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Autore: Water_wolf    25/01/2014    4 recensioni
Nel "Figlio di Nettuno", scopriamo che Bianca si è reincarnata, perché Nico non ne trova traccia negli Inferi. E se, dopo anni – anche dopo Gea –, lei gli facesse visita?
♣♣♣
«Volevo solo assicurarmi che stessi bene» buttò fuori in un sussurro. Il fratello allargò le braccia. «Be’, sto bene. Ora puoi andartene.»
♣♣♣
«Io… so che non sono stata molto presente, che ci sono sorelle migliori di me. Ma, ti prego, perdonami. Mi dispiace.» A Nico venne da ridere. «
Ti dispiace?»
♣♣♣
«Non mi importa se ti chiami Zoe Katherine Campbell o Genoveffa Brunilde Vattelapesca, smettila di farmi sanguinare le orecchie e smamma, se non vuoi che un grosso cane a tre teste ceni con te.»
Genere: Angst, Fluff, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: Bianca di Angelo, Nico di Angelo, Sorpresa
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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A Kind of Brothers

Il campanello suonò, invadendo la casa con il suo tintinnare acuto.
Nico grugnì, tirandosi su con fatica, liberando la testa dal cumulo di cuscini in cui era sprofondata. Si passò una mano sul viso, stropicciandosi gli occhi, e si stiracchiò come un gatto.
Il campanello suonò ancora, insistente.
Nico si alzò, mise giù i piedi dal divano e avvertì qualcosa di unto sporcargli tra le dita. Il cartone vuoto della pizza della sera prima era esattamente dove l’aveva abbandonato, prima che il sonno lo vincesse. Lo calciò via, evitò la lattina di birra e rispose con un “arrivo!” scocciato al nuovo richiamo del campanello. Giurò che, se si fosse trattato di un venditore ambulante o di una qualche petizione a fini religiosi, li avrebbe tutti spediti al Tartaro.
Aprì la porta, sbloccando la serratura, e cacciò fuori la testa. Si domandò che ore fossero, perché il Sole era già alto e i suoi raggi riscaldavano l’asfalto; forse mezzogiorno, ipotizzò. Si protesse gli occhi, mettendo una mano a visiera, e scrutò chi si trovava davanti.
Era una donna di venticinque, massimo ventotto anni, allenata ma con qualche rotondità sui fianchi. I capelli neri le sfioravano le spalle e gli occhi verdi avevano una tonalità conosciuta, a metà tra le fronde degli alberi e le alghe marine. Indossava abiti semplici – T-shirt monocolore, felpa con cappuccio, pantaloni e scarpe da ginnastica –, come se fosse appena uscita per andare a fare jogging.
Nico pensò di stare ancora dormendo, probabilmente quello era un altro sogno assurdo tipico dei semidei.
«Ciao, fratellino.»
Quella voce…
Nico sentì la bocca farsi arida come il deserto, il palato seccarsi come una mela disidratata e ogni traccia di saliva scomparve come aria in un barattolo di cetrioli sottovuoto. Indietreggiò, aggrappandosi allo stipite. A fatica, ritrovò la capacità di mettere una parola dietro un’altra seguendo un ordine logico.
«Bianca.»
Bianca gli sorrise timidamente.
«Vedo che ti ricordi ancora di me» disse.
Fece per scompigliarli il ciuffo ribelle, come quando erano bambini, ma Nico si ritrasse con uno scatto.
«Cosa ci fai tu, qui
La domanda assomigliava di più all’intimidazione di un poliziotto incazzato rivolta a un sospettato di omicidio.
«Posso entrare?» chiese Bianca, ignorando di rispondere.
Si infilò dentro repentinamente, temendo che il fratello avrebbe potuto sbatterle la porta in faccia con un “no”. Nico maledisse la mattina, il sonno e i riflessi lenti appena svegliato. Chiuse l’entrata e seguì la sorella, che si era addentrata nella casa che aveva preso in affitto. Notò un sorrisetto affiorarle alle labbra, quando percorse con lo sguardo il caos che vi regnava.
