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Autore: northernlight    22/01/2014    2 recensioni
"Ho scelto lei stasera, che importa il resto? È questo il ricordo che voglio lei porti con sé il più a lungo possibile. Infondo si tratta di questo, no? Far sentire qualcuno speciale, importante, come l’importanza che loro danno a noi ad ogni concerto."
Genere: Fluff, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Every second is a lifetime.







Adam era solo, seduto nella sala comune del backstage già pronto e vestito… un’ora e mezza prima del concerto. Non so come facesse ad essere sempre così in largo anticipo, sempre impeccabile, sempre etereo, sempre Adam. Io ero appena uscito dalla doccia; ero tesissimo, la notte prima non avevo chiuso occhio e mi ero imbottito di caffè per cercare di rimanere sveglio e non addormentarmi sul palco. Eravamo a Glasgow, quella sera avremmo suonato al The Garage, un locale niente male e – soprattutto – era un posto piccolo, di quelli che piacciono a me. In mattinata avevamo fatto solo un’intervista e poi avevamo vagato liberamente per la città e, per essere aprile in Scozia, c’era un sole eccessivamente caldo. Quella settimana avevamo suonato attraverso tutta l’Europa ed eravamo stanchissimi, Adam ha quasi rischiato di addormentarsi durante un soundcheck mentre eravamo in Olanda. La sera prima eravamo a casa nostra, a Manchester e, ovviamente, l’after dopo il concerto si è protratto più del dovuto – avevo il vago ricordo di un orologio nel pub che segnava le cinque e nove di mattina – tanto da decidere di raggiungere Glasgow col tour bus in modo da recuperare un po’ di sonno e smaltire la sbronza rinunciando ad un più comodo viaggio in aereo. Io ero appena uscito dalla doccia ancora avvolto nel morbido accappatoio bianco che ci fornivano per ogni concerto; andai a sedermi su un divanetto poco lontano da Adam, stesi le gambe e mi coprì gli occhi con il cappuccio. La luce asettica e troppo forte mi dava fastidio agli occhi.

“Sei ancora in quelle condizioni?” mi chiese Adam dopo qualche minuto di silenzio, sapevo che mi stava guardando male perché odiava la gente che rimaneva troppo tempo in accappatoio dopo aver fatto la doccia. Non risposi, scoprì un occhio e lo guardai di nascosto: sedeva con le gambe accavallate e sfogliava svogliatamente una rivista di moda tenendo un chissà quale ritmo col piede sospeso a mezz’aria.

“Dai, è presto e ho mal di testa” buttai lì con poca convinzione. Adam aveva ragione, dovevo darmi una mossa visto che ci mettevo poco meno di un’ora a prepararmi. Mi misi a sedere lentamente visto che la testa mi girava ancora e non sembra volersi dare una calmata.

“C’è ancora del caffè?” chiesi stropicciandomi gli occhi, li riaprì qualche secondo dopo e Adam era in piedi davanti a me con una tazza stracolma di caffè senza zucchero.

“Ti ho tenuto da parte l’ultima tazza” disse porgendomela senza staccare lo sguardo dalla rivista che stava leggendo. Era un atteggiamento tipico di Adam, quello di risultare freddo e distaccato con tutti – anche con me – ma, tra i due, era quello che più si prendeva cura degli altri e soprattutto di me.

“Oh, grazie” mormorai in preda ad uno sbadiglio. Lo osservai attentamente: indossava una camicia bianca infilata nei pantaloni neri tenuti su da due sottili bretelle incrociate sulla schiena, le scarpe lucidate e i capelli perfettamente in ordine. Tornò a sedersi mentre io mi alzavo bevendo il mio caffè, arraffai pantaloni e camicia e andai a vestirmi in un’altra parte del backstage.

