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Autore: elenri    23/01/2014    2 recensioni
A Luisa, alla soglia dei cinquant'anni, viene offerta l'opportunità di dare una svolta alla propria carriera trasferendosi per un anno in Brasile. Da Bologna a San Paulo la strada è tanta per una donna sola. Deve, quindi, trovare in sè stessa e nella sua famiglia, la forza per accettare, ma eventualmente anche quella per rifiutare. Quale sarà la sua decisione? Di una cosa, però possiamo essere sicuri: non c'è una scelta giusta a priori, ancora oggi non è facile conciliare lavoro e matrimonio...
Genere: Avventura, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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L'occasione
Ciao, sono Elenri e questa è la mia nuova OS, che ho scritto per il contest "NEMICIAMICI" di Gaea.
Il nocciolo della gara stava nel creare, insieme ad un'altra autrice abbinata dalla sorte, due storie indipendenti che avessero qualcosa che le unisse...
La mia partner è stata Marge86, che ringrazio per la velocità con cui ha concluso la sua. Siamo state le prime a consegnare... spero ci porti bene.
Ora vi lascio alla lettura, sperando che la gradiate e che mi facciate sapere cosa ne pensate.
Un abbraccio forte,
Teresa.

P.S: il banner è mio. Adoro la grafica e se volete vedere le altre mie produzioni, vi basta visitare la mia pagina personale.





Era un giorno di  fine ottobre, quando erano arrivati. Mi erano stati recapitati in ufficio, a mano, da un fattorino. Avevo preso un bel respiro, rigirando tra le mani la busta di carta bianca chiusa, poi avevo letto le temute parole: alla c/a della D.ssa Luisa Parmigiani.

Ero certa che dentro ci fossero loro: i documenti relativi al mio trasferimento in Brasile.

Il cuore mi batteva tanto forte, che sembra volermi uscire dal petto. Con le dita tremanti, avevo stracciato la linguetta laterale, ed estratto un plico compatto di fogli, su cui spiccava la classica custodia rettangolare contenente un biglietto aereo. Di sola andata.

Mancavano quindici giorni alla partenza. Avevo letto la data stampata sopra per pura formalità, in quanto avevo scelto io di partire il 10 novembre, in una giornata del giugno scorso in cui mi ero sentita traboccante d’ottimismo. Di quel periodo ricordo anche il giorno, forse di un paio di settimane precedenti, in cui ero stata chiamata nell’ufficio del Direttore e mi era stato offerto il ruolo di responsabile tecnico nella nostra sede di San Paolo. Del Brasile, naturalmente.

Lì per lì non avevo saputo cosa rispondere, se non un “devo prima parlarne in famiglia…”. Ma una volta superato lo sbalordimento, mi ero lasciata cullare dal lusingante discorso su quanto fossi perfetta per quel ruolo, e su quanto questa proposta fosse importante per la mia carriera, tanto da valutare sul serio la proposta. Mentre me ne tornavo a casa, dopo un pomeriggio in cui avevo faticosamente finto di lavorare, perché troppo frastornata da ciò che mi era stato detto, mi ero preparata il discorso da fare a mio marito, ripercorrendo mentalmente gli elementi cardine del colloquio.

Punto primo: la succursale brasiliana dell’azienda farmaceutica in cui lavoravo aveva bisogno di una persona di larga esperienza per coordinare la produzione di un nuovo farmaco appena messo in commercio.

Questo era chiaro.

Punto secondo: dato che il personale locale era di nuova assunzione, la direzione aveva pensato di trasferire per l’occasione una figura di rilievo del nostro laboratorio, che avesse le competenze e l’esperienza sufficiente a coordinare persone e ricerca.

Anche su questo non c’era niente da controbattere.

Punto terzo: il Direttore era convinto che io, alla soglia dei cinquant’anni, quasi metà dei quali trascorsi all’interno del settore e con due figlie ormai grandi, fossi la candidata perfetta.

Una parte di me, la più orgogliosa, ne era convinta; l’altra, la più realista, era perplessa.