Diverse confezioni di cibo thai d’asporto abbandonate dappertutto, confezioni di involtini primavera che straboccavano da un sacchetto della spazzatura usato a mo’ di pattumiera, bacchette cinesi sparse, tovaglioli sporchi, lattine di marche, colori e contenuti differenti accartocciate e lasciate ad ammuffire negli angoli. E non era neanche entrata nella cucina.
Bianca raggiunse il soggiorno, seguendo la scia di olio a un piede solo appena fatta. Il divano era diventato il surrogato del letto, le lampade moderne erano state ribattezzati appendi abiti. Bianca si avvicinò al televisore, si chinò su una cornice e la studiò. Nico teneva una sola fotografia in casa, e lo raffigurava da giovane, appena dopo la sconfitta di Crono, insieme a Percy e Annabeth, che rideva a una battuta del figlio di Poseidone.
Era stata una giornata allegra e piena di scherzi, quella, ricordò Nico, di quelle che non avrebbe rivissuto per parecchio tempo. Bianca girò la cornice, trovando incastrata nel cavalletto una carta da gioco consumata ai bordi e sbiadita nel centro. Si girò verso il fratello, mostrandogliela.
«Non posso credere che tu l’abbia conservata» mormorò.
Nico strinse i pugni, ricacciando indietro i ricordi legati a quella carta di Mitomagia, assegnata ad Ade.
«Cosa ci fai qui?» ripeté, ruvido.
Bianca la ripose dietro la cornice e, mentre era di spalle, chiese: «Una sorella non può venire a trovare il proprio fratello minore?»
La sua voce tentava inutilmente di non incrinarsi.
«Non stai rispondendo alla domanda. Smettila» replicò Nico, duro.
Bianca si voltò, incrociò le braccia ai fianchi e i suoi occhi lo fulminarono.
«Volevo solo assicurarmi che stessi bene» buttò fuori in un sussurro.
Il fratello allargò le braccia.
«Be’, sto bene. Ora puoi andartene.»
Visto che non aveva neanche mosso un passo per andarsene, la incalzò, indicando la porta e sventolando la mano.
«Ciaaao
Bianca inarcò un sopracciglio, come se fosse più che eloquente per spiegare perché fosse ancora lì. Va bene, la casa sembrava una discarica, ma poteva sempre chiamare qualcuno affinché la pulisse. Non gli sembrava che fosse poi così sporca, qualcuno l’avrebbe tirata a lucido, se l’avesse pagato. Nico alzò a sua volta un sopracciglio.
«Ascolta» iniziò Bianca.
Si riportò indietro un ciuffo che le era ricaduto davanti agli occhi, prese un respiro e si asciugò i palmi sudati sulle cosce.
«Io… so che non sono stata molto presente, che ci sono sorelle migliori di me. Ma, ti prego, perdonami. Mi dispiace.»
A Nico venne da ridere.
«Ti dispiace?» le fece il verso.
«E di cosa?»
La risata gli uscì dalla labbra come il lamento di un gufo.
«Ti dispiace di avermi abbandonato? Ti dispiace di aver rifiutato ogni contatto con me? Ti dispiace di aver sentito cosa mi era capitato ma non aver fatto nulla a proposito? Ti dispiace di essere entrata nelle Cacciatrici senza avermi consultato? Ti dispiace di essere morta? Ti dispiace di aver saltato ogni mio compleanno? Ti dispiace di avermi lasciato affrontare la mia prima cotta da solo? Ti dispiace non avermi fatto da guida?  Ti dispiace di avermi lasciato ad affrontare gli incubi in cui ti perdevo continuamente senza potermi cullare tra le tue braccia? Ti dispiace non avermi visto crescere, diventare più alto di te? Ti dispiace di essere scomparsa come mamma?»
Più elencava, più il tono della sua voce si alzava, finendo per gridare. La rabbia gli stava graffiando il petto, i sentimenti di perdita e abbandono che aveva provato, che aveva seppellito, ritornarono vivi e dolorosi. Bianca aveva un autocontrollo notevole, perché, nonostante le labbra strette e gli occhi lucidi, la sua voce risultò chiara e ferma.
«Forse non te fai nulla delle mie scuse,» – Nico sbuffò – «ma è tutto quello che ho da offrirti. Avevo bisogno di tempo per riflettere, da dedicare solo a me. Posso rimediare, sono ancora tua sorella.»
Nico si riavviò nervosamente i capelli.
