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Autore: ehytherejay    27/01/2014    2 recensioni
John era un onesto cittadino e una brava persona e mai avrebbe ficcato il naso nei messaggi di qualcuno che non conosceva, soprattutto se quel qualcuno era deceduto da poco meno di un anno e sembrava aver avuto a che fare con organizzazioni terroristiche, ma non poté trattenersi dal leggere quelle lettere bianche, in ordine, a formare una singola domanda che gli provocò una strana sensazione in fondo allo stomaco.
“Afghanistan o Iraq?”
Genere: Mistero, Sovrannaturale, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Jim Moriarty, John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes, Sig.ra Hudson
Note: Cross-over, What if? | Avvertimenti: Violenza
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Eulogy for Sherlock Holmes;

John Watson non aveva una pensione esuberante. Non aveva una pensione neanche minimamente considerabile, non era abbastanza per avere un appartamento decente a Londra e ne aveva avuto la conferma quando aveva dovuto occupare la brandina polverosa a Cardiff tirata fuori per l’occasione dalla sorella alcolista con cui, come sappiamo, non aveva un rapporto piacevole.

Reduce dalla guerra Afghana, il dottor John Watson, quinto reggimento Northumberland, veterano degli ospedali di Kandahar, Helmand, e Barth’s, aveva combattuto per ben tre anni in Afghanistan come soldato e come medico per poi venir congedato dopo un tragico colpo alla spalla, il quale gli aveva inoltre provocato una zoppia da stress post-traumatico (psicosomatica, a detta della sua psicoterapeuta, Ella) e un tremore intermittente alla mano sinistra. Sotto consiglio del suddetto medico, il dottor Watson teneva conto di ciò che gli accadeva nella vita di tutti i giorni su un blog. Vuoto, però, privo di qualsivoglia accadimento di un minimo interesse. La vita di John Watson non era interessante.

Dopo soli cinque giorni di convivenza con la sorella, non riusciva più a rimanere solo cinque minuti con la parente; di conseguenza l’unica soluzione ad una crisi nervosa che sembrava già alquanto imminente, John decise, un lunedì mattina, di prendere un treno per Londra, alla ricerca di un lavoro che gli desse un reddito abbastanza alto per poter prendere un appartamento di un metro quadrato, almeno.

Il lavoro l’aveva trovato senza neanche troppo impegno. La paga gli avrebbe permesso di affittare un appartamento londinese non proprio al centro, ma per lui sarebbe stato più che soddisfacente. Avrebbe preferito, ovviamente, poter condividere l’affitto con un coinquilino, per poter godere della vicinanza alla sede lavorativa, ma chi avrebbe mai voluto lui, John Watson, come coinquilino? Sta di fatto che era riuscito a recuperare lavoro in un ambulatorio, un normale ambulatorio, con dottori normali, pazienti normali e scrivanie normali. Aveva ipotizzato di spendere più ore nella ricerca di un lavoro, quindi, quel normale lunedì mattina, si ritrovò a passeggiare per uno dei tanti parchi inglesi sparsi per Londra, immerso nei suoi pensieri, a sua volta concentrati sulla sua gamba zoppicante. Inaspettatamente, il suo nome e cognome gli arrivò alle orecchie con una voce che aveva sentito già da qualche parte e, voltandosi, appurò di riuscire a riconoscere anche il viso della persona che lo aveva chiamato. Con una stretta di mano, riconobbe il pasciuto collega con cui aveva condiviso gli anni di studi al Barth’s Hospital, uno dei più vecchi che si trovavano a Londra.

Dopo una sciocca domanda sulla sua condizione di soldato, per scusarsi, Mike Stamford, così gli aveva ricordato l’uomo, gli offrì un caffè che John non ebbe il cuore di rifiutare. Seduti sulla panchina in precedenza occupata da Mike, mantenere una conversazione stava diventando alquanto pesante. Dopo minuti interminabili di silenzio, dove l’unica cosa che John poteva fare per non perdersi nei meandri dei suoi ricordi era far finta di sorseggiare quel caffè, Mike ruppe il ghiaccio con un «Come mai da queste parti?» chiesto quasi con ansia nella voce.
John esitò per qualche secondo, stringendo e rilassando la mano destra ritmicamente.
«Ho trovato un lavoro. L’ambulatorio dalle parti del Barth’s. Non mi permetterà di avere certo un appartamento lussuoso e al centro di Londra, ma mi allontanerà quel che basta da Harriet.»
John non odiava Harry, al contrario. Solo che passare troppo tempo con lei era estenuante. Mike annuì apprensivo, mentre John continuava a far vagare lo sguardo tra i diversi fili d’erba del prato di fronte a loro. In un orario così mattiniero, soltanto qualche coppia di anziani e qualche cane col proprio padrone passeggiava per il selciato del parchetto. Il traffico si sentiva pian piano aumentare in lontananza, mentre i lavoratori si affrettavano a scendere nella metro o a entrare in un Taxi per raggiungere il rispettivo ufficio.
«Conosco un posto al centro di Londra, se vuoi. Il prezzo son sicuro può essere alla tua portata.» esordì Mike pensieroso. John aggrottò le sopracciglia e si voltò verso di lui con un’espressione interrogativa.