 

«Marco, ho una cosa veramente importante da dirti». Avevo esordito con mio marito mentre controllavo la cottura delle zucchine per la cena. Stavo aspettando con trepidazione il suo rientro cercando di trattenere, con estrema fatica, il sorriso che involontariamente continuava a stirarmi le labbra.

«Ok, ma prima mangiamo», aveva risposto lui, appoggiando nell’ingresso la borsa dell’ufficio.

Avevo annuito, quasi sollevata di poter posticipare di un po' la discussione.

Dopo aver sparecchiato la tavola, avevo iniziato il racconto,  mentre ancora scuotevo la tovaglia dalle briciole del pane, con la voce che mi tremava e la sensazione che ciò che ascoltavo uscire dalle labbra fosse  incredibile alle mie stesse orecchie. Marco, come suo solito, non aveva fatto una piega. Se era rimasto turbato dalle mie parole, non lo aveva dato sicuramente a vedere.

«Allora, cosa ne dici?» Gli avevo chiesto in preda all’ansia. «Sembra quasi incredibile, vero? Non che io abbia deciso di accettare, ma mi sembra un’occasione piuttosto unica. E poi sarebbe solo per un anno…» avevo continuato parlando a raffica.

«Il Brasile è dall’altra parte del mondo, Luisa, te ne rendi conto?» Aveva pronunciato. «Ma lo dico per te, sai? Perché io ce la posso fare, le ragazze sono autonome qui, a casa, problemi non ce ne sarebbero.»

«Certo che lo so. Ma anche rifiutare, solo per questo, mi sembra un  peccato.» Avevo obiettato. 

«Sono sicurissimo che sei adatta per quel posto. Per me puoi andare.» Aveva replicato con un sospiro.

Ecco, l’ostacolo più duro era stato superato. Un leggero capogiro seguito da una fastidiosa sensazione di sollievo e di tristezza insieme, avevano seguito la fine della discussione. Ma più ci avevo pensato, nei mesi a seguire, più la tristezza per il fatto che Marco non avesse fatto nulla per trattenermi, aveva prevalso. A mitigare l’amara sensazione, era arrivata la consapevolezza che in fondo lui non avrebbe, in ogni caso, potuto far nulla per fermarmi. Perché io, davanti ad un suo categorico rifiuto a lasciarmi partire, magari facendomi una scenata -che tra l’altro non rientrava nel suo stile- mi sarei intestardita ancora di più e avrei accettato l’offerta solo per ripicca. Il risultato, quindi, è che non c’era assolutamente alternativa, io avrei fatto di testa mia e mi sarei trasferita in ogni caso. E questo lui, probabilmente, lo sapeva.

Per quanto riguardava le due figlie, Carlotta di diciotto anni e Fulvia di quasi venti, che io da sempre chiamavo “le gemelle”, sia per la somiglianza, sia per i soli 15 mesi di differenza anagrafica, avevo scoperto che erano stupidamente entusiaste del mio viaggio. Ero sicurissima che non si rendessero conto che sarei stata via per molto tempo, erano convinte che fosse l’occasione  per conoscere il mondo e si erano procurate subito il passaporto, per poter trascorrere il Natale, da me, in Brasile. E così era stato, che avevo accettato il trasferimento.

Dopo quella prima chiacchierata in giugno, Marco, non aveva più sollevato il discorso,  e mi aveva aiutato a organizzare documenti e bagagli come se stessi programmando una gita. Ogni tanto accennava a cose pratiche, come il fatto che mi sarei dovuta aprire un conto corrente in una banca locale, o di accertarmi se avessi dovuto pagare di tasca mia le utenze dell’appartamento che mi sarebbe stato assegnato a San Paolo.

Ero arrivata, quindi, in un lampo al momento della partenza, e il panico mi divorava.

Nei mesi precedenti avevo alternato momenti di euforia, che condividevo con colleghi e amici, a momenti di intimo sconforto all’idea di lasciare la famiglia, la casa, l’Italia, per un paese così lontano, di cui non conoscevo neppure la lingua. Insieme alle “gemelle” avevo trascorso l’estate a studiarne la geografia, gli usi e i costumi, per scoprire con stupore loro, e sollievo mio, che mi stavo per trasferire nella città più multietnica del Brasile, in cui l’immigrazione italiana era la più forte.

