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Autore: millyray    25/01/2014    1 recensioni
Connie torna a Londra dopo tanti anni e con sé porta dietro tanti ricordi spiacevoli, tante esperienze terrificanti che non sono mai state dimenticate, tanti sentimenti negativi, risvegliando un lato nella personalità di Sherlock che i suoi amici più intimi non hanno mai conosciuto.
Ma non solo questo... Connie è una ragazza speciale, sa il fatto suo, sa osservare ma soprattutto sa vedere quello che non c'è in superficie. Perché lei, a differenza di qualcun altro che ben conosce, è in grado di vedere col cuore.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson, Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO UNO

Quando John quella mattina si svegliò ed entrò in cucina con i capelli ancora spettinati e gli occhi gonfi per il sonno, trovò Sherlock seduto al tavolo del salotto a fissare qualcosa sullo schermo del computer, l’attenzione rivolta soltanto a quello. Niente di nuovo, insomma e anzi, doveva ringraziare il cielo che non si fosse messo a strimpellare col violino che, per quanto bravo fosse a maneggiarlo, non era affatto piacevole sentirlo la mattina presto quando lui aveva fatto tardi na notte prima. Peggio ancora sarebbe stato se si fosse messo a sparare contro il muro. Almeno aveva qualcosa da fare.

“Hai comprato il latte?” gli chiese John senza nemmeno voltarsi a guardarlo, ma tutto quello che ricevette in risposta fu un mugugno poco chiaro. Tanto la risposta la ottenne da sé, aprendo il frigo e notando che non c’era il latte. Anzi, non c’era quasi niente, a parte un limone ammuffito, una scatola di carote, una bistecca e un barattolo con delle cose strane dentro sui cui evitò di indagare; sicuramente era qualche parte umana su cui Sherlock doveva fare degli esperimenti e meno ne sapeva meglio era. E ora dopo il lavoro gli toccava pure fare la spesa. Mica si aspettava che la facesse Sherlock, no, assolutamente no.
E si sarebbe pure dovuto accontentare di bere il tè senza latte. A meno che non fosse sceso giù per chiederlo alla signora Hudson, ma non ne aveva voglia.

“Fai il tè anche per me”, sentì dire dalla voce del suo coinquilino che ancora non aveva distolto gli occhi da quello che stava guardando. Sicuramente si trattava di un caso.

John sospirò rassegnato, rinunciando a qualsiasi obiezione avesse voluto porre, tanto era inutile. Finì di preparare il tè e, con due tazze in mano si diresse, verso il salotto alla postazione di lavoro di Sherlock. Ne posò una sul tavolo accanto al moro e poi si appoggiò sul bordo del suddetto sorseggiando dalla sua.

“Stai lavorando su un caso?” gli chiese, più per educazione che non per vero interesse. Era ancora troppo addormentato per concentrarsi su uno dei complicatissimi casi del detective.
Sherlock osservò il suo profilo con la coda dell’occhio, soffermandosi sulle pieghe dei pantaloni della tuta che indossava e su una piccolissima porzione di pelle che si intravedeva sul fianco sinistro perché aveva indosso una canottiera che gli stava un po’ piccola forse. C’erano solo due soluzioni piuttosto plausibili: o non aveva più canottiere pulite e della sua taglia corretta oppure aveva indossato la prima cosa che aveva trovato, senza fare caso a come gli stesse addosso. Non che gli stesse male, certo… Ma non era John che doveva studiare, piuttosto era quel caso, che richiedeva tutta la sua attenzione e concentrazione.

“Non è niente di importante”, rispose, le mani che digitavano qualcosa sulla tastiera.

“Ah no?” John si allontanò dalla scrivania per poter vedere il computer e constatare che sembrava essere il progetto di un edificio o qualcosa di simile. Che Sherlock volesse costruire una casa? Non se ne sarebbe stupito… ma no, di certo si trattava di un caso.
“D’accordo, allora io vado al lavoro”. Si diresse di nuovo verso la cucina per mettere giù la sua tazza di tè, e poi tornò nella sua stanza. Sherlock lo guardò andare via nel riflesso dello schermo.