“Non rovesciarti il caffè addosso, finiscilo prima di indossare qualsiasi cosa, soprattutto la camicia.”
Non mi girai, per tutta risposta mi buttai dietro la schiena gli abiti appesi alla gruccia e lo sentì ridere sommessamente. Ovviamente Adam aveva ragione visto che sarei stato capace di far diventare beige quella meravigliosa camicia bianca; mi infilai i pantaloni, finì il caffè e passai alla camicia. Ero solito vestirmi molto lentamente, era un rito che mi calmava, mi dava la possibilità di riflettere e pensare e quella sera ero abbastanza preoccupato per lo show perciò me la presi davvero con calma. Abbottonai entrambi i polsini, poi passai alle asole, ad infilarmi le scarpe e – infine – a sistemarmi i capelli. Tornai da Adam che, nel frattempo, era stato raggiunto dalle ballerine che salivano con noi sul palco; stava parlando con Emily ma distolse lo sguardo appena entrai nella stanza. Allargai le braccia mostrandogli la camicia perfettamente bianca e senza macchie di alcun tipo. Adam sorrise impercettibilmente tornando a parlare con la ragazza, io scossi la testa e feci un rapido giro per salutare chi ci aveva raggiunto poi infilai la giacca e mi avvicinai all’entrata del palco. Era quasi ora di iniziare il concerto, di solito arrivavo prima di Adam e prendevo qualche minuto per me dietro le quinte: mi piaceva osservare inosservato il pubblico prima del nostro ingresso, mi piaceva sentire l’adrenalina aumentare grazie a quella visuale, a tutte quelle anime che aspettavano di vedere Adam e me suonare e cantare. Era qualcosa a cui non mi ero ancora abituato dopo anni di gavetta, concerti e festival.

“E credo che non mi ci abituerò mai” dissi ad alta voce osservando le prime file piene zeppe di persone accaldate, attaccate alla transenna a mezzo metro dal palco. C’erano per lo più ragazze, constatai sentendo quasi la voce di Adam che mi prendeva in giro. Sussultai quando una mano liscia e pallida mi si poggiò sulla spalla sinistra.

“Hai già dato un’occhiata?” mi chiese Adam pacatamente, la sua apparente tranquillità prima di ogni esibizione mi mandava in bestia ma, contemporaneamente, annegare in quegli occhi azzurri mentre ero sull’orlo di una crisi di nervi, mi manteneva calmo.

“Sì, stavo guardando un po’ cosa ci aspetta stasera.”

“Trovata la preda?” sussurrò ridacchiando

“Certo, Adam, come sempre” risposi pur non avendo intravisto effettivamente nessuno. Era mia abitudine, e Adam lo sapeva benissimo, cercare tra il pubblico una ragazza – la ragazza più bella a mio parere – su cui concentrarmi mentre cantavo.

“Prima o poi ne farai morire una di crepacuore, Theo” mi disse assestandomi una pacca sulla spalla e precedendomi sul palco. Sorrisi a quell’affermazione, infilai i miei soliti guanti di pelle nera e lo raggiunsi al microfono tra le urla del pubblico adorante.
Amavo cantare Exile: le luci soffuse e l’intro al synth mi davano la possibilità di abituarmi al palco, di abbracciare con lo sguardo tutta la platea prima di iniziare a cantare. Ero ancora nervoso anche se la stanchezza era sparita grazie all’adrenalina che mi era entrata in circolo; in quel momento avrei potuto cantare entrambi i nostri album tutti di filato, compresa qualche cover, e per questo dovetti darmi una pesante calmata respirando profondamente. Dosai la respirazione pian piano, incanalai tutte le mie energie nella voce, nelle parole che stavo cantando accompagnato da Adam e dalla nostra band.