Avevo controllato, i dati scritti sul biglietto. Sarei partita con un volo dell’Alitalia, dall’aeroporto di Fiumicino alle 15.30 di domenica 10 novembre per arrivare a San Paolo Guarulhos alle 2.00 del giorno dopo. Un viaggio di dodici ore e venti minuti. Tutto da sola.

Un paio di volte alla settimana mi collegavo via Skype con Hilario, collega di San Paolo, che era stato incaricato di farmi da tutor durante la mia trasferta. Essendo spagnolo era la persona con la quale avevo maggiori speranze di capirmi. Auguri.

«Hola chica, que ya ha preparado su equipaje?» Mi aveva detto ridendo allegramente poco prima della partenza.

“Equipaje”… stava parlando delle valigie, avevo dedotto.

«Sì, tre valigie, belle grosse.» Gli avevo risposto agitando le braccia davanti allo schermo, mimando le dimensioni esorbitanti dei miei bagagli. I programmi aziendali erano che rimanessi a San Paolo un anno, ma non mi sembrava delicato chiedere, ancor prima di partire, quando avrei potuto ottenere qualche settimana di ferie per tornare in Italia. E quindi, anche se durante le mie ricerche avevo scoperto che sarei andata a vivere in una specie di paradiso climatico, dove non esistevano estati torride né inverni gelidi,  mi ero preparata capi adatti ad ogni evenienza.

«Tres maletas? Caramba, Luissa. Te espero en el aeropuerto con una camioneta…»

«Procurati quello che ti pare, solo che mi vieni a prendere…» gli avevo risposto salutandolo.

Hilario era un altro argomento che io e Marco non trattavamo. Lui sapeva che mi collegavo spesso con il brioso trentacinquenne spagnolo, e sapeva pure che mi sentivo  rincuorata dal fatto che mi stesse aspettando. Ma non riuscivo a capire cosa stesse pensando realmente: avevo la sensazione che avrebbe preferito che il mio tutor fosse stato una donna. Non lo aveva, però, mai detto chiaramente ed io, a rigor del vero, non gliel’avevo chiesto.

La casa, di quei giorni, era tristemente spoglia dei miei oggetti più cari: la foto delle gemelle che si abbracciavano felici, la boccetta di profumo che era sempre stata nel bagno sulla mensola del lavandino, la raccolta di cd di musica classica… Al loro posto, stavano in un angolo del soggiorno tre enormi trolley scuri che mi ricordavano in continuazione lo scorrere inesorabile del tempo.

La fatidica domenica era arrivata insieme ad una grossa perturbazione che, da giorni, sovrastava l’intero paese. Dal telegiornale arrivavano notizie di spaventose inondazioni, di trombe d’aria e nubifragi: sembrava che il tempo riflettesse il mio umore di questi ultimi giorni. Dire che ero spaventata dall’imminente cambio di vita era poco.

Marco mi guardava e taceva, anche se nei suoi occhi riuscivo a leggere un malcelato disaccordo verso la mia scelta.

«C’è un tempo veramente schifoso» aveva bofonchiato la sera precedente la partenza ascoltando l’ennesima notizia sul maltempo. «Vuoi che ti accompagni fino a Roma?»

La sua offerta avrebbe potuto  sembrare premurosa, se la sua espressione non fosse stata discordante. Dai suoi modi, capivo, che dovevo cominciare ad arrangiarmi per conto mio, da subito.

«Non ce n’è bisogno, grazie. E’ sufficiente che mi accompagni in stazione. I treni sono mezzi sicuri, non c’è nulla da preoccuparsi.»

Per essere certa di arrivare in tempo all’aeroporto di Roma, avevo prenotato un posto sulla Freccia Argento  delle 8.43, che in sole due ore mi avrebbe portato alla Stazione Termini, dove avrei preso il treno navetta verso Fiumicino. Avevo deciso di partire da Bologna con buon anticipo e il tempaccio che imperversava da ormai troppo tempo, sembrava darmi ragione.

