Anime & Manga > Naruto
Ricorda la storia  |      
Autore: cranium    24/01/2014    5 recensioni
Tre brevi storie, ambientate ai lati opposti di una metropolitana. Tre coppie, sei mondi intrecciati e sconnessi tra loro. Dodici occhi, che si cercano, nascondono, ritrovano, nel via vai agitato delle banchine della stazione di Konoha. Kiba e Hinata, Gaara e Temari, Naruto e Sasuke, migliaia di possibilità e solo pochi minuti gli uni di fronte agli altri.
Dal testo: “Le sue converse nere, rovinate sono precisamente sul bordo della banchina, sotto di lui solo un breve salto lo separa delle rotaie arrugginite, dal vuoto intenso della fine.
Ha due immensi occhi azzurri, i capelli biondi, ispidi e sporchi, pieni di gel raggrumato, secco e chissà quant’altro, dondola sul posto, rischiando di cadere, le punte bianche delle scarpe oltre il limite, se loro si sporgesse un poco cadrebbe di sotto, ma non è quello che vuole, non adesso almeno.
Sasuke, a poco più di dieci metri da lui, sul binario opposto della metro, lo fissa, con i suoi occhi malinconici e vuoti, neri come il petrolio, a Naruto sembrano il grande schermo di un televisore spento, che non trasmette nulla, nessuna emozione, nessun canale su cui sintonizzarsi.”
Genere: Angst, Malinconico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Kiba Inuzuka, Naruto Uzumaki, Sasuke Uchiha, Shikamaru Nara, Temari | Coppie: Kiba/Hinata, Naruto/Sasuke, Shikamaru/Temari
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Incest | Contesto: Contesto generale/vago
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 Allora per prima cosa devo ricordarmi di dire che questa cosa è dedicata a @dandelian, la mia piccola procuratrice di angst quotidiano, che mi ha dato l’idea per la parte finale della storia. Ciao piccola psicopatica!
Avrebbe dovuto partecipare al contest “Opposite sides” di Edvige91, ma per la mia pigrizia e perché nelle regole i personaggi non si dovevano conoscere prima dell’incontro in metro (e la maggior parte di quelli della mia storia sono in relazione), ma è comunque ambientata sui binari opposti di una metropolitana. Quindi le ripetizioni sulla loro posizione sono tutte volute e cercano di significare la distanza mentale/fisica tra i protagonisti.
Saltando i convenevoli, questa è una One shot, formata da tre piccole mini-oneshot da poco più di mille parole ognuna (quindi sarà una lettura breve tranquille!) che partono da una storia tranquilla (leggermente triste), proseguono per una che tratta di, come si suol dire, “tematiche delicate” e terminano con dell’angst peso, peso.
Vi ho fatto passare la voglia di leggere? Probabilmente, ma sapete come si dice “uomo avvisato, mezzo salvato”, quindi non proseguite se siete sensibili all’interpretazione personale delle canzoni dei Beatles (oddio!).
Scherzi a parte, questa fanfiction è posseduta dal fantasma di John Lennon e da quello brutto e cattivo dell’incest! UUUH! Se vi fa paura e non pensate che le uniche persone nel cuore algido di Sasuke siano quel gnoccone di suo fratello e quel trotterellino amoroso di Naruto Uzumaki e che l’unica donna degna di stare con Gaara sia quella mendekouse di Temari, state leggendo la fanfiction sbagliata:)
Spero sia una lettura piacevole! Ci vediamo in fondo (no il mio sproloquio non è finito qua)!


 
Half of what I say is meaningless,
but I say it just to reach you.
 