 

Era un’altra mattinata noiosa, fin troppo noiosa. Da quando abitava con Sherlock trovava noiose molte cose e ormai niente lo divertiva abbastanza quanto una sana fuga da terroristi, assassini, psicopatici o chiunque li volesse uccidere. Cominciava a temere di star diventando come il suo coinquilino, ovvero una persona con istinti suicidi e amante del pericolo. Ma no, ce ne voleva per diventare come Sherlock. In ogni caso, non voleva diventare come lui e non perché il suo atteggiamento non gli piacesse – be’, qualche lato del suo carattere era decisamente terrificante – ma perché di Sherlock ce ne poteva essere uno solo. Era unico nel suo genere, diverso, particolare e questa era una cosa… bella. Sì, bella, per quanto certe volte fosse insopportabile. Ma di un’insopportabilità divertente.
Chissà cosa stava facendo adesso. Forse era ancora impegnato su quel caso di cui non aveva voluto dirgli niente o forse stava facendo qualche esperimento in cucina. Magari avrebbe potuto mandargli un messaggio.
Prese il cellulare dalla scrivania e rimase a fissare lo schermo. Ma no, perché avrebbe dovuto? Non erano affari suoi, qualsiasi cosa stesse facendo. Potevano stare per qualche ora senza sentirsi, giusto?
Giusto…

“John”. Sarah bussò alla porta del suo ufficio, infilando solo la testa dentro. Da quando si erano lasciati il loro rapporto era andato incrinandosi e ora si trattavano solo come dei normalissimi colleghi che si rispettano ma che non provano alcun interesse l’uno nei confronti dell’altro. “E’ arrivata la signora Turner”.

“Falla accomodare”.

Il dottore sospirò e si preparò ad un’altra solita e banalissima diagnosi.

 

Sherlock sedeva in salotto sulla sua poltrona, lo sguardo fisso in un punto che non vedeva. Cercava di mettere ordine nel suo palazzo mentale e ciò richiedeva non poca concentrazione.
Il quiz televisivo che aveva visto ieri sera in cui un signore aveva sbagliato tutte le risposte, persino le più banali… inutile, da eliminare. La signora Hudson che gli chiedeva notizie di suo fratello perché non lo vedeva da un po’… anche quello inutile. John che gli chiedeva di comprare il latte… poco rilevante perciò poteva archiviarlo. John che quella mattina molto gentilmente gli portava il tè e sempre molto gentilmente gli chiedeva informazioni su quel caso e poi la sua figura che si allontanava e… no, no, stava divagando. Però quello non era tutto da buttare. Magari avrebbe potuto conservarlo.
E ora… ora poteva concentrarsi su quel nuovo mistero affidatogli da Mycroft. Il suo caro fratello sospettava che un ramo della mafia inglese stesse spacciando droga e i suoi occhi da ragno avevano notato diverse persone muoversi attorno ad un edificio abbandonato che si trovava poco fuori Londra. Doveva innanzitutto verificare che i suoi sospetti fossero fondati e capire che interesse potesse avere la mafia nel spacciare della droga. Per questo aveva bisogno dell’aiuto di Sherlock, perché non sapeva mai risolvere  niente da solo.

Il solito vecchio Mycroft, pensò il consulente detective alzandosi di scatto dal divano.

Inizialmente era stato un po’ titubante ad accettare il caso, ma alla fine aveva deciso che poteva essere divertente. E poi aveva iniziato ad annoiarsi e una qualsiasi distrazione gli sarebbe andata bene.
Più tardi ne avrebbe anche parlato a John, sicuramente lo avrebbe trovato divertente anche il dottore e non avrebbe esitato a farsi trascinare con lui. Magari poteva telefonargli immediatamente per informarlo e dirgli di tornare a casa così potevano mettersi subito al lavoro, ma cambiò idea subito dopo; non era una buona soluzione, sicuramente lo avrebbe fatto innervosire visto che era al lavoro e che detestava essere interrotto mentre lavorava, specialmente se era qualcosa di importante. Per quanto dei pazienti con le emorroidi potessero essere importanti. Glielo ripeteva sempre, che il suo lavoro era noioso.
E poi perché doveva lavorare? Poteva bastare lo stipendio che prendeva lui come consulente detective, così poteva rimanere a casa e seguirlo nelle missioni. Era confortante averlo accanto.
Ma tanto John era cocciuto. E va be’, che cosa ci poteva fare? Era meglio mettersi a lavorare a qualche esperimento in cucina, piuttosto che scervellarsi su queste questioni senza capo né coda.

