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Autore: _haribooinlove    27/01/2014    12 recensioni
Fissò il confine del campo e cercò di trovare un punto in cui le luci non illuminavano, poi mi porse la mano.
-pronta per la cosa più assurda della tua vita?-
-prendere la mano di un tedesco?- ipotizzai, seccata.
-mi correggo: la seconda cosa più assurda della tua vita-
Sospirai e poi annuii –poco, ma pronta-
[in ricorrenza della giornata della memoria]
Genere: Drammatico, Malinconico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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                          Per non dimenticare

 A tutte le vittime della shoah.



Gennaio 1944
 
Mi accomodai sul divano del salotto, sistemando le pieghe della gonna e sorridendo forzatamente alla mia insegnante privata, che mi guardava fermamente.
Da due anni ormai noi ebrei non potevamo più presentarci nella stessa scuola dei ragazzi di “razza pura”, non potevamo più sederci sulle loro stesse panchine nei parchi pubblici, non potevamo più mangiare nei loro stessi ristoranti. Venivamo denigrati, maltrattati, uccisi. Per gli ariani non eravamo umani, per loro non eravamo niente.
Yael, la donna seduta al mio fianco con un volume di storia tra le mani, iniziò a parlarmi di fatti già avvenuti, persone già morte e guerre già cessate. Fatti, persone e guerre di cui io ormai non avevo più intenzione di impararne una sola lettera.
Sono sempre stata una ragazza studiosa, ma la mia curiosità stava scemando sempre di più. Ho paura, ho paura che la mia vita cessi a soli diciotto anni. Molti ebrei sono morti, e molti ne moriranno. I tedeschi ci sequestrano beni, ci tolgono il lavoro, la casa, ci tolgono la dignità e per finire la vita.
Mia madre ha architettato più di una volta una fuga da Berlino, ma ormai non vale la pena nemmeno provare a scappare. Londra, la sua meta, è troppo lontana ed è fin troppo pericoloso provare ad arrivarci.
-Tamar, mi stai ascoltando?- sbottò Yael, richiudendo il libro impazientemente e dandomi un colpetto sul braccio con la sua penna.
-no signora Yael, mi dispiace ma non la sto ascoltando affatto- ammisi, profondamente incurante delle conseguenze delle mie parole.
-e a cosa stai pensando allora, signorina?- domandò la donna, curiosa di sapere dove stava vagando la mia mente.
 -pensavo ai tedeschi, ai tedeschi e agli ebrei- sospirai –in verità ho molta paura signora, paura per me e per la mia famiglia-
D’un tratto si fece molto cupa, quello era l’unico discorso capace di abbuiarla –tutti abbiamo paura-
Mia madre entrò in salotto con il suo solito grembiule da cucina e col suo sorriso che ammiravo tanto. E’ l’unica donna che, anche in una situazione come questa, riusciva a far uscire la sua fossetta sulla guancia.
-come va lo studio, amore?- chiese, sedendosi al nostro fianco.
-la signorina Tamar pensa a cose molto più serie dello studio- sospirò Yael, conservando le sue cose nella sua borsa e alzandosi –ci vediamo domani, vi auguro una buona giornata-
Fece per aprire la porta, ma qualcuno la sfondò, facendola rotolare a terra.
Due uomini armati fecero irruzione in casa nostra. I loro fucili erano puntati verso le nostre teste, ci costrinsero ad alzare le mani.
Sperai con tutta me stessa che fossero ladri, ma sapevo bene che i miei desideri non si sarebbero mai avverati. Erano soldati tedeschi.
-Sarah, vieni qui piccola- mamma strinse tra le braccia la mia piccola sorellina e mi fece avvicinare.
-signora, metta giù la bambina. Adesso- tuonò un ragazzo alto e muscoloso, con gli zigomi scolpiti e lo sguardo crudele.
Mia madre cautamente posò a terra Sarah, tenendola comunque per mano.
L’altro soldato, identico al primo sopra descritto, mi prese per la maglietta e, tenendomi una pistola puntata sulla tempia, mi spinse fuori la porta. L’altro fece lo stesso con mia madre, mia sorella e la signora Yeal.
Iniziai a piangere e singhiozzare. Com’è possibile che ci siano uomini così brutali, senza cuore?
Ci fecero uscire di casa e ci spinsero in mezzo alla strada. La via era affollata, soldati entravano nelle case dei vari ebrei ed uscivano con qualche povera anima pia tra le braccia, intimando e minacciando.                                                                                                                                                   
Ci spinsero in un furgone microscopico, chiusero gli sportelli e poi non vidi più niente. Le urla delle donne e dei bambini mi facevano rabbrividire. Sudavo freddo.
Tenevo tra le braccia mia sorella Sarah, tentando di riscaldarla e di non farla preoccupare.
-mamma, dove ci portano?- sussurrai con voce rotta. Mia madre sembrava come paralizzata, incapace di fare nulla oltre che tremare e piangere.
-non lo so tesoro mio, non lo so-
 