«Non credo. Nel sangue, per DNA, certamente. Ma nella realtà, ti sei presa cura di me solo finché ne avevi voglia, poi, nel momento nel bisogno, te ne sei andata. Poi, un bel giorno, hai deciso di bussare alla porta di casa mia. Non hai svolto il tuo dovere, Bianca. Mia sorella? No. Piuttosto, direi che sei una bella stronza.»
«È questo che pensi?» scattò lei. «Che mi sia divertita a morire e rinascere, consapevole che non avrei rivisto mio fratello per anni?» 
«Hai deciso tu di non incontrarmi» la contraddisse Nico. «Non far passare le tue regole personali per obblighi che qualcun altro ti ha imposto.»
Il labbro di Bianca fremette.
«Il difetto mortale dei figli di Ade è il rancore» citò.
Nico si umettò le labbra.
«A quanto pare, non di tutti. Il tuo, ad esempio, potrebbe essere la smemoratezza. O la stupidità? Chissà.»
«Non insultarmi, sono tua sorella» replicò l’altra, secca.
«Lo eri, e ti amavo» mormorò Nico. «Ora, però, ti pregherei di uscire da casa mia. Sto bene.»
Bianca azzerò la distanza tra loro due, puntò il suo indice contro il petto del fratello e sentenziò: «Oggi me ne andrò. Ma tornerò domani, e dopodomani, e dopo ancora, finché tu non ti deciderai a perdonarmi. Farò tutto quello che è in mio potere perché questo avvenga. Lo giuro sullo Stige.»
Detto ciò, raggiunse a grandi falcate la porta e uscì, sbattendola alle proprie spalle.


Bianca tornò ogni giorno, come stabilito. Suonava il campanello, bussava, si sedeva sul marciapiede e aspettava per un’ora buona, prima di andarsene, scoccando un’ultima occhiata alla casa. Nico la spiava da dietro la tenda, sentendo il suo cuore galoppare per tutta la durata delle sue visite.
Sapeva che non l’avrebbe lasciato in pace, che l’avrebbe tormentato finché uno dei due avrebbe mollato. E, Nico ne era certo, quel qualcuno non sarebbe stato lui. Ignorò le regole della pulizia, gettando rifiuti persino nei vasi da fiori – già appassiti da mesi, visto che al figlio di Ade importava quanto i dilemmi dei mortali  – e trovò un paio di calzini nel forno a microonde.
Fu l’unico elettrodomestico che ripulì coscienziosamente, dato che su di esso si basava la sua sopravvivenza di “totalmente negato ai fornelli”. Il che, gli suonava come una beffa, se si contavano le origini italiane e il grande ricettario dell’Italia. Mentre passava una spugnetta inumidita sul fianco del microonde, si domandò se Bianca sapesse cucinare.
La sua mano si bloccò all’improvviso, e lo stracciò rischiò di scivolargli via. Strizzò le palpebre, fece un respiro profondo e riprese a pulire il microonde come se il pensiero non l’avesse minimamente sfiorato. Decise che era ora che imparasse, pure abbassandosi a comprare uno di quei manuali dalle copertine colorate con volti di sconosciuti sorridenti – Cucina Per Idioti, Facile e Approvata.
Quando ebbe finito, si appoggiò al tavolo e sbuffò, alzandosi un ciuffo nero. Si sollevò la maglietta, portandola al naso, e la annusò per vedere se puzzava. Tossicchiò. No, quello che gli serviva era una donna delle pulizie o un’arpia. Subito.
Abbandonò i suoi intenti igienici in quel locale, salì le scale che portavano al piano superiore e raggiunse il bagno. Aprì il getto della doccia, aspettando che si scaldasse, mentre si svestiva in fretta. Richiuse all’ultimo la maniglia, già resa scivolosa dal vapore.
L’acqua gli colpì le spalle, scottandogli la pelle, ma presto Nico si crogiolò in quell’abbraccio liquido. Spremette il tubetto dello shampoo, ci cacciò dentro due dita, cercando di elemosinarne quanto più possibile. Bastò appena per i suoi capelli, che divennero ritti e lucidi, cosparsi di schiuma bianca.
