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Autore: unicorn_inthemind    25/01/2014    3 recensioni
“Ho sbagliato tutto, non voglio questo, andiamo via, amore mio. Non voglio Davide, voglio te Luci’.”, “Io ti ho sempre aspettata, sempre voluta, sempre amata.”
Vorrei sentirglielo dire, vorrei risponderle.
Illusioni.
Lei è di lui, io sono solo l’amica fidata, io sono quella che l’abbraccia per attaccarsi addosso la pelle.
«È questo! Me lo sento, Luci’, è quello giusto.»
È il quindicesimo abito. Lei mozza il fiato.
«Sarai bellissima.», ho le lacrime agli occhi, vorrei trattenermi ma non ce la faccio, sono anni che non piango per lei, da quando lei e Davide si sono fidanzati, non ho pianto neppure quando mi ha detto che stava per sposarsi.
Dice che mi sono emozionata, Clara, l’assistente dell’atelier mi porge dei fazzoletti, “Ooh, si è commossa: tutte lo fanno.”, dice.
Vorrei sapere in quante muoio anche, mentre piangono.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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A te, causa del mio splendido dolore. 


Il mio primo giorno di prima liceo arrivai in ritardo, sulla soglia mi ero guardata attorno stralunata, le gambe molli, le guance rosse. Tutte le persone che conoscevo erano già accoppiate nei banchi, l’unico spazio libero era un fottuto banco in prima fila, da sola perché a quanto pareva chi sarebbe dovuto stare seduto accanto a me non era arrivato.

Al nome Clara Cherubini durante il primo appello la classe tacque, nessuna mano alzata, nessun “presente”, la gente non aveva neppure il coraggio di dichiarare quella ragazza assente. Il banco accanto al mio rimase vuoto e muto: «Credo sia l’unica assente prof.».

Clara era apparsa due giorni dopo, ero entrata e lei era già lì al suo banco in prima fila, gli altri ragazzi le avevano indicato dov’era che doveva sedersi. Mi disse che la prima fila era una merda – ed ero d’accordissimo -, che “fottuta febbre, proprio la scelta dei posti mi sono persa”. Capelli stirati e matita blu negli occhi, lo zaino era pieno di spille e il banco si sarebbe riempito di scarabocchi a matita nelle poche ore seguenti. Mi aveva trascinata con sé, non so come cavolo feci a divenire sua amica, se fossimo state sedute a banchi differenti probabilmente saremmo state solo semplici compagne di classe.

Se fossimo state a banchi diversi non avrei mai notato la bellezza delle sue mani, dei suoi sorrisi, il suo carisma, delle smorfie che faceva durante la lezione, delle basse risate che era libera di rilasciare durante le spiegazioni (quando in seconda riuscimmo a conquistarci la penultima fila).

E, Dio, quanto era bella ai suoi sedici anni, e ai diciassette, ai diciotto e in ogni singolo giorno di quegli anni, e degli anni passati. E degli anni a venire.

E, Dio, quando capii di amarla, quando capii che l’avrei voluta solo per me, quand’era troppo tardi che lei mi si appoggiava su una spalla e mi diceva che le piaceva Antonio e io mi sentivo affogare. E quanto avrei voluto dirle che c’ero io, che se ci avesse creduto non le sarebbe servito nessun ragazzo, mentre lei raccoglieva i pezzi del suo cuore spezzato da quel ragazzo.


L’avevo vista bellissima, rinata, felice, quando era arrivato Davide. Che lo aveva conosciuto all’università, che la faceva divertire, che si stava innamorando; e io ero lontana, lei Milano e io Bologna, e avrei voluto farmi bastare tutti quei messaggi, quelle telefonate, quelle videochiamate su Skype, quegli sporadici incontri faccia a faccia che potevamo permetterci.
No, non bastavano.

La volevo sempre al mio fianco, sempre mia.

Nella mia casa, nella nosta casa.
Mia, io sua.

Mai.


Amore” mi avrebbe detto, “Amore mio” le avrei risposto.

 Io l’amavo, poco importava i ragazzi che avevo avuto intanto, poco importavano le persone che non erano lei ma che avevo baciato, a cui avevo detto “ti amo”, con cui avevo diviso un letto. Lei era e sarebbe rimasta per sempre l’unica donna che avrei mai amato, l’unica a cui avrei rivolto un vero “ti amo”.


«Lu’,Davide mi ha chiesto di sposarlo!», era così bella mentre sorrideva, aveva preso un treno solo per venire a dirmelo, solo per me, sorrideva che era un sogno quel giorno.
E io avrei voluto fermarla, mi sentivo morire, volevo piangere come avevo fatto molte volte in passato. Mi uccideva e non si rendeva conto del male che mi faceva.

Non è giusto.

Tu sei mia.

Digli di no, dì di sì a me.

Io ti amo più di lui, da più tempo di lui.

Io ti amo.

Ti amo.

Ti amo.



Tu non mi ami.



Mi spaccava in due, perché una parte di me voleva strapparla via da quel ragazzo e un’altra parte voleva che lui non la lasciasse mai, che la facesse felice, che la facesse sorridere in quel suo modo splendido.
Ci avevo messo anni, ma alla fine avevo imparato a godere della sua felicità, mi sentivo un poeta Stilnovista che si accontenta di guardare da lontano la perfezione della sua amata. Non le tessevo lodi, non le dedicavo storie intere. Ma le dedicavo il mio cuore, i miei sguardi migliori, i miei sorrisi più veri.
 