 
[Una Prudence bella e mora, che è una meraviglia, ma non può saperlo.]
Hinata, nella sua camicetta azzurra, perfettamente stirata, infilata nei jeans chiari e strettissimi, è una meraviglia, peccato che lei non lo sappia.
Tortura con le mani il manico della borsetta di cuoio chiaro, elegante, con lo sguardo fisso sulle ballerine nere, dondola su se stessa, le labbra rosa e le palpebre socchiuse. Si alza sulle punte e sembra pronta per spiccare il volo, dove crede di poter fuggire?
La metropolitana è poco affollata, le banchine sono avvolte da un chiacchiericcio lieve e dal rumore delle punte delle scarpe battute sulle mattonelle. “Due minuti di ritardo, inconcepibili.” sussurra qualcuno, ma lei sembra non sentirlo, troppo presa dal suo essere tutto e nulla, nella moltitudine di persone, che aspettano di tornare a casa.
Kiba la sta fissando da almeno tre minuti, sul binario opposto a quello della giovane, con Akamaru addormentato tra le braccia, aspetta che lei alzi gli occhi verso di lui, per sfoderare il suo sorriso migliore, quello da mascalzone, meraviglioso e sfacciato, e forse le farà anche l’occhiolino, per ribadire il concetto, tanto lo sanno tutti: i ragazzi con un cane fanno sempre colpo.
Il suo cucciolo struscia il muso bianco e il naso umido contro il suo avambraccio nudo, come per dargli ragione, sbadigliando e aprendo gli occhi neri. Si allunga un po’, il pelo bianchissimo, su cui si riflettevano le luci al neon dei cartelloni, spettinato e arruffato.
– Guarda là, quella moretta! Sembra un angelo. – l’animale sembra capire perfettamente tutto, si gira verso la giovane e guaisce felice, iniziando a scodinzolare.
Il prossimo treno passerà tra sette minuti, e quello sull’altro binario solo qualche secondo dopo, hanno ancora un po’ di tempo per attirare l’attenzione, la sua fermata non è piene e spera di non dare fastidio a nessuno.
Appoggia Akamaru per terra e quello inizia a girare su se stesso, si sfila la chitarra dalla schiena e la toglie dalla custodia nera, piena di scritte. Farà un figurone, se lo sente, e le mani quasi gli tremano dalla voglia di vedere gli occhi della ragazza misteriosa puntati su di lui, il suo sorriso intenerirlo e le sue labbra sussurrargli un “bravo”, coperto dall’arrivo della vettura.
Si siede con le gambe incrociate sul pavimento sporco, il piccolo cane di fronte e lui, e inizia a strimpellare qualche accordo con lo strumento.
Non pensa a quello che sta suonando, muove il plettro seguendo l’istinto, sembrava annusare le corde, pizzicarle con il cuore, con gli occhi e appena sente tra gli accordi qualcosa di conosciuto, di già raccolto come una farfalla in volo e si affretta a cogliere il momento.
Intorno a lui tutto si ammutolisce, non capisce se si siano zittiti tutti o se è la musica, che gli impedisce di sentire qualsiasi altra cosa.
Le parole escono lente, modulate e un po’ graffianti dalle sue labbra, come se “Dear Prudence” dei Beatles sia qualcosa da cantare di gola e pancia, più che con il cuore. Alza la voce per farsi sentire anche da lei, ma non ha il coraggio di sollevare gli occhi, per vedere se anche i suoi lo cercano.

 
Dear Prudence, won't you come out to play?
Dear Prudence, greet the brand new day,
the sun is up, the sky is blue,
it's beautiful and so are you.
Dear Prudence, won't you come out to play?
Dear Prudence, open up your eyes.
Dear Prudence, see the sunny skies.
The wind is low, the birds will sing,
that you are part of everything.
Dear Prudence, won't you open up your eyes?

 
Quasi non si accorge di Akamaru, che ha iniziato ad abbaiare a ritmo, delle voci che si sono unite alla sua, non per sovrastarla, ma per accompagnarla, come tante piccole onde, che lo trasportano verso la giusta tonalità.
Nella sua testa c’è solo la ragazza dal lato opposto della metropolitana, con i capelli così neri da sembrare blu, bellissima nella sua semplicità, nella sua carnagione candida, quasi malata, di chi il sole lo vede pochissimo, che a sfiorarla deve sembrare seta purissima.
Pensa che la inviterebbe a uscire volentieri, se lei non fosse diretta dalla parte opposta alla sua, ai quartieri ricchi di Konoha, mentre lui a dare lezioni di chitarra in giro per la città, per poi tornarsene in periferia da sua madre e sua sorella. Le chiederebbe di uscire se solo avesse il coraggio di alzare gli occhi dal suo cane.
Sopra di lui, il cielo, che si intravede dalla cupola di vetro, è terso, il sole, alto nel cielo, illumina e si riflette sulle rotaie nuove, Akamaru si rincorre la coda, tentando di acchiapparla. Tutto sembra essere perfetto.
Tranne Hinata, lei è imperfetta, ma Kiba ancora non lo sa e continua a suonare, a cantarle la sua serenata solitaria.