“Buonasera, Glasgow!” urlai al microfono dopo la fine della prima canzone, il pubblicò urlò a sua volta e io sorrisi soddisfatto per quell’inizio. Guardai Adam che quella sera non portava gli occhiali da sole, grazie al cielo: di solito lo faceva quando sapeva che avevo bisogno di ancorarmi al suo sguardo impassibile ma che sapevo essere tremendamente emozionato. Era così da quando avevamo iniziato a fare concerti. Mi voltai nuovamente verso il pubblico sapendo come avrebbero reagito alla canzone successiva: Miracle. Col tempo avevo capito che era una delle canzoni che preferivo fare durante un concerto perché al pubblico piaceva molto e vederli ballare e saltare lì sotto di me era il momento di ogni esibizione a cui ero più legato. Riuscivo a scindere la mia mente dalla mia voce pur rimanendo concentrato per non fare errori, mi veniva così naturale cantarla che mi concessi il lusso di rilassarmi e di osservare finalmente il pubblico. Quando anni prima frequentavo concerti, una delle poche convinzioni che avevo era quella che, dal palco, la band che stava suonando non vedesse minimamente il pubblico davanti a sé; quando sul palco mi ci sono trovato io, mi sono accorto di quanto quella convinzione fosse sbagliatissima. Potevo vedere singolarmente ogni persona – ogni ragazza – davanti a me, come si muovevano, se urlavano insieme a me, se guardavano Adam. Fu sulle battute finali di Silver Lining che la vidi, anzi, che la vidi meglio. Avevo provato ad incrociare il suo sguardo mentre ero dietro le quinte, magari si sarebbe girata sentendosi osservata e invece era impegnata a ridere di una battuta fatta dalle sue amiche. Poteva avere massimo una ventina d’anni; era totalmente circondata e avvolta dalla musica… e da una massa foltissima di capelli ricci e scuri che continuava a riavviare debolmente come se fosse un gesto che le portava noia visto che era troppo occupata a cantare e ballare. Da quello che potevo vedere indossava una semplice t-shirt bianca che avvolgeva un corpo esile, ben tornito e dalle spalle dritte e le braccia esili, dei braccialetti colorati le circondavano il polso sinistro e una semplice collanina con alla fine un anellino, poggiava perfettamente su una scollatura altrettanto perfetta.

 
                                                     
I will try to save you cover up the grey with silver lining…


Finita la canzone, sia lei che io prendemmo fiato pronti a proseguire. A luci abbassate, mentre regolavo l’asta del microfono, la guardai legarsi i capelli che le impedivano anche i movimenti più semplici, oltretutto iniziava a fare fin troppo caldo lì dentro. L’essersi alzata i capelli le lasciava il collo scoperto perciò potei seguire rapidamente con lo sguardo la morbida linea della sua mandibola, le labbra piene e carnose; mi serviva l’attacco per la prossima canzone quindi guardai Adam che aveva appena preso posto al piano dopo aver lasciato la chitarra. Alzò lo sguardo e accennò alla ragazza con un impercettibile movimento della testa per poi tornare ad occuparsi della tastiera che avrebbe suonato per il prossimo brano in scaletta, Blind. Io, dal canto mio, trascinai pigramente l’asta del microfono esattamente davanti a quella ragazza e le piantai gli occhi addosso durante tutta la canzone. Lei parve non accorgersi di niente, continuava a cantare trascinata dall’ondeggiare della folla in cui si trovava, a volte la beccavo con gli occhi chiusi come se quella canzone le stesse portando alla mente determinati ricordi. Gli occhi, poco coperti da un eyeliner scuro che iniziava lentamente a sbavare a causa del caldo, erano ipnotici, per quello che potevo vedere: non erano eccessivamente grandi, circondati sa sopracciglia sottili, allungati e quasi a mandorla. Non potevo vedere il colore, non ancora.

 
‘cause after the beauty we’ve destroyed I’m cascading through the void. I know in time our hearts will mend, I don’t care if I never see again.


Lasciai cantare al pubblico l’ultimo pezzo di quella strofa, lei aprì gli occhi per vedere perché non l’avessi cantata io e finalmente riuscì ad ancorarmi ai suoi occhi. Sorrisi soddisfatto e, senza distogliere lo sguardo, ripresi a cantare stando sul filo della fine del palco. Sì, i suoi occhi avevano decisamente una bellissima forma, notai, ed erano di un marrone molto intenso. In quel preciso momento sembravano descrivere lo stupore di un bambino la mattina di Natale, le guance morbide si erano imporporate e le davano quel tocco innocente che gli occhi non avevano. Finita la canzone, la guardai finché le luci non si spensero e approfittai di quel secondo di pausa per correre da Adam.

“Togli una rosa dal mazzo, tienila da parte” gli dissi all’orecchio quando si fu tolto l’auricolare per la base. Annuì senza chiedere spiegazioni, probabilmente aveva capito. Tornai a cantare, la scaletta procedeva senza intoppi. Continuavo a guardarla, durante Illuminated abbassai nuovamente il mio sguardo su quella ragazza, lei ricambiò sorridendo.


 
Suddenly my eyes are open, everything comes into focus. We are all illuminated, lights are shining on our faces, blinding. We are, we are blinding.