 
Mi ha trascinato in giro per atelier, vederla in bianco mi mozza il fiato, vederla in bianco mi spacca il cuore, vederla in bianco rende più reale e tangibile l’idea che non sarà mai mia.
«Sei bellissima.»,  le dico. Lei nel suo vestito da principessa si guarda allo specchio, il bustino ricoperto di cristalli, lo scollo a cuore, nessuna spallina e la schiena scoperta per metà.
Non è quello giusto, è il dodicesimo.
È stupenda comunque.

Lo è sempre ai miei occhi.

Non vuole un vestito bianco, lo vuole avorio, non vuole il modello a sirena né uno scollo troppo profondo, vuole uno strascico lungo e un bustino stretto e lavorato. Io vorrei che semplicemente si girasse, che mi guardasse,

 “Ho sbagliato tutto, non voglio questo, andiamo via, amore mio. Non voglio Davide, voglio te Luci’.”, “Io ti ho sempre aspettata, sempre voluta, sempre amata.”

Vorrei sentirglielo dire, vorrei risponderle.



Illusioni.
Lei è di lui, io sono solo l’amica fidata, io sono quella che l’abbraccia per attaccarsi addosso la pelle.

«È questo! Me lo sento, Luci’, è quello giusto.»
È il quindicesimo. Lei mozza il fiato.

«Sarai bellissima.», ho le lacrime agli occhi, vorrei trattenermi ma non ce la faccio, sono anni che non piango per lei, da quando lei e Davide si sono fidanzati, non ho pianto neppure quando mi ha detto che stava per sposarsi.
Dice che mi sono emozionata, Clara, l’assistente dell’atelier mi porge dei fazzoletti, “Ooh, si è commossa: tutte lo fanno.”, dice.


Vorrei sapere in quante muoio anche, mentre piangono.
In quante dentro si sentono scavate.


Clara è sulla pedana circolare davanti agli specchi, Clara ha il vestito da principessa come voleva, è avorio come voleva, ha un bustino di pizzo e un lungo strascico. Tutto va come lei vorrebbe.

Tutto va come mai io avrei voluto.


Non è mia.

Non è mia.

Non è mia.


Questa consapevolezza mi avvelena.
Mi sta uccidendo, mi viene da vomitare. Non ho avuto il coraggio di prendermela, di amarla, posso solo piangere sul mio essere codarda, sul mio aver finto che la sua felicità è anche la mia.

Non resta altro se non: «Sì, mi sono commossa per colpa tua!», “No, sono morta per colpa mia.”
Mi sono soffocata da sola, mi sono condannata da sola, non avrei dovuto amarla, non avrei dovuto innamorarmi dei suoi occhi nocciola, della sua voce, del profumo dei suoi capelli, dei suoi abbracci, dell’odore di Marlboro che aveva quando fumava prima di entrare a scuola. Non avrei dovuto innamorarmi di tutti quei momenti assieme, le feste, le corse in motorino, i viaggi in macchina, le gite d’estate.

Guarda il mio cuore, sta sanguinando, è per te amore mio, per te.

Me lo strappo dal petto, te lo dono se vuoi, devi solo chiederlo.

M’inginocchierò avanti a te, sarò io a chiedere la tua mano, una mano di donna cerca una mano di donna, non ti darò nessun anello, ti metterò in mano il mio cuore sanguinante.
Mi hai soffocata, amore mio, sei stata una rosa,  ti sei avviluppata attorno a me, e i tuoi fiori sono stati così belli che persino le tue spine hanno fatto meno male. Ti ho stretta a me, ho lasciato quelle spine affondare nella mia carne, rimanere lì ancorate come uncini.


Mi hai uccisa.

Mi hai uccisa.


Sei bellissima.



Mi hai uccisa.

Sei splendida, col tuo essere rosso sangue, ti metterei il mio cuore in mano, distruggilo se vuoi, tanto per metà è già rotto, esasperato.

Il pizzo del tuo bustino è ricamato a fiori, sono rose, mai trama è stata più azzeccata.
Perché tu sei una rosa rampicante, ecco cosa sei, sono stata il tuo graticcio. Ti sei aggrappata a me e io ti ho stretta addosso.
Ti ho spinta dentro. Ti ho spinta verso l’altro.


E sei divenuta così bella che lui ti ha colta.


Ti vedo già andare via, in mano al ragazzo che corre lontano sul viale del giardino, a braccetto con tuo marito che attraversate la navata della chiesa. Le campane suonano a festa, è il tuo giorno di gloria.

Piango ancora.

Lancio il riso.

Il riso trattiene l’umidità, per questo lo mettono nelle saliere, così che con l’acqua il sale non si compatti. Così che cada.





Cado io.

Lancio il riso così che assorba il dolore nelle mie lacrime. Così che non si veda il mio male sul viso.
Non voglio sconvolgerti, sono commossa.

Lo giuro
.

Bugiarda.


Ti abbraccio.
Ti abbraccio a lungo per imprimermi addosso il tuo calore, dentro il tuo profumo.
Non sei mia. Non te ne rendi neppure conto.
Ti piango sul collo affinché le mie lacrime tornino al loro luogo d’appartenenza.
Ciò da cui tutto si è generato.

Te.

 
   
 
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