Dopo mesi di cielo sereno, il destino aveva deciso di giocarmi questo brutto scherzo. Quella domenica mattina, Il vento forte scuoteva i rami degli alberi facendoli vibrare come stuzzicadenti. Le foglie morte saettavano da una parte all’altra della strada impazzite, per poi radunarsi in mucchietti fradici sul ciglio dei marciapiedi.

Durante il tragitto verso la stazione Centrale aveva  ricominciato a piovere: grossi goccioloni freddi, che in principio cadevano radi, si erano trasformati, via via, in una cascata d’acqua così fitta ed insistente che i tergicristalli dell’auto faticavano a domarla. Marco imprecava sottovoce. Ce l’aveva con il tempo, con il fatto che le enormi valigie lo avevano costretto ad assurde manovre sotto la pioggia per scastrarle dall’abitacolo, e con me che ero la causa di tutto questo. Eravamo arrivati sul binario fradici ed esausti. Il treno era sopraggiunto, per fortuna, dopo pochi minuti. L’attesa era stata imbarazzante, le valigie tra di noi, formavano un muro invalicabile, sembravamo due estranei. Gli occhi mi pizzicavano di frustrazione, avrei avuto voglia di sciogliermi in un pianto liberatorio. Marco mi aveva aiutato a caricare le valigie sul treno: eravamo solo noi, le ragazze le avevo salutate a casa.

«Fai buon viaggio e chiama quando arrivi all’aeroporto.»

Aveva accompagnato l’augurio  con un leggero sfioro di labbra. Fugace, come un saluto tra amici. Gli avevo risposto di sì col groppo in gola.

Ero arrivata a Roma pressoché in orario. Durante il tragitto, però, il tempo era andato peggiorando. Nel cielo plumbeo, che ricordava più l’imbrunire che la metà mattina, ogni tanto vedevo saettare lampi che si scaricavano all’orizzonte. Alla stazione avevo saputo che il treno navetta per l’aeroporto era fermo a causa di un albero caduto sui binari. Dovevo mantenere la calma ed aspettare il mio turno in coda in attesa di un taxi. Mi ero già amaramente pentita di essermi portata tutti quei bagagli e sotto sotto anche di essere partita, ma cercavo di convergere il mio malumore solo sul primo dettaglio. Il viaggio sull’elegante auto pubblica bianca, mi era sembrato eccessivamente lungo. Quasi un’ora. Forse il doppio del solito, da quello che avevo capito dai commenti caustici del conducente, che imperterrito, continuava a spazzolare coi tergicristalli impazziti il vetro anteriore dell’auto, senza che il fiume d’acqua sembrasse diminuire. Il traffico era come paralizzato. Ferma ai semafori, mi passavo il tempo guardando le sagome indistinte dei mezzi che scorrevano davanti a me. Gli autobus, entrando nelle pozzanghere, producevano onde d’acqua alte un metro: per fortuna non c’erano pedoni in transito e le rare moto si erano spostate nel centro della strada. Un carro funebre transitava, lento, senza che riuscissi a capire se avesse o no, un corteo di auto al seguito. Sembrava una città vista da un miope senza occhiali. Il riflesso rosso degli stop delle auto davanti a noi, era l’unico colore tra tante sfumature di grigio.

Mi ero sentita quasi felice una volta arrivata all’aeroporto. Felice di essermi lasciata alle spalle tanta tristezza.

Sono all’aeroporto. Tutto bene. Ci sentiamo quando atterro. Avevo scritto  in un sms a Marco.

 

Il decollo era da sempre, per me, la parte peggiore del volo. Mentre l’aereo rullava sulla pista prendendo velocità, avrei avuto bisogno di poter condividere con qualcuno il panico che, come solito, cercava di sopraffarmi. Con lo stomaco in subbuglio e le dita ancora arpionate ai braccioli, invece, mi ero accorta che ancora una volta ero sopravvissuta all’esperienza. Chissà se potevo considerarlo un segnale di buon auspicio per la mia nuova vita… sarei sopravvissuta anche a quella?