Nico si ritrovò le mani insaponate e scivolose e, quando un raggio di luce le colpì, vide riflesso nella bolla un mini-arcobaleno. Si portò le mani a coppa alla bocca, soffiò, controllò che la schiuma gli stesse obbedendo, e lo fece di nuovo. In aria, volò una bolla di sapone delle dimensioni di una grossa castagna.
Nico si sciacquò i capelli, ricordandosi di far sollevare col fiato la spuma. La pelle dei polpastrelli gli si era raggrinzita, quando il campanello suonò. La bolla ricadde ai piedi di Nico, scoppiando con un pop acuto.
Il ragazzo spense il getto, uscì dalla doccia borbottando e si infilò nell’accappatoio. Lasciò che le gocce scivolassero sul tappeto, inzuppandolo. Dopodiché, si infilò delle pantofole e scese le scale, facendo attenzione a non inciampare. Sbirciò dalla finestra, ma non c’era traccia di Bianca. Corrugò la fronte, dirigendosi alla porta.
Notò un piccolo pezzo di carta spuntare da sotto la soglia, controllò dalla serratura e, dato che non c’era nessuno, lo raccolse.
“Sono di passaggio. Ricordati che ti voglio bene, tua sorella Bianca.”
Nico era tentato di stracciarlo e buttarlo da qualche parte, ma decise di fare altro. Trovò un pennarello rosso sul ripiano del televisore, dove si appoggiò per scrivere in stampatello.
“Hazel Levesque è mia sorella. Lei non è mai stata di passaggio.”
Lo infilò sotto la porta e risalì al piano superiore. Si guardò allo specchio che, nel frattempo, si era appannato per via della condensa. I capelli umidi gli ricadevano scomposti davanti agli occhi, cerchiati di nero per gli incubi che non avevano ancora smesso di tormentarlo.
Era magro e malcurato, un fantasma di quello che era stato. Aprì l’anta dell’armadietto accanto allo specchio, vi frugò dentro e ne tirò fuori delle forbici affilate. Si prese una ciocca di capelli tra le mani, tranciandola di netto. Il ciuffo cadde nel lavandino.
Erano troppo lunghi, solo da bambino o cantate rock alternativo, entrambi casi che non lo raffiguravano. Con più sicurezza, impugnò le forbici e tagliò la propria chioma, senza curarsi del risultato.
Doveva recidere ciocche superflue e basta. Sì, un taglio era proprio ciò di cui aveva bisogno.


Nonostante Nico rispondesse ai bigliettini di sua sorella sempre più rudemente, incolpandola degli oggetti, canzoni e modi di dire che gliela ricordavano, lei non cedeva.
Per ogni “Sono ancora qui, ti chiedo scusa” scritti in bella calligrafia, aveva sempre un “Le tue scuse non sono abbastanza”.  Ai “Perché non mi ascolti!? Non fare il bambino, cresci qualche volta!” arrabbiati, rispondeva con “Sono già cresciuto. Senza di te”.
Per quanto Bianca tentasse di rientrare nella sua vita, la respingeva in ogni modo possibile. Aveva chiuso a chiave le porte del suo cuore e aveva gettato via la chiave, assieme ai capelli che si era tagliato. Il risultato non era stato dei migliori – un buffo incrocio tra i Mohicani e i Punk –, ma Nico non se curava. A nessuno importava di lui, figurarsi del suo nuovo taglio di capelli.
Alla stessa velocità in cui la casa degradava, il suo umore peggiorava, facendolo scattare per sciocchezze.  Aveva abbattuto una colomba solo perché era atterrata nel giardino di casa, con l’unico fine di attirare due gatti e un cane randagio a causa dell’odore del cadavere.
Poi, arrivò il giorno in cui Bianca non si presentò.
Nessun biglietto, appunto o frase dietro scontrini di caffè. Nico era quasi deluso dalla rinuncia di sua sorella, ma, al tempo stesso, era sollevato di essersi alleggerito di una tale scocciatura. Poteva tornare a fare la sua vecchia, malinconica ma felice, vita da semidio solo. Quando avrebbe avuto bisogno d’affetto, avrebbe fatto un viaggio ombra da Hazel o da Percy, che l’avrebbe accolto con un abbraccio.