 
Look around round,
look around round, round,
look around.
Dear Prudence, let me see your smile,
dear Prudence, like a little child.
The clouds will be a daisy chain,
so let me see your smile again.
Dear Prudence, won't you let me see you smile?
Dear Prudence, won't you come out to play?
Dear Prudence, greet the brand new day,
the sun is up, the sky is blue,
it's beautiful and so are you.
Dear Prudence, won't you come out to play?

 
Vicino a lui qualcuno applaude, qualcun altro ride, Kiba finalmente alza lo sguardo a cercare un segno di approvazione nel suo, della ragazza che sta sul binario opposto, che tra poco vedrà scomparire su un treno scuro.
Finirà dalla parte opposta della città, lontano da lui e probabilmente non la vedrà più, non se ora non gli sorride, se non gli da un segno, che lo porterà a crederci un poco.
Peccato che, da sotto le sue ciglia fitte e lunghe, riesca solo a vedere una bambina spaesata, in cerca della sua voce, come se sapesse di essere la destinataria della canzone. Come se avesse capito tutto, mentre lui non ha ancora capito nulla.
 
Kiba, nella sua t-shirt bianca, attillata, che gli fascia il torace definito, la linea secca della vita quasi stretta come quella di una donna, nei jeans scuri fino al ginocchio e con la chitarra tra le mani, è una meraviglia, peccato che Hinata non possa saperlo.
Ha una voce dolcissima, che ha scaldato persino la carne di suo cugino Neji di fianco a lei.
– Quel ragazzo è bravo – dice con un soffio – ma non sopporto gli esibizionisti in metropolitana.
Ne era certa, ci sono poche cose che il suo consanguineo sopporta e tra queste, sicuramente, non c’è la cugina non vedente, da scarrozzare dagli insegnanti privati perché lo zio è via per affari e la sua macchina nuova è già finita dal meccanico.
Hinata lo capisce e vorrebbe ringraziarlo per la sua cortesia, ma sa benissimo che rischierebbe di rompere quel fragile equilibrio, che si è instaurato tra loro: lui la aiuta, lei non deve farlo sentire un grande uomo per questo.
Eppure quella voce, sembra aver graffiato qualcosa, persino la scorza dura e insensibile del cugino, sembra averla resa più appiccicosa, più malleabile.
Invidia la ragazza della canzone, che può vedere il sole, uscire di casa per incontrare una persona speciale, essere accarezzata da parole così belle, essere tenuta tra i denti, sulla punta della lingua e poi sulle labbra, come un fiore delicato da cui succhiare via il nettare.
Ma quella è Prudence, lei è Hinata e non può vedere quanto Kiba la cerchi, quanto sia bello anche con il viso stupito, perplesso, di chi ha capito che negli occhi vuoti della ragazza dall’altra parte della metro non potrà mai rispecchiarsi.
Sente la terra vibrare leggermente, lo stridio delle rotaie e la mano forte di Neji posarsi sul suo braccio.
– Andiamo, è arrivato.  – le dice, accompagnandola all’interno del vagone.
Kiba, sulla vettura fermata sul suo binario, è seduto con Akamaru di nuovo accoccolato tra le sue braccia. La ragazza bionda, nel sedile vicino al suo, gli sorride un po’ civettuola complimentandosi per come suona bene la chitarra, il seno prosperoso è racchiuso sotto il top viola melanzana, accavalla le gambe nude, coperte solo da una minigonna dello stesso colore.
Lui, finalmente, può sfoderare la sua arma migliore, tira le labbra fini in un ghigno ferino, mostrando un po’ i denti bianchissimi, i canini affilati da vampiro, che piacciono tanto alle ragazzine.
Domani avrà già scordato la ragazza mora dall’altra parte della metro. O forse no.
 
