentendo gli occhi pizzicare, le mani strette convulsamente su quel pavimento polveroso.
Non una lacrima le solcò il viso, si era ripromessa di essere forte, ormai era tutto finito... Stava bene, era salva.
I capelli incollati alla fronte, sudore freddo che si impossessava del viso pallido.
Raccolse quel briciolo di autocontrollo che le era rimasto, alzò la testa, si mise in piedi scossa dai tremiti, e si portò sempre avanti, lungo quel corridoio oscuro.
La vista appannata, la testa girava, le gambe sembravano volerle giocare un brutto scherzo. Ma ce l'avrebbe fatta... Uno alla volta, il suono dei suoi passi le riempiva la testa, guardava solo la parete in fondo, la sua meta, la sua salvezza.
Quando però inciampò, trovandosi nuovamente a terra... Un odore ferroso le si piantò giù per la gola, la nausea crebbe, la paura schizzò alle stelle.
Il cuore perse un battito, due, tre, per poi ripartire più velocemente di prima, si schiacciò contro il muro alzò la testa al soffitto cercando di cancellare tutto, di estraniarsi, di portarsi in un altro luogo, qualsiasi, che fosse lontano e pacifico.
Sussurrò una mezza imprecazione stringendo i denti, le palpebre... Ma si costrinse ad aprirne una.
Stava per pregare il suo assalitore di essere lasciata in pace, sarebbe scoppiata in lacrime se sarebbe servito, ma nessuno le aveva afferrato la caviglia per farla cadere... Perché la persona di cui aveva più paura era lì immobile, dinanzi ai suoi occhi, riversa in un lago scarlatto, la gola squarciata di netto, la carne macchiata ed esposta... I suoi occhi una volta beffardi, sicuri, malvagi come quelli del gatto che gioca col topo, perché con lei aveva giocato in quel modo, vuoti, spenti... Rivolti al soffitto. Justin era morto, non le avrebbe mai più fatto del male, una parte del suo cervello lo sapeva. L'altra terrorizzata non riusciva a trasmettere al corpo nemmeno l'impulso di gridare
 
  
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