Alle sette di sera, con il cielo striato di rosa e arancione, il campanello suonò. Nico rovesciò parte della birra sul divano, evitando per miracolo i suoi jeans. Imprecò sonoramente, rivolto al trillo insistente dell’apparecchio elettronico. Bianca continuava a suonare, componendo una sottospecie di melodia.
Strano, pensò Nico, abbandonando la lattina e avviandosi verso l’ingresso.
Sbirciò dalla serratura, osservando il mondo di fuori. Vedeva solo una mocciosa che si divertiva col suo citofono. Brontolò sottovoce, spalancando la porta.
«Smettila-di-suonare» sillabò. «Non mi interessano i tuoi biscotti da Scout. Sciò!»
Sventolò la mano, ma la bambina non si mosse.
«Non sono una Scout!» protestò, faticando a mettere insieme la frase.
«Il mio nome è Zoe Katherine Campbell» declamò con orgoglio, stringendosi l’orlo della camicetta che indossava.
Nico abbassò gli occhi su di lei.
«Non mi importa se ti chiami Zoe Katherine Campbell o Genoveffa Brunilde Vattelapesca, smettila di farmi sanguinare le orecchie e smamma, se non vuoi che un grosso cane a tre teste ceni con te.»
Senza aspettarsi che rispondesse, le chiuse la porta in faccia. Non fece neanche due passi, che lo scampanellio ripartì, più insistente e trapanante di prima. Con un ringhio, si voltò, aprì la porta  – quasi scardinandola – e si abbassò sulla bambina.
«Ho detto c-»
Zoe si intrufolò in casa, passandogli sotto le gambe. Si era già rifugiata in cucina, quando Nico realizzò l’accaduto e poté reagire. Lasciò la porta socchiusa, allungandosi come un’ombra sulla piccola. La bambina deglutì, ma non accennò ad andarsene. Nico la osservò, ammirandone il coraggio.
Aveva capelli biondi a caschetto, carnagione abbronzata e grandi occhi verdi. Erano di una sfumatura particolare, come di alberi o posidonie. Il figlio di Ade vacillò, cercando la parete a tastoni dietro di sé. Gli sembrava impossibile riuscire a respirare.
Fissava la bambina senza riuscire a smettere, realizzando quante somiglianze possedeva in comune con la madre; solo i capelli potevano trarre in inganno. Scivolò lungo il muro, gli occhi sgranati e le mani che tremavano, come affette da una malattia.
«Signore…» balbettò Zoe, avvicinandosi.
«Vattene» mormorò Nico, la voce roca.
«Ma sta male… io…» replicò debolmente l’altra, ferma al suo posto.
Doveva avere una paura folle dell’uomo che le stava di fronte, ma non voleva andarsene.
«Vattene» ripeté Nico, a voce più alta.
«Via!» gridò, fuori di sé.
Zoe tremò tutta, scossa da un singulto, ma, invece di seguire l’ordine, si avvicinò a passo deciso verso di lui. Nico non aveva la forza di scacciarla, le mani non gli rispondevano. Si sentì avvolto dall’abbraccio, che profumava di raggi di sole, fiori di ciliegio e miele.
Inspirò l’odore dei capelli della piccola, che aveva stretto attorno al suo collo le sue braccia paffute. Nico sentì bruciare gli occhi, e non poté impedirsi di piangere. Singhiozzò sulla spalla della ragazzina, perdendosi in quel paradiso di profumi. Avrebbe scommesso che neanche a Ogigia ci fosse una tale pace.
«Signore…?» azzardò Zoe, allontanandosi lievemente.
Negli occhi le si agitava ancora un po’ di paura, unita alla sorpresa di vedere un uomo grande in quello stato. Il suo papà sorrideva sempre, era forte e felice.
«Che c’è?» gracchiò Nico, strappandosi le lacrime dagli occhi.
«Sta piangendo?» chiese.
Il figlio di Ade rise. «Sciocchezze! Che idee ti vengono in mente, marmocchia!»
Zoe gli toccò il naso, schiacciandolo.
«Mente. Adesso questo si allungherà per le bugie.»
«Balle» replicò Nico, mettendosi in piedi e riprendendo la sua dignità.
«Ora, fuori. Questa è violazione di proprietà privata, mostriciattolo.»