* *
 
[Struzzi troppo impertinenti per nascondere la testa sotto la sabbia.]
Temari, da qualche giorno, ha un qualcosa di diverso, che a Gaara non piace per nulla.
I capelli biondissimi sembrano più lucidi, luminosi, legati nei quattro codini ordinati sulla testa, la camicia è stirata perfettamente, non come al solito, i bottoni sono chiusi solo fino sopra allo sterno e non lasciano nulla all’immaginazione, per quando riguarda la generosità del seno.
Strofina le ballerine contro le mattonelle chiare, controlla che siano pulite e che le calze, che non le coprono neppure tutto il polpaccio, non cadano.
A casa prepara la cena, sorride a tutti, più o meno, non si lamenta dei calzini e dei voti di Kankuro, dei servizi sociali che chiamano per sapere la loro condizione, da quando è diventata maggiorenne e  ha portato via i fratelli via dal padre violento, dei piatti da lavare.
Ha il mascara sulle ciglia, un filo di matita sotto gli occhi e un lucidalabbra alla pesca nell’astuccio.
C’è qualcosa di strano in quella femminilità mai mostrata, in quella pelle dura da donna, repressa in un angolino, sbucata fuori all’improvviso, e in quelle gambe lunghissime, lattee e sode, che farebbero impazzire un santo, sotto la gonna della divisa, troppo corta. Troppo corta.
Gaara non si rende conto di essere dall’altra parte della metropolitana rispetto alla sorella, non si chiede neppure perché lei sia davanti a lui e non vicino, non al suo fianco come ogni giorno per tornare a casa da scuola, per fermarsi al Mc Donald, comprare panini per loro tre e lamentarsi dei bambini, che sghignazzano nel labirinto delle palline.
È troppo preso dalla visione di quella Venere, di quella puttana, che continua ad ignorarlo, come se non sapesse quello che frulla in testa a suo fratello a vederla in certe condizioni, come se fosse la cosa più normale al mondo essere dall’altra parte della metro, alla fermata che la porterà lontano da lui. Lontano da lui.
Temari scosta un poco la frangetta con le dita, gli occhi di Gaara tentano di catturare i suoi, come un prisma contrario, che ingoia i colori riflettendo solo luce bianca, ma lei sfugge, si nasconde come un cerbiatto irrequieto, se li potesse acchiappare, oh se li potesse acchiappare almeno una volta, ci leggerebbe dentro paura? Pena, forse? Rammarico per non averlo salvato dal pozzo profondo della solitudine?
Eppure, se lei avesse il coraggio di incrociare i suoi, vi troverebbe qualcosa di famigliare, un odio così vicino all’amore da spiazzarla.
− Neesan non viene a casa con noi? – Kankuro si avvicina veloce, non è riuscito neppure a sentirlo.
Si è infilato nel bagno della metro per ridisegnarsi il viso con il trucco viola, che a scuola non è permesso e per togliersi la divisa. Gaara non la mette mai, nessuno dice niente perché è lui, perché come si veste è il problema minore.
− A quanto pare. – gli risponde così gelido che quasi sente il maggiore trattenere un fremito.
Adesso attraverserà la doppia fila di rotaie, sì, lo farà, salterà sull’altra banchina e le afferrerà il  braccio, la porterà dalla loro parte, quella giusta e non la lascerà neppure quando sarà seduta sulla vettura giusta, nel posto vicino al suo.
Non la lascerà più. Neppure se lei glielo chiederà. Soprattutto se lei glielo chiederà.
 
       You better run for your life if you can, little girl.
Hide your head in the sand little girl.
 
C’è sempre stato un qualcosa di malsano nella loro relazione. Molto malsano. Da quando, qualche anno prima, aveva trovato quella foto con sua madre, nascosta nel cassetto dell’intimo di Temari, mentre cercava un po’ di soldi. Doveva essere giovanissima allora, forse era incinta di sua sorella, perché sotto una buffa salopette di jeans si mostrava un accenno di pancia, che accarezzava con la mano.
Quello da cui rimase più colpito, però, fu il viso e quello sguardo così simile a quello della sua neesan, morbido e duro, il sorriso impacciato, di chi non vorrebbe essere fotografata, perché non si sente abbastanza bella in quel momento.
Eppure era stupenda, con una bretella slacciata e una parte della tuta a penzoloni e gli occhi più luminosi, che lui abbia mai visto.
Probabilmente dietro la macchina fotografica c’era suo padre e tutte le sue facoltà mentali, morte con la moglie durante la sua nascita .
Ma davanti, presa quasi alla sprovvista, in un momento di dolcezza, c’era sua madre, la donna che aveva dato la vita per lui, e un grumo abbozzato di Temari, carne, carne e basta.
Era rimasto incantato, come di fronte ad un santino che gli strizzava l’occhio, l’aveva tenuta tra le dita, accarezzata con i polpastrelli morbidi da ragazzino, finché sua sorella non era entrata e lo aveva sorpreso come un ladro.
Lui si era ricomposto, riguadagnando lo sguardo gelido, infilandosi la foto nella tasca posteriore dei jeans chiari e strettissimi, perché potesse guardarlo bene, odiarlo per averle rubato quel piccolo tesoro, come lui odiava lei per non avergli mai dato l’amore, che sua madre gli avrebbe concesso.
Quell’amore, che lui si sarebbe preso a qualsiasi costo.
Gli era dovuto.
 