Il volo verso il Brasile mi era sembrato interminabile. Mezza giornata di noia scandita dal passaggio, a cadenza regolare, dei carrellini del servizio ristoro. Pur avendo un posto vicino al finestrino, non ero riuscita a vedere nulla, a causa dei densi nuvoloni che ricoprivano il cielo sul Mediterraneo. Poi si era fatto buio. Per lo meno non c’erano state turbolenze.

Ad aspettarmi in aeroporto, come da programma, c’era Hilario. Quello che non mi sarei mai aspettata, invece, era che armato di santa pazienza, avrebbe fatto del mio benessere in terra carioca la sua missione. Grazie a lui avevo scoperto che San Paolo era una metropoli moderna piena di vita, colorata, allegra e… profumata. Appena si  riusciva a scappare dai quartieri centrali soffocati dal traffico, ecco che lo smog tipico dell’urbanizzazione selvaggia, veniva sostituito dall’odore della natura. Alberi di Ibiscus, magnolie, e persino boschetti di eucalipti, spandevano in giro seducenti fragranze tropicali o balsamiche.

Anche ambientarsi nel nuovo posto di lavoro era stato più facile del previsto. Di questo dovevo ringraziare, come solito, il mio angelo custode che, coi suoi occhi scuri luccicanti e un sorriso radioso, sapeva accattivarsi le simpatie di tutti. I ragazzi e le ragazze del gruppo erano intelligenti e laboriosi. In più erano belli. Stavo imparando che la vita in Brasile era accompagnata dal concetto di bellezza: non importava che si parlasse di clima, di natura o di persone. Con loro, in poco tempo, ero riuscita a creare un dialogo vero, che andava ben oltre le barriere linguistiche, e il lavoro rifletteva questo stato di benessere. Dalla sede centrale di Bologna mi erano giunti commenti entusiasti del nostro lavoro.

La vigilia di Natale erano arrivate Fulvia e Carlotta. Con l’aiuto dell’inseparabile Hilario avevo preparato loro un’accoglienza degna del paese di Babbo Natale. Il mio piccolo soggiorno riluceva di mille decorazioni. L’albero, addobbato, era forse più grande di quello che avevo in Italia. Bacche di cannella e di anice stellato, spandevano nell’ambiente il classico aroma familiare. Desideravo che le ragazze si sentissero a casa, che percepissero il mio stesso senso di benessere. L’unico neo era che non ero riuscita a convincere Marco a seguirle. “La prossima volta”, mi aveva risposto quando, via Skype, gli avevo chiesto di accompagnare le ragazze. Questo suo atteggiamento distaccato cominciava veramente ad irritarmi. Faticavo a tollerare di sentirmi vincolata in un rapporto ormai freddo. Avevo capito già da anni che la mancanza di dialogo stava inaridendo il nostro matrimonio,  ma la distanza rendeva più evidente la cosa. In più ci dovevo aggiungere, che ora, potevo considerarmi una donna nuova: più forte, più sicura: con alternative.

In un certo senso, però, dovevo ringraziare proprio Marco per non avermi tarpato le ali… ed ero dispiaciuta che non mi stesse seguendo nella crescita. Questa era la forza della possibilità che mi era stata offerta: scoprire che potevo cavarmela egregiamente da sola ed esserne soddisfatta.

Per ora dovevo rassegnarmi del fatto che lui non mi avesse raggiunta. Avrei lasciato che capisse dalle parole entusiaste delle gemelle ciò che rischiava di perdere. Avrei insistito, certamente, e poi di nuovo un’altra volta, perché non ero pronta a lasciarlo andare, definitivamente. Le lusinghe del nuovo mondo non mi avevano fatto dimenticare che il nostro era stato un matrimonio basato sull’amore. Ma mi sentivo sufficientemente matura da arrivare, un giorno, a metterlo con le spalle al muro: decidere se io ero ancora un punto di riferimento nella sua vita. Io la mia occasione l’avevo colta. Ora stava a lui decidere quale sarebbe stata la sua.

Fine

  
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