«Baker Street.»
«Impossibile.» lo interruppe il dottore. «Alla mia portata? A Baker Street
«In realtà… nessuno lo vuole affittare, nonostante sia un appartamento molto delizioso.»
Lo sguardo di Mike si fece triste e pensieroso, e questo a John non sfuggì affatto. Si raddrizzò e posò la schiena sul legno freddo e umido della panchina e guardò l’amico, in attesa di spiegazioni. L’altro sospirò e guardò John con un sorriso nostalgico ad adornargli il volto.
«Conosci un certo Sherlock Holmes?»

Certo che non conosceva alcun Sherlock Holmes, eppure quel nome non gli era sembrato del tutto nuovo. Sulla strada per Baker Street, accanto a Mike, John aveva cercato di ricordare dove esattamente avesse già visto quel nome, eppure la sua mente era vuota, come se tutte le informazioni fossero state spazzate via da una folata di vento freddo. Il suo collega non aveva voluto dirgli altro su quell’appartamento, tantomeno su quel fantomatico Signor Holmes, eppure John aveva deciso di seguirlo in quella scampagnata verso Baker Street, prima di ritornare a far lezione.
«La signora Hudson è la padrona di casa. Vive nel 221 di Baker Street da sola. Cioè, sola da quando Sherlock…» sentiva John borbottare accanto a lui, ma faceva fatica a prestare attenzione, tutto il suo peso spostato sulla gamba sinistra. Soltanto Dio sapeva quanto malediva quella gamba ogni giorno. Mentre guardava la gente passargli accanto, pensava a come sarebbe stato poter uscire di casa e trovarsi davanti al Tamigi.

Perso nei suoi pensieri senza capo né coda, non si accorse che Mike aveva rallentato fino a fermarsi di fronte ad una porta con sopra dei numeri in metallo ridipinto.
«Duecento ventuno di Baker Street, eccoci qua.» aveva letto l’amico.
John strinse i denti e osservò gli altri lati della strada: da una parte si andava verso la fermata della metropolitana, quella che avrebbe preso per andare a lavoro e ci avrebbe impiegato meno tempo del previsto; più avanti il museo delle cere, di cui non aveva ricordo alcuno. Immediatamente sotto l’appartamento c’era un piccolo coffee shop, la cui insegna recitava a caratteri gialli su sfondo rosso “Speedy’s”. Non sarebbe stato male vivere sopra un negozio come quello; già s’immaginava svegliarsi con calma, vestirsi in un’immaginaria stanza da letto del 221B e scendere a fare colazione. Scosse la testa: era lì solo per dare un’occhiata.
O no?

Dalla parte opposta a quella da cui erano venuti, la strada continuava verso Park Road, dove gli alberi del Giardino di Queen Mary’s si allargavano fino ai lati della strada. I taxi passavano anonimamente accanto a loro. Mike attirò la sua attenzione bussando sulla porta con il pesante battente, il quale gli era parso leggermente storto prima che Mike lo sollevasse. Poi, in uno scatto fulmineo, si voltò verso di lui e gli rivolse un sorriso radioso.
«Spero possa trovare la Signora Hudson una persona interessante! Ti lascio qui, mi tocca tornare dai miei studenti.» Allontanandosi gradualmente dallo sguardo confuso di John, Mike gli lanciò un ultimo sorriso prima di salutarlo e dileguarsi tra la folla di persone.

La porta si aprì per mostrare un viso gentile che doveva essere quello della signora Hudson.
«Sì?» aveva mormorato, osservando il dottore curiosa, che nel frattempo aveva ancora l’attenzione posata sul preciso punto in cui l’amico si era volatilizzato. Voltandosi verso la padrona di casa, si era ricomposto, assumendo un perfetto portamento da militare e porgendole la mano.
«Salve, sono il dottor John Watson e sono qui perc…» aveva elencato poi, prima di venire interrotto dalla signora che lo aveva invitato frettolosamente dentro casa.

Si appiattì sul muro e gli permise di varcare la soglia dell’appartamento, dove trovò uno stretto corridoio che si diramava in una scura rampa di scale e una porta, sulla quale delle lettere identiche a quelle appese alla porta d’ingresso erano aggiunte ad una A dello stesso materiale. La signora lo precedette e, con un dolce sorriso, gli fece cenno d’entrare nel 221A.