“Well I know that I’m a wicked guy,
and I was born with a jealous mind,
and I can’t spend my whole life
trying just to make you toe the line.
 
− Nostra madre non sarebbe affatto felice di vederla così. – dice, ma Kankuro stenta a rispondergli, come se avesse bisogno di tempo per valutare cosa replicare.
Gli fa paura vedere il fratello minore parlare di Karura, come se l’avesse conosciuta, come se potesse parlarle e forse nella testa di Gaara funziona proprio così.
Guarda Temari, di fronte a lui, e pensa che vorrebbe proteggerla, da cosa non riesce ancora a capirlo, da quello che la spaventa, la intenerisce, dal sangue uguale al suo, ma marcio, marchiato dentro. Vorrebbe nasconderla, chiudersela dentro il giubbotto, solo per tenerla vicino, perché, nonostante tutto, ha solo lei e nessun altro.
− Così come? – chiede e capisce che, probabilmente, dovrebbe temere la risposta.
Il ragazzo si gira verso di lui, lo squadra, lo inchioda e il maggiore si sente incenerire dentro.
− Come una puttana. – risponde con una tranquillità disarmante.
Kankuro vorrebbe tirargli un pugno, due, tre, mille, fino a vederlo piangere come una bambina, eppure, sebbene si senta più forte fisicamente, non può competere con lui. Ricorda ancora quella volta in cui ha provato a sorreggere suo padre, che era tornato a casa ubriaco, per aiutarlo ad arrivare il camera. Gaara era spuntato alle sue spalle, silenziosissimo, nel buio del loro vecchio salotto e gli aveva sussurrato all’orecchio – Aiutalo e ti ammazzo. – si era sentito così privo di qualsiasi nervo, articolazione, che aveva lasciato cadere l’uomo come un peso morto e il rumore era riuscito a svegliare mezzo condominio.
Non riesce ancora a spiegarsi quale forza superiore abbia agito in quel momento, sa solo che a ripensarci rabbrividisce, come ogni volta in cui si sente minacciato dai sessanta chili del fratello, solo per una minima occhiata, un gesto un po’ più brusco.
Kankuro vorrebbe difendere la sorella, ma l’istinto di sopravvivenza lo obbliga a mantenersi sul vago, a proteggere sé stesso.
− A me sembra sempre uguale, forse è perché la vedi da un’altra prospettiva. –
E vedersela davanti, cambia totalmente la prospettiva di Gaara.
Perché il diavolo sta nei dettagli e nel telefonino che Temari continua a controllare e nel ragazzo, che si avvicina a lei, dall’altra parte della metro.
Le tocca il braccio con la mano, quasi a non volersi palesare, ma lei si gira bruscamente e lo riprende per qualcosa, persino da lontano riesce ad intravedere le sue guance un po’ arrossate e la bocca muoversi freneticamente insieme alle mani.
L’altro boccheggia, si gratta la testa e sistema meglio il codino, stringendolo con un altro giro d’elastico, e si infila le mani in tasca, cercando di ignorare la ragazza, che lo sta ancora sgridando per qualcosa.
Ah, quella puttana.
Ah, quel morto che cammina.
“You better run for your life if you can, little girl,
hide your head in the sand little girl.
Catch you with another man,
that’s the end, ah little girl.
 
Let this be a sermon,
I mean everything I’ve said.
Baby, I’m determined,
and I’d rather see you dead.
 