Zoe incrociò le braccia al petto, andandosene impettita, quando le aprì la porta. Non passò che qualche minuto, perché poco dopo il campanello suonò di nuovo. Bianca aveva una mano sulla spalla di Zoe, che si sforzava di non sfoggiare il suo sorrisetto compiaciuto.
Nico sospirò, permettendole di entrare.
La bambina corse nel giardino sul retro, mentre fratello e sorella si sedeva a gambe incrociate sull’erba. Il cielo era sempre più vicino al tramonto, e sfumature viola si aggiungevano a quelle arancioni e rosa. Nico guardava fisso davanti a sé, l’aria che gli asciugava gli ultimi residui di pianto dal viso.
«Quanti anni ha?» domandò.
«Cinque» rispose Bianca, voltandosi verso di lui.
«Suo padre è biondo.»
Non era domanda, ma la sorella si sentì in dovere di confermare ugualmente.
«Suo padre…» – arrossì – «Mio marito è biondo, sì. Zoe gli assomiglia molto.»
«Ha i tuoi occhi» commentò Nico. «E il tuo coraggio.»
Silenzio, rotto solo dai gridolini di gioia della bambina che rincorreva un pettirosso.
«Accetto le tue scuse.»
Nico lo disse così piano che sembrava un soffio di vento.
Si girò verso Bianca e ripeté: «Accetto le tue scuse.»
La sorella gli sorrise e lo abbracciò. Nico si perse in quel contatto che da tanto, troppo tempo sognava e basta. Ma i desideri, a volte, si avverano. Bianca si staccò, e fece una faccia stranita al nuovo taglio di capelli del fratello. Glieli scompigliò.
«Ma che hai fatto?» esclamò, quasi ridendo.
«Niente» borbottò Nico, arrossendo.
Bianca non riuscì a trattenersi. Si alzò, si stiracchiò e gli porse una mano. Nico la fissò, senza capire.
«Avanti» incitò. «Vieni a giocare anche tu.»
«Giocare? Io… no… però…» farfugliò in protesta, ma Bianca lo afferrò per un braccio e lo tirò su.
Gli lanciò un’occhiata complice, che voleva dire “prendiamola da dietro, a sorpresa”. Scattarono a correre insieme, e Bianca raggiunse Zoe alle spalle, strappandole un gridolino.
La sollevò in aria, mentre lei strillava: «Nico, aiutami! Aiutami!»
Nico indugiò. Guardò quella scena come uno spettatore esterno, osservando i colori del cielo e la luce calda sulla sua pelle, i riflessi che creava nei capelli biondi di Zoe, l’aura magica che aveva quell’incontro. Poté vedere il suo rapporto strano con Bianca, il loro assurdo tipo di fratellanza e unione. Sorrise.
«Arrivo!» esclamò, cercando di afferrarla dalla stretta di sua sorella.
La bambina strillò, felice che si fosse unito alla festa. E Nico, in quel momento, si rese conto di fare parte della famiglia più bella del mondo.

Angolino dell'autrice
'Sera voi, semidei e semidee!
Ancora una volta, torno a rompere con le mie ff e, immancabile, Nico. Il tempo è importante. Ho deciso di ambientarla dopo Blood of Olympus, alla fine della serie, dopo un'ipotetica sconfitta di Gea. Questo, perché Rick Riordan non può  farla vincere e ho una paura tremenda dei personaggi che potrebbero morire.
Sto leggendo "Mark of Athena", e chi l'ha finito sa quanta paura io abbia per Nico, nonostante mi sia spoilerata un sacco di cose x'D
Ho trasformato la statuetta di Ade di Mitomagia in una carta, perché mi sembrava ci stesse meglio dietro una cornice. Che nessuno me ne voglia.
Che dire... Non so come funzioni questa cosa della reincarnazione. Si ottiene un altro corpo? Boh. Ho deciso di no.
Se mai Nico sopravvivesse, e non abitasse al Campo Mezzosangue, la sua casa sarebbe un casino e lui incapace di cucinare. Non ce lo vedo col grembiule  a sbattere le uova. Questo scenario, poi, si adattava molto alla trama^^
Spero che i personaggi non siano OOC, perché amo l'IC. Devono essere IC.
Enjoy! ^y^


 
  
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