«Fuori fa davvero freddo, non crede?» disse con voce preoccupata mentre preparava un tè al dottore. «È qui per l’appartamento, vero?» aveva poi sussurrato, il volto girato verso i fornelli. John si sedette incrociando le dita sul tavolo. «Potrei.»

Passarono alcuni minuti di silenzio, interrotti solo dal suono prodotto dalle stoviglie con cui la signora stava preparando il tè. Messa la teiera sul fuoco e le tazze sul vassoio, si sedette di fronte al dottore, sorridendogli bonariamente.
«È davvero coraggioso da parte sua prendere questa decisione.» aveva detto con sguardo malinconico. Il dottore aggrottò le sopracciglia e fissò interrogativo la signora Hudson, attendendo spiegazioni. La donna alzò le sopracciglia e sorrise.
«Non tutti vogliono quell’appartamento da quando Sherlock è morto.»
E John fu colpito dai ricordi: “Sherlock Holmes, detective, morto in un attacco terroristico”, “Holmes, ucciso dal suo lavoro”, “Il consulente detective trovato carbonizzato”, “Sola da quando Sherlock…”.
Da quando Sherlock è morto.
John cercò di non sembrare troppo preso dai ricordi, tenendo lo sguardo fisso sulla signora e annuendo impercettibilmente.
«Sa, in realtà non è la prima persona che ha chiesto per questo appartamento.» aggiunse addentando un biscotto. «Ma penso lei lo sappia.» aggiunse, ignorando totalmente la faccia confusa del dottore. «Mi dicevano sempre “le cose si muovono!”, “c’è un fantasma in casa!”. Tutte baggianate, ho pensato. Fino a quando non l’ho visto con i miei occhi.» John la osservava stranito, le sopracciglia alte e lo sguardo vacuo. «I mobili! Non si sono mossi di un millimetro.»
«E cosa c’entra questo con un fantasma?» chiese scettico il dottore, spallandosi sulla sedia e incrociando le braccia.
«Crede davvero che qualcuno lascerebbe la casa di un morto così com’era prima? Oh no, caro, ne sono successe di cose strane! Pochi giorni fa, ad esempio, l’ultimo richiedente è andato via urlando perché ha detto di aver trovato degli occhi nel microonde! È così strano… ma non posso lasciare quell’appartamento senza affitto, ormai, non più. Ho dimezzato il costo, infatti.»
La teiera cominciò a fischiare e la signora Hudson si alzò per versare il tè. Il dottore continuò a fissare il punto da cui la donna si era appena alzata, immerso nei pensieri vacui.
«Se lei è interessato, sarei felice di farle un miglior prezzo.» disse sorridendo porgendogli la tazza. «Ho il presentimento che lei è la mia unica possibilità di fittare quell’appartamento.»

John la guardò, un’espressione indecifrabile in viso. Prese la tazza accennando ad un sorriso di cortesia e bevve un sorso.
«Le faccio dare un’occhiata?»

L’appartamento era davvero delizioso, pieno di cianfrusaglie che, a detta della padrona di casa, erano tutte appartenute a Sherlock, erano chiuse dentro scatoloni impilati uno sopra l’altro nel salotto. La cucina era polverosa e spoglia, al contrario degli armadietti sopra i ripiani, sulle cui mensole erano stipati ordinatamente contenitori, piastre Petri, e diversi microscopi ma nessuna tazza. Sembrava che prima di lui nessun altro avesse abitato in quell’appartamento. Tutto ciò che non fosse mobili o ripiani era appartenuto a Sherlock. Ignorando il «Oh, cielo, non era così prima!» della signora Hudson, il milite aveva dato uno sguardo in giro. Due stanze da letto — si sarebbe sentito un po’ solo, almeno fino a quando non avesse trovato un coinquilino, ma almeno non aveva da fare troppi gradini per raggiungere il letto. Per un prezzo così basso, doveva ammettere che non era per niente male un appartamento come quello, e si sarebbe trasferito immediatamente, non appena avesse avuto due secondi liberi.
E, in effetti, lo fece: pochi giorni dopo eccolo che si sedeva sulla poltrona del 221B di Baker Street, mentre la signora Hudson gli raccontava della sua vecchia vita romantica con il signor Hudson. Mentre lei elencava le diverse avventure vissute con l’uomo, John si appuntava mentalmente tutti gli oggetti fuori posto che avrebbe rimesso in ordine nel salotto: i libri sparsi sul pavimento, i fogli nascosti sotto il sofà e impilati malamente sul tavolo tra le due finestre, e altri piccoli dettagli che smise di studiare quando la padrona di casa si alzò, interrompendo il flusso di pensieri.
«John, caro, se hai bisogno di qualcosa, qualsiasi cosa, non aver paura di disturbarmi.» e con un sorriso dolce aveva chiuso dietro di sé la porta dell’appartamento. John era rimasto seduto sulla poltrona, a contemplare lo spazio attorno a sé per altri interminabili minuti, fino a quando non aveva deciso di occupare il tempo riordinando i libri sparsi per il pavimento di fronte alle alte finestre.