Cinque ore dopo il furgone si fermò e gli occhi mi bruciarono quando rividi la luce.
Degli uomini armati controllavano se nel vagone era rimasto qualcuno e toglievano di mezzo le persone morte durante il tragitto. Dai corpi inerti, ammassati sul suolo umido, proveniva un’incredibile puzza.
Riconobbi il viso, ormai spendo, di Yeal e mi si fermò il respiro. Mamma seguì il mio sguardo e quando vide la mia insegnante rannicchiata a terra cacciò un urlo, il primo vero segnale che le cose andavano male.
Nessuno la considerò molto, abbracciai subito Edna, mia madre, per cercare di calmarla. Aveva il viso sfigurato, sporco di fango e lacrime, e, cosa peggiore, non vedevo nessuna fossetta sulla sua guancia.
-mamma- ansimai, prendendole il viso tra le mani –m-mamma, va tutto bene-
Annuì compulsivamente e mi abbracciò. Assaporai la sua essenza e cercai di non sciogliere l’abbraccio, però poi la folla iniziò a muoversi e dovemmo camminare.
Davanti a me si estendeva l’ambiente più sporco, ostile, pauroso e scuro che abbia mai visto. Un muro di filo spinato divideva un edificio con terreni dal resto del luogo. All’entrata di questi cancelli c’era scritto “il lavoro rende liberi”. Ho sentito parlare di questi posti, era un campo di concentramento.                                               
 Un uomo cercò di scappare ma si sentì un botto e poi delle urla, urla provenienti dalle labbra della moglie. L’uomo era stato fucilato da un soldato.
-qualcun altro vuole ribellarsi?!- intimò quest’ultimo, tenendo dritto il fucile.
Oltrepassammo il cancello e voltai lo sguardo verso il paesaggio, sapendo che sarebbe stata l’ultima volta che l’avrei visto.
 