Quel viso gli è famigliare, quella camminata lenta e strascicata e quell’espressione costantemente annoiata. Viene a scuola con loro, ha la stessa divisa, visti dalla sua posizione, così vicini, ma allo stesso tempo distanti, sua sorella e quel tipo sembrano usciti da un patetico manga shōjo di quarta categoria.
Gli fanno ribollire il sangue nelle vene, per la rabbia e per lo schifo.
Temari esce con quello, invece di andare a casa con loro. Con lui.
Sorride, quasi, a quel ragazzo a lui sconosciuto, mentre i loro gomiti si sfiorano e si ritraggono, spaventati dal contatto, mentre Gaara non ci trova nulla di cui essere felice.
Lei glielo deve, l’amore che sua madre non è mai riuscita a dargli, glielo deve perché lei non ha mai provato ad amare quella bestia che gliel’ha portata via.
Non lascerà, che un moro dall’aria scema, la allontani da lui.
Prende il cellulare, compone quel numero, conosciuto a memoria, invia quel messaggio, che gli prudeva sulle dita da un po’, perché è inutile ripeterlo tra sé e sé, è inutile persino dirlo a quell’invertebrato di Kankuro. “Puttana, questa me la paghi” e la vede prendere in mano il cellulare, distogliere per un attimo gli occhi dal ragazzo, che è con lei, guardare lo schermo e tremare, tremare così forte da fargli sentire un brivido anche a lui. Un brivido di ogni onnipotenza, come sempre.
Temari lo fissa adesso, finalmente cerca i suoi occhi, vibranti, acquamarina, così lontani, eppure se li sente addosso come il peccato, che non ha commesso.
Forse, li sente ancora adesso, che è riuscita a salire sulla metro il più velocemente possibile, inciampando e imprecando da vero maschiaccio, mentre Shikamaru, vicino a lei, le sussurra “mendekouse”, per ogni persona a cui lancia un’occhiataccia.
E se lo sentirà addosso tutto il giorno, persino quando il ragazzo, un po’ impacciato, la bacerà, con quelle labbra fini e screpolate, dolcissime.
 
 “You better run for your life if you can, little girl,
hide your head in the sand little girl.
Catch you with another man,
that’s the end, ah little girl.
 
I’d rather see you dead, little girl,
than to be with another man.
You better keep your head, little girl,
or I won’t know where I am.
 
* *
 
[Merli autolesionisti, che volano così in alto da incenerirsi nei motori degli aerei]
Naruto alza il viso per portarlo dall’altra parte della metro.
Tende le labbra, sorride al vuoto perché è più facile che farlo al suo riflesso allo specchio. Quando vede l’ammasso di piaghe che è diventato, vorrebbe vomitare, ma si ricorda di avere così poco nella pancia, da non potersi permettere neppure quello.
Eppure ha dovuto continuare a tirare avanti per lui, perché non lo vedesse abbattuto, imbruttito dal loro stesso, comune male.
Le sue converse nere, rovinate sono precisamente sul bordo della banchina, sotto di lui solo un breve salto lo separa delle rotaie arrugginite, dal vuoto intenso della fine.
Ha due immensi occhi azzurri, i capelli biondi, ispidi e sporchi, pieni di gel raggrumato, secco e chissà quant’altro, dondola sul posto, rischiando di cadere, le punte bianche delle scarpe oltre il limite, se loro si sporgesse un poco cadrebbe di sotto, ma non è quello che vuole, non adesso almeno.
Sasuke, a poco più di dieci metri da lui, sul binario opposto della metro, lo fissa, con i suoi occhi malinconici e vuoti, neri come il petrolio, a Naruto sembrano il grande schermo di un televisore spento, che non trasmette nulla, nessuna emozione, nessun canale su cui sintonizzarsi.
Quando cerca di andare un po’ più a fondo in quello sguardo perso, nella sua testa avviene un cortocircuito, che manda in fiamme qualsiasi cosa: la lingua, il palato, il basso ventre.
Se i numeri non mentono, le situazioni non ingannano è innamorato, irrimediabilmente, in ogni caso non trova quasi nulla lì, per quanto si sforzi di scavare con le unghie e con i denti, c’è solo un paio di occhi, gemelli a quelli di Sasuke, eppure diversissimi, che sembrano orecchini di diamante, abbinati alle perle bianchissime, di un sorriso a trentadue denti.
“Guardami, Sasuke.”
“Itachi.”
“Ti amo, Sasuke.”
”Niisan.”
 
Blackbird singing in the dead of night,
take these broken wings and learn to fly,
all your life,
you were only waiting for this moment to arise.
 