 

Quando John rientrò a casa quel tardo pomeriggio, scoprì che il suo coinquilino non era in casa. Si tolse la giacca e poggiò la borsa sul suo letto, poi gli mandò un messaggio per chiedergli che fine avesse fatto.
Si guardò un po’ attorno, costatando che c’era bisogno di mettere ordine nell’appartamento. Sherlock aveva combinato qualche esperimento, a giudicare dalla confusione che regnava sul tavolo della sala da pranzo.

Stava proprio per mettersi a sistemare, quando la Signora Hudson venne a bussargli alla porta.

“Tok, tok, John. È permesso?”

“Sì, certo, Signora Hudson!” la accolse lui, sempre col solito sorriso gentile che non poteva fare a meno di riservarle ogni volta che la vedeva. “Come sta?”

“Oh, caro, mi fanno un po’ male le giunture. Tu stai bene?”

“A parte la stanchezza, non mi lamento. Preparo del tè, le va?”

“Non rifiuto mai una buona tazza di tè”.

John corse subito in cucina a mettere il bollitore pieno d’acqua sulla fiamma del fornello. Non aveva molta voglia di chiacchierare con la Signora Hudson, però non poteva nemmeno cacciarla via. E in ogni caso un po’ di distrazione non gli avrebbe fatto male.

“Sherlock non c’è?” chiese lei, quando il dottore le ebbe messo in mano la tazza di tè caldo e lei si fu accomodata sulla poltrona solitamente occupata dal detective.

“No, è uscito prima che io tornassi. Non so dove sia andato”. In quel momento si ricordò di aver mandato un messaggio a Sherlock, perciò tirò fuori il cellulare per controllare e, notando che non aveva ricevuto risposta, faticò a non lasciar trapelare dal volto un broncio di disappunto e di delusione. La signora Hudson comunque non se ne sarebbe accorta, visto che era tutta intenta a raccontare delle sue avventure del passato col defunto marito, un’espressione estasiata e gli occhi fissi al soffitto.
Tutto quello che fece John fu annuire e sorridere quando vedeva ridere lei. In realtà non stava ascoltando neanche una parola. Era completamente distratto da altri pensieri, tra cui i motivi per cui Sherlock non gli aveva risposto. Di solito lui leggeva subito i messaggi. Se avesse saputo dove fosse andato sarebbe corso da lui. Ma non poteva nemmeno trattarsi di un caso perché altrimenti il detective gli avrebbe chiesto di raggiungerlo. Lo faceva sempre.

Fortuna che la Signora Hudson non si trattenne molto e dopo mezz’ora decise di scendere nel suo appartamento. Ringraziò John per la tazza di tè e lo lasciò coi suoi pensieri.
Il dottore allora si mise subito a riordinare, cercando di scacciare via il pensiero di Sherlock chissà dove.

C’erano dei vestiti del suo coinquilino sparsi sul divano. John prese in mano una camicia e, cercando di piegarla, se la portò al naso senza nemmeno accorgersene, inspirando il buon odore che emanava. Ma che cosa diamine stava facendo? Doveva essere molto stanco per mettersi ad annusare le camicie di Sherlock.
Mise in un cesto tutti i vestiti che trovò sparsi in giro così da poterli portare in lavanderia in un secondo momento, e andò a mettere in ordine la cucina.
A dispetto di quello che aveva pensato, non ci mise molto a sbrigare queste noiose faccende domestiche. Però non poteva neanche negare che la casa avesse bisogno di una spolverata da cima a fondo, ma decisamente non era quella l’ora in cui mettersi a farlo.

Alle sei uscì di nuovo di casa per andare a fare la spesa. Il supermercato non era molto lontano, perciò decise di andarci a piedi. Comprò tutte le cose di prima necessità, tra cui il latte, e alla fine si ritrovò nel reparto dei dolciumi. Vide, poggiate su uno scaffale in basso, alcune confezioni di caramelle Kitsy e, sapendo che a Sherlock piacevano molto, ne prese una senza neanche pensarci. Infine, con il cesto pieno di cibo, si diresse alla cassa a pagare. Per fortuna non era affollata come si era aspettato.