 
Febbraio 1944
Era passato un mese.
Un mese di quella che fu la mia tortura, la ragione delle mie lacrime, del mio dolore.
Migliaia di ebrei lavoravano ogni giorno senza sosta, venivano torturati ed uccisi. Entravano nelle docce e non ne uscivano più. Sulla fredda neve si depositava la cenere dei loro corpi bruciati nei forni crematori. Venivamo uccisi, ma non diminuivamo mai. Carovane cariche di persone entravano nei cancelli di questo lager, un posto orribile, perfino per sopravvivere.
La sveglia era dura la mattina, la baracca dove dormivamo era sudicia e puzzava, puzzava tremendamente. Eravamo tutte donne, donne piangenti, squarciate, urlanti, donne che avevano assistito alla morte dei propri figli-troppo piccoli e deboli per sopportare tutto questo-e dei loro mariti.
Aprii lentamente gli occhi, quando mia mamma, ridotta a una pezza, mi scosse leggermente per farmi svegliare.
-dov’è tua sorella?- chiese poi, con voce spezzata.
Sarah aveva solo sette anni, era terrorizzata da quello che vedeva. Odio ammetterlo, ma è un miracolo che non stiamo ancora piangendo la sua morte.
La settimana scorsa due soldati avevano portato tutti i bambini nelle camere a gas, fortunatamente riuscimmo a nascondere Sarah, ma non sapevamo per quanto tempo ancora saremmo riuscite a tenerla lontana della fine, anche perché era anche la nostra, di fine.                                                                                                                                                                             
 Strofinai il viso con le mani e mi alzai dalla panca sulla quale dormivo.
Le esili gambe di mamma tremavano ad ogni passo, come le mie, come quelle di tutte gli ebrei.
In un mese siamo dimagrite tremendamente, mangiamo un pezzo di pane al giorno. Molte volte sacrifico la mia misera porzione per mamma e Sarah, sono troppo disidratate.
Uscimmo al freddo e al gelo, come ogni mattina, a fare l’appello.
Sì, quei malviventi dei tedeschi ci contavano e ogni dieci persone ne uccidevano uno. Ogni mattina penso che questo può essere l’ultimo giorno della mia vita. Chissà come dev’essere morire, chiudere gli occhi e non sentire più niente, non sentire e non vedere più questa tortura.
Una quindicina di perfetti ariani-pelle pallida, occhi chiari e capelli biondi- ci misero in fila e iniziarono a contare.
Uno. Potrei morire.
Due. Sarebbe meglio morire.
Tre. Non posso lasciare la mia famiglia.
Quattro. Posso essere io.
Cinque. Voglio chiudere gli occhi.
Sei. Perché non coronare questa vita con la morte?
Sette. Ci siamo quasi.
Otto. Battiti accelerati, pupille dilatate.
Nove. Sono io.
Dieci…
Voltai lo sguardo in preda al panico. Sarah.
-no!- Sgolai, abbracciandola –per favore, non fartele del male!-
Tra me e il soldato s’interpose mia madre piangente –prendete me! Per favore, non toccate le mie figlie, PRENDETE ME!-
Si mise in ginocchio, pianse e cadde a terra.                                                                                        
Un uomo si avvicinò a me e mi puntò il fucile al cuore, ma un suo compare lo fermò posandogli una mano sul petto.
Un ragazzo alto, occhi di ghiaccio…ma, ma aveva un pizzico di diversità.
-non lei- esclamò.
-ma Elmar…- borbottò l’altro.
-sono il tuo maggiore, Gregor, decido io. Ho detto: non lei-
Un altro sguardo attento e penetrante, poi mi mormorò qualcosa all’orecchio.
-vedi di stare zitta la prossima volta- si allontanò e due uomini mi afferrarono per allontanarmi da mia madre.
Non volevano più uccidere Sarah, volevano uccidere lei.
-NOOOOOOO!- cercavo di dimenarmi dalla morsa di quei due uomini, ma non ci fu verso di liberarmi dalle loro mani legate alle mie braccia –MAMMAAAAA!-
Un colpo sordo. Corsi verso di lei e le posai la mano sul fianco, dove l’avevano colpita.
-m-mamma, mamma ti prego, per favore resisti- ansimai piangente.
Mamma mi guardò con occhi semichiusi e mi sorrise debolmente –salvati tesoro, salvati e porta via tua sorella- queste furono le sue ultime parole. Chiuse gli occhi.
Mi ha lasciato, è andata via e non tornerà più, mai più.
Urlai e mi accasciai su di lei, abbracciandola e accarezzandole i capelli bagnati. La macchiai di sangue, il suo stesso sangue.
-mamma, non andare via…- sussurrai, tra le lacrime.
Si avvicinò Sarah, completamente paralizzata.
-Sarah, vieni qui- la strinsi tra le mie braccia.
Rimanemmo lì, sulla neve macchiata di sangue e tanto, tanto dolore. Poi dei soldati buttarono il corpo di madre in una fossa comune, fu l’ultima volta che vidi quei capelli, quelle labbra, quel volto. Quella fu l’ultima volta che la vidi.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                  