La maglia grigia che indossa è troppo grande, troppo vecchia e sgualcita, per un viso così elegante, i jeans scoloriti e deformi, non provano neppure a fasciare le gambe ossute, magrissime, che sembrano non poterlo neppure più reggere. Anche Sasuke è in bilico sul suo personale strapiombo, molto più alto e franoso di quello del compagno.
Naruto si era ripromesso di salvarlo, peccato che sia riuscito a dannarsi persino lui.
Si era ripromesso di riportarlo a casa, non aveva messo in conto di potersi perdere.
Non si può liberare qualcuno da se stesso.
Le luci al neon illuminano le loro schiene, tracciano, sulla tuta di Naruto, disegni strati e complicati, che non si sforza di interpretare, c’è in gioco il compromesso più arduo della sua vita, non può permettersi di pensare ad altro.
Se ripensa ai mesi precedenti, può solo bearsi della sensazione di libertà, che gli provoca l’aria consumata, proveniente delle gallerie e dalle scale mobili, così ripide da provocargli un giramento di testa.
Il monolocale, in cui è rimasto chiuso per sessantaseigiornisetteoreventiquattrominuti, era così piccolo da costringerlo ad aprire continuamente le finestre per non sentirsi soffocare dall’aria viziata e dalla presenza di Sasuke, così poco ingombrante fisicamente, così tanto ingombrante emotivamente.
 
Blackbird singing in the dead of night,
take these sunken eyes and learn to see,
All your life
You were only waiting for this moment to be free.
Blackbird fly, Blackbird fly
Into the light of the dark black night.
 
Dalla morte di Itachi non è più stato lo stesso.
Da quando lo hanno ritrovato al volante della sua BMW, sfracellata contro l’utilitaria di una vecchia, con il fratello morto sul sedile del passeggere e un occhio oramai senza utilità, non è riuscito ad andare avanti.
Continua a ripetere che vendicherà la vita del suo niisan a qualsiasi costo, e nessuno ha avuto il coraggio di provare a fargli entrare nella testa che è sua la colpa dell’incidente; non vi sono riusciti neppure giudici e avvocati, che alla fine si sono accordati per i domiciliari a causa della sua instabilità emotiva e psichica.
Ma se Naruto è convinto di una cosa è proprio che Sasuke di instabile non abbia proprio nulla. È solo il suo modo per attutire l’urto, lo ingloba finché ne ha la possibilità, per poi risputarlo fuori con violenza e il biondo si è solo trovato sulla sua traiettoria.
È stato travolto, risucchiato, tramortito da mille emozioni, dalla bellezza di quel opale candido, della perfezione di quel corpo oramai sfiorito, che ha lasciato deperire anche lui, piegato come un giunco sotto la tempesta. Avrebbe dovuto allontanarlo, non proporre casa sua come luogo dove scontare la sua pena, non innamorarsi, non cercare di scaldarlo ogni notte con il suo amore bollente.
Spogliarlo delle sue paure, dei suoi vestiti diventati troppo grandi, delle sue assurde vendette contro se stesso, che lo portavano a farsi male, a graffiarsi fino a sanguinare, a graffiare la schiena di Naruto per sentirlo di più, più a fondo.
Condividere un dolore non lo rende più facile da sopportare, ma poco importa visto che lo fanno  solo per sentirsi più vicini, per mangiarsi le labbra a vicenda, l’unica cosa che il loro stomaco riesca a sopportare, dilaniarsi la pelle con i denti, fino a sentire il sangue impastarsi con la saliva.
Ma delle sue attenzioni, neppure una è riuscita ad arrivargli al cuore, a scalfire quella terribile corazza nera come il catrame e quando Sasuke gli ha chiesto di ucciderlo, Naruto si è sentito solo di dirgli – Insieme, come sempre. –
La vita per loro era diventato solo un susseguirsi di nulla, di vuoto e polvere, che si accumulava sul pavimento, sulle mensole, su di loro immobili e nudi sul divano, come soprammobili malinconici.
Respiravano l’uno nella bocca dell’altro, restavano in vita o meglio Naruto costringeva Sasuke a farlo, fino a che il fantasma di Itachi non lo ha inghiottito completamente, stravolgendone persino i lineamenti.
Questa è la loro liberazione, finalmente. Aspettando treni opposti, su binari opposti, con i loro occhi diversi, che si cercano, uniscono, sporcano a vicenda, tra un minuto esatto tutto finirà e forse dopo riusciranno ad amarsi davvero.
Non di quell’amore malato di Naruto, che è arrivato a doversi ammazzare nella metro per costringere Sasuke a vederlo veramente.
Non dell’amore finto di Sasuke, che finge sia suo fratello a dirgli “ti amo”, mentre è Naruto a muoversi sopra di lui, a baciarlo, leccargli via le lacrime.
Se c’è qualcosa dopo la morte, dovranno affrontarla assieme.
 