Erano particolarmente unici: alcuni scientifici, altri di psicologia, non aveva visto neanche un libro di letteratura, ma parecchi erano di chimica. Li aveva spolverati velocemente e riordinati sulla libreria, sullo scaffale più basso, temendo quasi di non avere più spazio per la quantità esorbitante di materiale stampato. Sotto un’intera pila di dizionari di diverse lingue aveva trovato un cellulare, di quelli nuovi e costosi, ma non ci aveva dato molta attenzione, dando per scontato che lo avrebbe dato alla signora Hudson non appena avesse finito lì. La custodia di un violino, nera e lucida ma coperta di polvere, nella quale lo strumento musicale sembrava essere rimasto liscio e pulito, era rimasta intatta incastrata tra le colonne di libri in bilico sul tavolino. John lo tirò fuori dalla custodia, che poggiò piano a terra e alzò lo strumento in alto, osservando il riflesso del legno controluce. Delle impronte digitali erano sparse su tutto il corpo e la tastiera, e, se non fosse stato per quelle, avrebbe giurato che non avrebbe avuto due giorni. Cedendo alla tentazione, posò il violino sulle ginocchia e avvicinò l’indice alla corda del sol, sfiorandola lievemente. Uno spiffero freddo gli sfiorò il collo e John ne fu distratto. Alzò lo sguardo e si guardò intorno. Finestre e porte erano chiuse, ma il freddo non spariva. Poggiò quindi il violino nella sua custodia e si alzò grugnendo, zoppicando fino in cucina per poi capire da dove lo spiffero provenisse. Chiuse la piccola finestra della cucina e poggiò entrambe le mani sui bordi del piano cottura, abbandonando il peso della testa.
Non si sarebbe mai abituato a quella vita.

Il giorno seguente, il dottore andò a lavoro, visitò qualche bimbo con il raffreddore, la tonsillite e qualcun altro con una scheggia di vetro incastrata nel braccio. Non si fermò un momento, visitando un paziente dopo l’altro, prescrivendo antibiotici su antibiotici e sentendo più di venti cuori battere diversamente. Si era fatto così catturare dal lavoro che, quando il suo turno fu effettivamente terminato, si ritrovò deluso e già prossimo al nulla più totale regnante nei suoi pensieri. Aveva rimesso le sue poche cose dentro la valigetta offerta gentilmente dall’ambulatorio, indossato la giacca e salutato la segretaria con così tanta calma che non si stupì quando vide le lancette del suo orologio da polso avanti di più di tre quarti d’ora quando si ritrovò di fronte alla porta del suo nuovo appartamento. Infilata la chiave nella toppa, aveva fatto un cenno di saluto alla signora Hudson e aveva salito i diciassette gradini zoppicando malamente. Dieci minuti dopo era comodamente seduto sul divano con una tazza di tè in una mano e il laptop sulle cosce, sul cui schermo era aperto il suo blog. Aveva scritto alcuni post; inutili. Solo per far felice la sua psicoterapista. Lo osservò per molti minuti prima di rendersi conto che il tè si era freddato. Sospirò e scansò il computer, poggiando la tazza sul tavolino di fronte e alzandosi diretto al bagno, per farsi una doccia calda, ma il suo sguardo fu catturato da qualcos’altro. Il violino, lo stesso violino del giorno precedente, era stato dimenticato sul pavimento. Lo alzò nuovamente, studiandolo attentamente. Allungò l’indice verso la corda del Re e la pizzicò. Un lieve suono scaturì da quel tocco e l’eco rimbombò nella piccola stanza, interrotto solamente da una vibrazione fastidiosa proveniente dal cellulare che John aveva trovato il giorno prima. Aggrottando le sopracciglia, richiuse il violino nella sua custodia, posandola sul tavolino, accanto al cellulare che prese delicatamente. Premette il bottone in basso e una schermata di blocco si accese. C’era l’icona di un nuovo messaggio e l’anteprima al centro dello schermo.

John era un onesto cittadino e una brava persona e mai avrebbe ficcato il naso nei messaggi di qualcuno che non conosceva, soprattutto se quel qualcuno era deceduto da poco meno di un anno e sembrava aver avuto a che fare con organizzazioni terroristiche, ma non poté trattenersi dal leggere quelle lettere bianche, in ordine, a formare una singola domanda che gli provocò una strana sensazione in fondo allo stomaco.

“Afghanistan o Iraq?”

   
 
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