Aprile 1944
 
Afferrai la mia porzione di pane e la spezzai, per consentire a Sarah di mangiare qualcosa di più.
Ci avventammo sul nostro pasto, fulminandolo in pochi secondi. La fame ci mangiava, eravamo degli scheletri. Il viso incavato, le braccia e le gambe sottilissime.
-come stai?- chiesi a Sarah, che stava giocando con le sue stesse sottili dita.
Ignorò del tutto la mia insulsa domanda, come può stare se non male? –Tamar, riusciremo a sopravvivere?-
Mi veniva da piangere, ma non lo feci. Non volevo sembrare così realmente distrutta –c-certo, tutto questo finirà presto-
Nella baracca entrò lo stesso uomo che, due mesi fa, uccise mia madre. Guardava tutte noi con sguardo introspettivo e quasi divertito, poi si accorse di Sarah e lì il mondo mi precipitò addosso.
Le strinsi la mano e quando il ragazzo vide il mio viso preoccupato sorrise maligno.
-bene bene, ti vedo un po’ sporca- disse a Sarah quasi in tono gentile –la vuoi fare una bella doccia?-
Mia sorella, incantata da quelle parole, annuì. No, non potevo lasciarla nelle viscide mani di quell’uomo.
-lei non va da nessuna parte- dissi in tono fermo. Qualche secondo dopo sentii il naso sanguinare.
Quel bastardo mi tirò uno schiaffo talmente forte da farmi voltare il capo. Sputai un po’ di sangue e lo guardai truce.
Basta, ero stanca. Stanca di tutto, stanca di loro. Quindi feci una cosa di cui me ne pentii amaramente. Lo sputai, lo sputai in faccia.
-come ti sei permessa? Lurida bastarda!- mi strinse una mano al collo, facendomi mancare l’aria. Rividi la mia vita passare davanti ai miei occhi in pochi secondi, poi pensai che quella sarebbe stata davvero la fine.                                                                                                                                                                                               
-Gregor, lasciala stare!- tuonò una voce grezza e determinata, proprio davanti a me. Non riuscivo a vedere chi era, finché Gregor non mi mollò, lasciandomi respirare. Mi piegai in due, massaggiando il collo e inspirando sostanziose boccate d’aria.
-ma che ti prende Elmar? E’ una schifosa ebrea, ha osato sputarmi in faccia-
Elmar, era quello il suo nome. Lo stesso ragazzo che mi aveva salvato la vita due mesi fa. Sembra strano, ma non dimenticai mai i suoi occhi che, all’apparenza, sembravano uguali a quelli di tutti i tedeschi, ma che mi hanno guardata come se non fossi un’ebrea, ma come se fossi solo io, solo Tamar.
Non sapeva come giustificarsi, così rimase avvolto in un freddo silenzio. Era come se si fosse pentito di aver detto quello che aveva detto. Ma io sapevo, o per lo meno lo speravo, che fosse diverso.
Fu tremendamente palese che Gregor prese per capelli mia sorella e la buttò sulla neve fredda, anche solo prima che la mia mente riuscì ad elaborare un urlo.