Quando rientrò, Sherlock non era ancora tornato. E il suo cellulare era rimasto silenzioso tutto il tempo.

 

Il detective tornò a casa verso le nove, con un’aria stanca e piuttosto tesa. John lo notò subito ma, seduto sulla sua poltrona a leggere un libro, lasciò che fosse l’altro a incominciare. Sherlock si buttò sulla poltrona che occupava sempre, col cappotto ancora adesso, e poggiò la testa sullo schienale dietro, chiudendo gli occhi.

“Dove sei stato?” gli chiese a quel punto il dottore, rendendosi conto che il suo amico non avrebbe affatto aperto bocca.

“Da Mycroft”.

Ahia.

“Per un caso?”

“Sì”.

Sherlock non era di molte parole quella sera e ciò non prospettava nulla di buono. Di solito non avrebbe esitato un attimo a raccontargli ogni minimo dettaglio del caso su cui stava lavorando.

“Interessante?”

“Potrebbe essere”.

Il moro, che per tutto quel tempo se ne era rimasto con gli occhi chiuso e il viso rivolto al soffitto, raddrizzò il capo per guardare John in viso e parve rimanere un attimo a studiarne i lineamenti. Il dottore cercò di pensare velocemente a qualcos’altro da chiedere o da dire, senza rischiare di far innervosire l’altro, ma il trillo del campanello della porta e il rumore dei passi della signora Hudson lo distrassero.

Sentì delle voci provenire dal piano di sotto e poi altri passi che si avvicinavano. L’anziana proprietaria del 221 B aprì di nuovo la porta del loro appartamento.

“C’è una persona che chiede di Sherlock”.

John si alzò immediatamente dalla poltrona per accogliere la nuova ospite, sicuro che fosse una cliente.
Gli apparve davanti agli occhi una donna abbastanza giovane, avvolta in un lungo cappotto blu scuro e un borsone a tracolla poggiato sulla spalla destra. Il volto pallido e gli occhi verde acqua esprimevano tutta la sua stanchezza.

Un momento!, pensò John. Quegli occhi erano identici a…

“Connie?!” Sherlock, dietro di lui, scattò in piedi e guardò la ragazza come se non potesse credere ai propri occhi. E probabilmente era così.

Lei allora increspò le labbra in un sorriso debole ma contento. “Ciao, fratellino”.

 

 

MILLY’S SPACE

Ed eccomi qui a devastare anche questo fandom. Milly docet.

Ok, l’ora è tarda perciò cercherò di essere breve altrimenti comincerò a sparare minchiate a raffica. Non è la prima fanfiction che pubblico e chi mi segue lo sa bene, ma è la prima fanfiction su Sherlock e devo confessare che non è da tanto che lo seguo, ma già lo adoro. Ammetto anche che mi ero promessa di non scrivere mai una fanfiction su questo telefilm perché il personaggio di Sherlock è difficile da rendere e non volevo rovinarlo. Tuttavia, mi è venuta l’idea per questa storia leggendo un’altra fanfiction e non ho potuto fare a meno di scriverla, così come non ho potuto fare a meno di pubblicarla (nonostante io abbia altre quattro fanfiction ancora da concludere).

Cos’altro devo aggiungere? Be’, è decisamente una Johnlock. Per quanto io ami Mary non posso fare a meno di shippare questi due personaggi e li vedo perfettamente bene insieme. Perfettamente bene? Mah.
Non so con quanta regolarità riuscirò ad aggiornare, considerando anche i diversi impegni che ho, ma cercherò di essere abbastanza regolare.

Detto questo direi che posso salutarvi : ) vi segnalo la mia pagina facebook dove potete vedere anche le altre storie che ho in cantiere (https://www.facebook.com/MillysSpace) e lasciatemi anche una recensione. Va bene anche se negativa.

Un bacione,
Milly.

P.S. il titolo è ispirato a una canzone dei The Cranberrie che adoro però è probabile che in seguito decida di cambiarlo.
  
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