Sorrisi a mia volta quando lei si fissò totalmente su Adam per il resto della canzone e per la successiva; ormai aveva capito il mio giochetto. Alla fine del brano presi le restanti rose bianche poggiate sul piano nero e le lanciai nel pubblico facendo attenzione a non farne arrivare nessuna su di lei. Giungemmo all’encore, finalmente potevo riprendere un po’ di fiato. Io e Adam uscimmo dal palco, io mi tolsi un attimo la giacca per risistemare la camicia nei pantaloni mentre lui – con la solita eleganza che lo distingue dagli altri – svitò una bottiglietta d’acqua e bevve. Non staccò nemmeno per un istante gli occhi da me.

“Che c’è?” chiesi mentre chiudevo i pantaloni. Lui alzò le spalle ancora impegnato a bere, gli lanciai un occhiata eloquente alzando le sopracciglia.

“Allora?” chiesi nuovamente.

“Niente” disse lentamente avvitando il tappo “ho messo la rosa da parte come mi hai chiesto.”

“Bene.”

“Bene” mi fece il verso lui. Lo guardai negli occhi, ghiacciati e glaciali ma che sorridevano insieme alla piega divertita che assunsero le sue labbra. Sospirai mentre mi voltava le spalle per tornare sul palco visto che ormai eravamo fuori da un po’. Ripresi posizione al microfono iniziando Somebody To Die For, la prima canzone delle tre canzoni previste per l’encore di quella sera. Prima di iniziare a cantare cercai con lo sguardo la ragazza di prima; con mio sommo stupore constatai che non era più lì dov’era stata durante tutto il concerto e dove l’avevo lasciata cinque minuti prima. Ma dovevo iniziare a cantare perciò continuai a guardare fisso davanti a me, continuai a fissare le punte delle dita delle mani che vedevo davanti a me, era una cosa che facevo anche in passato per allentare la tensione e concentrarmi su qualcosa durante l’esibizione. Una parte del mio cervello cantava mentre l’altra si chiedeva dove fosse lei, se stesse bene o l’avessero portata via per un chissà quale malore improvviso. L’aria era irrespirabile sul palco, non osavo immaginare nella platea. Presi un profondo respiro ed inspirai, buttai fuori tutti i miei pensieri e mi dedicai interamente al pubblico, non avevo nessunissima intenzione di risultare svogliato o distratto durante l’esibizione.  Dopo un po’ non ci pensai più finché, a metà di Better Than Love, notai Adam accennare qualche sorriso ad un punto non definito del pubblico. Lo guardai incuriosito, lui percepì il mio sguardo indagatore su di lui e mi guardò, fece spallucce e con un cenno del capo mi indicò il pubblico. Mi avvicinai a lui trascinandomi dietro l’asta del microfono e continuando a cantare, sgranai gli occhi: lei era lì, si era spostata di qualche metro esattamente sotto Adam e lo guardava. Lui tornò a suonare, notai che la ragazza che l’aveva seguita in quel rapido scambio di posto, le diede una gomitata indicandomi. Lei mi guardò e scoppiò a ridere notando la mia espressione a metà tra il divertito e il più totale sbalordimento. Mi scappò una risata al microfono durante la canzone, rimediai fingendo di inciampare appena in qualche cavo. Battute finali. Mi chinai a raccogliere la rosa che Adam aveva messo da parte in precedenza e andai verso la ragazza.

 
                                       
Turn away, turn away, close your eyes you can runa way. It’s not enough.
 

Lasciai scorrere il tempo, lasciai che la musica ci avvolgesse, lasciai nuotare i suoi occhi nei miei. Lasciai che la sua mano, le sue esili dita si avvolgessero attorno allo stelo privo di spine della rosa bianca che le stavo porgendo in quel momento. Lasciai fluire via tutte le domande che quello sguardo vivace mi stava silenziosamente ponendo e che non dovevano, non potevano ricevere delle risposte banali. Non mi lasciai sfuggire però l’unica affermazione che venne a galla a fior di labbra.

Perché.