Questa volta vidi. Vidi la scena, vidi la faccia di mia sorella e quella di Gregor. Dopo che la sparò ci sputò sopra e poi scosse il suo corpo con il piede, per accertarsi che fosse morta.
Cercai di correre verso di lei, ma il ragazzo di nome Elmar mi fermò, avvolgendomi nelle sue corpulente e muscolose braccia, allenate per uccidere, non per abbracciare. Già, il suo non era un modo per tenermi lontana da Sarah, lui mi abbracciò ed io, stranamente, ricambiai. Forse anche troppo distrutta per reagire.
-come ha potuto?- singhiozzai, con la testa pressata nell’incavo del suo collo –è un mostro-
Però poi ricordai. Ricordai che anche Elmar aveva ucciso ebrei, che anche lui era contro di noi, così mi staccai e feci qualche passo indietro.
-siete dei mostri! Degli assassini! Dovreste vergognarvi! Chiamate noi degenerati, voi non siete nemmeno essere umani! Come potete uccidere così tanti innocenti?!- sgolai, con la poca voce che mi rimaneva. La usai tutta, per oppormi a quello che, gli ebrei, sopportano e sopporteranno per chissà per quanto tempo. Mi uccideranno? Non importa, non ho più nessuna ragione per rimanere in vita, se questa si può chiamare tale. Mi ricorderanno per il mio coraggio, per la mia forza di urlare e diranno che ho sputato in faccia ad un tedesco.
Tutti i presenti si girarono a guardarmi, stupefatti. Elmar osservò prima loro e subito dopo me, infuriato.
Mi prese per il polso e mi trascinò dietro la baracca. Mi pressò le mani sulle spalle, facendomi toccare la parete di legno, tempestata di chiodi.
-ma cosa ti salta in testa? Sei fortunata che Gregor se n’è andato, ti avrebbe fucilata al momento!- sbottò, guardandomi negli occhi. Non capivo cosa stava succedendo.
-perché non lo fai tu?- sussurrai, con le lacrime che premevano per uscire –uccidimi, tanto è questo il tuo mestiere. E’ questa la tua cultura-
-no, non lo è- ribatté infastidito –voglio aiutarti-
Le mie labbra presero quasi la forma di un sorriso. –aiutarmi- ripetei –non si è mai visto un tedesco che aiuta un’ebrea-
-beh, allora sarà uno scoop-
Mi asciugai la guancia destra e cercai di mantenere l’equilibrio, staccandomi dal muro –cosa vuoi da me?- domandai.
-farti fuggire dalla morte sicura- rispose, volgendo lo sguardo oltre il filo spinato, pronto ad uccidere, anch’esso, qualche ebreo in pazzia che aveva la vaga idea di oltrepassarlo.
Mi vennero in mente tante cose da dire, ma risposi con un’altra, semplice domanda –perché?-
-ho sempre pensato che gli ebrei avessero dei bellissimi occhi- mormorò, accarezzando la guancia bagnata.
Al tocco delle sue fredde dita rabbrividii, ma non mi tirai indietro.
-qual è il tuo nome?- pronunciò.
-Tamar…- balbettai, guardandolo negli occhi.
Non posso crederci. Ho veramente toccato il fondo, sono finita dritta nella sua trappola.
-bene Tamar, questo è il tuo ultimo giorno ad Aushwitz-              
 