Blackbird singing in the dead of night,
take these broken wings and learn to fly,
all your life,
you were only waiting for this moment to arise,
you were only waiting for this moment to arise.
 
 
Una brezza leggera scompiglia i capelli a Naruto, lungo la galleria sente già lo stridere delle rotaie, mentre davanti a Sasuke il treno si è appena fermato, ed è quasi pronto per ripartire.
Il moro dall’altra parte gli sorride, o almeno è quello che sembra, stira le labbra fini in un qualcosa di indefinibile, ma da all’altro un coraggio indescrivibile.
Come può il suicidio essere una codardia, se richiede tanta forza?
E non ha neppure il tempo di chiederselo, Naruto, che è già finito di sotto, risucchiato nel vuoto e sputato sopra un mostro di acciaio e velocità, che trasporta il suo corpo per venti metri.
Nel mentre è già morto.
 
Sasuke guarda il cadavere di fronte a lui con malcelata indifferenza, è ricoperto da un telo bianco, imbrattato di sangue, nasconde il viso del suo compagno, ma allo stesso tempo lo fascia, aderendo al liquido rosso sul viso.
– Sì, lo conosco.
– Abitavamo assieme.
– Naruto Uzumaki.
– Ventuno anni.
– Non ha famiglia, ha solo me.
La polizia continua a fargli domande, ma lui è da un’altra parte con la testa.
Hanno trascinato fuori il suo corpo dalle rotaie, come fosse quello di una bambola di pezza, le ossa rotte, che lo facevano piegare, sulle braccia dell’agente, in modo innaturale e raccapricciante.
Sarebbe potuto uscire tranquillamente, tornare a casa di lui per nascondersi sotto le coperte e provare a piangere, tanto nessuno sarebbe riuscito a ricondurre quel corpo orribilmente deformato: il viso madido di sangue, sformato per l’impatto con la vettura è irriconoscibile, il cranio leggermente rientrato verso l’interno, il collo, che non potrebbe più reggere alcuna testa, ne impedirebbe il riconoscimento anche all’amico più caro -ma Naruto ha amici?-. Non a lui, che ha assistito al colpo, alla frenata e al volo del suo amante lungo le rotaie, non a lui, che ha toccato quel corpo così tanto da riconoscerlo persino adesso.
I suoi occhi azzurri, sono coperti dalle palpebre calate, ma ha potuto vederli aperti un’ultima volta, mentre le labbra sorridevano sotto il lago di sangue.
“Tu almeno sarai in pace.” pensa, per uno come lui una morte veloce è un bene non meritato.
Aspetterà, chiuso in qualche bagno lurido di una stazione, di vedersi passare la vita davanti come un film, tuffarsi negli occhi di Itachi, per poi riemergere in quelli limpidi di Naruto.
Prenderà qualcosa, che gli farà vomitare l’intestino vuoto, sperando stare male, soffrire, per poi svegliarsi accanto ai loro visi sorridenti, sapendo di non meritare neppure un minuto in loro presenza.
Ma, che sia un egoista, non è di certo una novità.
 
“You were only waiting for this moment to arise.
 
 
 
 
 
 
 
 
Note finalmente finali: le canzoni a cui mi sono ispirata per la one shot sono tutte e tre dei Beatles e sono in ordine: “Dear Prudence”, “Run for your life” e “Blackbird”, alcune sono presenti a pezzi, altre in modo completo, il titolo è preso invece da “Julia”.
I personaggi sono di Kishimoto, io mi diverto solo a crearci sopra qualcosa di stupido.
Se siete arrivati fino a qua meritate tanto bene e tanti pasticcini!
 
 
  
Leggi le 5 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Naruto / Vai alla pagina dell'autore: cranium