Questo fu ciò che lessi sul suo labiale e non era una domanda, non necessitava di nessuna risposta. Annuii sorridendo, quel sorriso che Adam definiva il sorriso da caramelle di Theo, come quando un bambino di dieci anni si gode il suo bottino di Halloween. Mi rialzai e ripresi a cantare, mancava solo Stay alla fine del concerto. Non la guardai più se non due secondi dopo l’attacco dell’ultima canzone per quella sera, aveva gli occhi chiusi, teneva delicatamente la rosa tra le mani e ne stava annusando l’odore.
Portammo a termine il concerto, scendemmo dal palco dopo aver salutato più volte il pubblico di quella sera. Adam e io ci fiondammo rapidamente nel backstage parlando un po’ del concerto appena concluso. Entrambi eravamo soddisfatti di come erano andate le cose, tranne qualcosa ancora da perfezionare per quanto riguardava alcune parti strumentali. Arrivati nel backstage, corsi sotto la doccia mentre Adam prendeva un bicchiere di vino che Emily gli stava porgendo, in attesa del suo turno per lavarsi. Ci misi pochissimo, dovevamo essere fuori di lì in meno di un’ora diretti all’after in un locale ad una ventina di chilometri da lì. Tornai nella sala comune indossando un jeans nero e una camicia bianca che dovevo ancora abbottonare; mi frizionai i capelli con l’asciugamani mentre Adam correva a lavarsi. Venti minuti dopo eravamo seduti in macchina, l’adrenalina iniziava a scemare e cominciavo ad accusare la stanchezza; poggiai la testa alla spalliera del sedile, chiusi gli occhi e provai a far riposare il cervello.

“Theo?” mi chiamò Adam dopo qualche minuto.

“Mh?” risposi senza aprire gli occhi, senza muovermi da quella posizione.

“Theo” ribatté il mio amico toccandomi leggermente la mano “Theo, guarda.”
Adam guardava fuori dal finestrino oscurato, da fuori non potevano vederci. Eravamo ancora fermi, mi indicò un punto su un marciapiede fuori dal posto dove avevamo appena suonato. C’era lei, la ragazza del concerto. Aveva indossato una felpa blu o nera – non riuscivo a distinguerla con quella luce fioca – sopra la maglia bianca che aveva dentro, era seduta con le ginocchia al petto, le braccia a circondarla; accanto a sé era poggiato uno zaino rosso sul quale era poggiata la rosa bianca che le avevo dato poco fa. Sospirai.

“Vuoi scendere?” mi chiese Adam all’improvviso, voltandosi a guardarmi. Odiavo il suo sguardo così enigmatico e indagatore. Mi sentivo privo di barriere ogni volta che incontravo i suoi occhi. Credo che un po’ già prevedesse la mia risposta.

“No” risposi secco, scuotendo la testa. Guardai ancora la ragazza, controllava l’ora sul cellulare, probabilmente stava aspettando qualcuno. Aveva il viso tirato, stanco ma sembrava tranquilla cosa che, ero certo, non sarebbe più stata se uno di noi due si fosse intromesso nella meravigliosa bolla sognante che avvolgeva chiunque dopo un concerto. C’ero passato anche io.

“Certe persone, certe storie, certe relazioni sono belle e meravigliose perché sono questo: il frutto di uno scambio di sguardi, il frutto di una notte. Sono incorporee ed inconsistenti ed è così che devono restare. Se io ora andassi lì, probabilmente le scombussolerei tutta la serata, le rovinerei il ricordo che ha di questo concerto, della meravigliosa illusione che si è creata tra me e lei. Ho scelto lei stasera, che importa il resto? È questo il ricordo che voglio lei porti con sé il più a lungo possibile. Infondo si tratta di questo, no? Far sentire qualcuno speciale, importante, come l’importanza che loro danno a noi ad ogni concerto.”

“Mhmh” mormorò Adam annuendo impercettibilmente mentre chiudeva gli occhi, stanco e assonnato, e poggiava la testa allo schienale. Mi lasciava parlare, delirare, divagare senza mai fermarmi, senza mai intromettersi nel flusso dei miei pensieri. Qualche minuto dopo partimmo, sentì il respiro di Adam rallentare, finalmente tranquillo. Mentre l’auto si allontanava dal locale mi voltai ancora una volta per vederla. Era sparita di nuovo. Tornai a guardare fuori dal mio finestrino, le luci e le strade di Glasgow scivolavano rapidamente attorno a noi. Prima di chiudere gli occhi sorrisi pigramente cercando di immaginare come sarebbe stato per lei tornare a casa quella notte.

 
  
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