Ore 23:53
 
Sbattei le palpebre leggermente e mi alzai da terra senza fare rumore. Sospirai e m’incamminai verso l’uscita del capanno.
Elmar mi avrebbe aspettato fuori. Lo vidi, con le spalle verso il muro e la testa chinata sul punto esatto in cui la neve era rossa. Sarah è morta lì.
-ciao- sussurrai, per non svegliare gli altri.
-tua sorella e tua madre non saranno morte invano- borbottò a denti stretti, facendomi segno di seguirlo.
Camminammo per un breve tratto, per poi arrivare dietro i cancelli di Aushwitz.
Le luci di controllo tappezzavano tutto il territorio, quindi fummo costretti a nasconderci dietro ad una capanna.
-non ce la faremo mai ad oltrepassarlo...- sussurrai.
Non mi rispose, si guardava intorno in cerca di un lampo di genio, che mi avrebbe salvato la pelle, e forse anche la sua.
Il punto è che non riesco proprio a capire il motivo di questo suo gesto così spavaldo e, a quanto mi risulta, spontaneo. Totalmente inadeguato a tutto questo. Al razzismo, ad Aushwitz, all’astio dei tedeschi rispetto agli ebrei.
-un momento…- si toccò la tasca della giacca, spostando la cinghia del fucile –io ho le chiavi-
-le luci non si spengono da sole!- osservai.
Fissò il confine del campo e cercò di trovare un punto in cui le luci non illuminavano, poi mi porse la mano.
-pronta per la cosa più assurda della tua vita?-
-prendere la mano di un tedesco?- ipotizzai, seccata.
-mi correggo: la seconda cosa più assurda della tua vita-
Sospirai e poi annuii –poco, ma pronta-
Intrecciai le mie dita alle sue e corremmo, cercando di sfuggire alle luci. Sembrava quasi tutto perfetto. Una fuga impossibile da pensare, ma fattibile da compiere. Un soldato tedesco che tende la mano a una deportata ebrea, la aiuta ad uscire da Aushwitz. Ad immaginarlo sembra impossibile, vero?
Raggiungemmo i cancelli di ferro, sui quali la neve aveva attecchito.
Elmar maneggiò con le chiavi, inserendone una nella grande serratura, per poi levarla, imprecare e fare lo stesso procedimento con un’altra.
Avvicinai la mano al tessuto della sua giacca, stringendo la presa quando una luce a occhio di bue mi accecò.
-FUGGITIVI!- urlò un uomo, su una torretta di controllo.
Una pattuglia di uomini armati corse verso di noi. Elmar sfoderò il suo fucile e mi fece mettere dietro di lui.
I soldati si guardarono perplessi e sussurrarono il suo nome, poi il generale si fece avanti e ci guardò inorriditi.
-Elmar?- chiese, quasi a se stesso, con un punto interrogativo in viso –che stai facendo con quell’ebrea?-
-quello che non fate voi con tutti gli ebrei che ci sono qui! La aiuto, la aiuto a continuare a vivere-
Il generale rise fragorosamente. Dalle sue labbra uscì una nuvoletta di vapore, evidente effetto del gelo che c’era quella notte, d’altronde come tutte le altre.
-uccideteli!- disse poi, quasi palese. Chissà quante volte aveva pronunciato quella parola, senza provare nemmeno un briciolo di rimorso.
Elmar mi spinse via, proprio quando un proiettile minacciava di entrarmi nel petto. Corremmo, nascondendoci dietro gli abitacoli di legno. Elmar sparò qualche colpo, ferendo parecchi uomini. Ma cinquanta contro due non è promettente.
Trovammo una cava sotto la neve sporca di cenere, segno che qualche altro ebreo aveva cercato di fuggire dal suo destino, creando una via di fuga.
-qui sotto!- sussurrò. Scavai un po’ più a fondo, gelandomi le mani e bagnandomi i vestiti, e riuscii a sorpassare il filo spinato.
Mi procurai qualche taglio sul fianco, ma non ci feci nemmeno caso.
-vieni, Elmar. Se resti qui ti uccideranno- esclamai. Dopo quello che aveva fatto per me non osavo nemmeno pensare di andare via senza di lui.
-va’ tu, salvati. E non dimenticare che ti raggiungerò- Prese la mia mano e la strinse forte la sua, il contatto durò solo qualche secondo. Questa volta però non riuscii a trattenere le lacrime, che si fecero sentire. Non pensavo di averne così tante.
-Elmar, non ti lascio qui!-
Fece per dire qualcosa, ma poi arrivarono due militari che gli puntarono i fucili contro.
-ELMAR!- sgolai. Lo sentii contrarsi e poi la sua mano divenne flebile. Lo guardai in viso, i suoi occhi erano ancora rivolti verso di me. Gli passai la mano sulla guancia e gli calai le palpebre.
 

Aveva detto che mi avrebbe raggiunto, ma lo feci prima io.

 
27.01.2014
L'odio razziale può uccidere, ma l'amore che salva non conosce razza.
Oggi ricorre il sessantanovesimo giorno della memoria ed io ho scritto questa oneshot per dare il mio contributo, in omaggio a tutte quelle persone che hanno perso la vita per mano dei nazisti.
Il tempo non può guarire questa ferita, e per questo che non bisogna dimenticare. 

 
   
 
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