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Autore: brokethefixed    28/01/2014    2 recensioni
Per me, lui, era quello che le colonne, sono per un tempio.
I muri, per la casa.
Ed era anche il pezzo che serviva per completare il puzzle, l’unico che può completarlo.
Era l’anima.
Senza la quale, il corpo è solo materia.
Era il sole.
Che solo vedendolo, rallegra le giornate.
E senza sole, vengono considerate ‘brutte giornate’.
Era l’ossigeno.
Del quale non si può fare a meno.
Era la gioia, ed anche la tristezza, era la notte, ed era il giorno, era l’estate ed era l’inverno.
Era tutto, ed anche di più.
Ma soprattutto era il mio migliore amico.
Quella persona che conoscevo da esattamente 15 anni.
Da quando ci eravamo conosciuti per la prima volta all’asilo.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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{A tutti, perché ognuno di noi ha bisogno di essere felice,
vivendo nella speranza dell’esistenza della gioia.
 
Quindi anche a me,
che scrivendo questo provo a descrivere le emozioni,
eppure è impossibile farlo.
E per ultimo, di nuovo a tutti ma ora insieme a qualcuno,
a tutti i tipi di rapporti e le difficoltà relative.}



 
 
CHER’S POV
 


Non avevo contato le volte che avevo cantato quella canzone. Sapevo solo che dopo due o tre volte avevo cominciato a cambiare alcune parole, o ad aggiungere delle frasi. Alla fine avevo cambiato tutto, l’unica cosa che restava immutata erano le parole: ‘Now i wish you were here’.
In effetti, tutto era cambiato, anche io stessa, ma volevo sempre che Harry fosse lì con me. Lo avevo sempre voluto, anche quando a separarci erano solo pochi chilometri tra le nostre due case, una nel centro di Londra, l’altra nella periferia.
Quella canzone ora parlava di me. Di noi. Di me e Harry, anzi, perché il ‘noi’ non aveva più senso. Adesso le nostre vite si erano separate, adesso andavano in due direzioni diverse, opposte.
 La mia voce si era fermata.  
Qualcuno stava camminando nella mia direzione. Una sagoma lontana, sfocata, l’unica cosa che distinguevo era il nero della stoffa dei vestiti.
Scattai in piedi, ma qualcosa nella mia mente mi impedì di andarmene e mi fece sedere di nuovo.
Accavallai le gambe, sulla destra, posta sopra, avevo poggiato la stessa mano. Tenevo il palmo fermo, le dita che si alzavano e si abbassavano freneticamente; il cuore che pulsava alla stessa velocità.
La sagoma in lontananza si era avvicinata di qualche passo, la nitidezza non era maggiore. Ora si era fermata, e guardava verso di me.  
Ero sicura stesse guardando me, difficilmente avrebbe potuto provare interesse in altro. E così, trovavo difficoltà a provare pure io l’interesse in qualcos’altro, che non fosse quello sconosciuto. Non volevo abbassare lo sguardo, altrimenti sarei stata al gioco e avrei avuto quegli occhi estranei ancora addosso.
Guardai nuovamente la foglia, una proiezione di me stessa.
 Ma adesso sull’albero non stava più, adesso giaceva a terra.
Sentii che anche il mio momento sarebbe arrivato presto, e avevo il presentimento che sarebbe stato in quella giornata. Quanto avrei avuto ancora?
Purtroppo, avvertivo anche che sarebbe stato molto presto.
Non sarebbe mancato molto.
Di solito mi ponevo domande di questo tipo, e dentro di me sentivo come una voce che mi suggeriva le risposte.  Forse perché dentro di noi abbiamo tutte le risposte necessarie a tutto quello che vogliamo sapere, e ovviamente, nessuno le cerca. Nessuno si spinge fino in profondità negli abissi di sé stesso, con la possibilità magari di trovare uno scrigno contenente qualcosa di bello, di nascosto. Qualcosa che non abbiamo, e siamo entusiasti di trovare. Io avevo paura a scavare dentro di me, avevo paura di quello che avrei potuto trovare. Anche se ero sicura che ai fondali non sarei arrivata, e che non ci sarebbe stato nessuno scrigno; quando mi immergevo dentro me stessa, rimanevo a galla in superficie, e mentre cercavo di andare sotto, invece nuotavo in un’altra direzione. Non ci sarebbe stato nessuno scrigno, solo alghe in superficie, alghe alle quali continuavo ad aggrapparmi, che si strappavano. E allora ne afferravo un’altra, e così via.
Dopo pochi minuti, la sagoma stava avanzando di nuovo. Ora appariva più chiara. Gambe magre dentro dei pantaloni neri stretti, cappotto nero lungo fin sopra il ginocchio.
Adesso non avevo più la concentrazione per pensare a me stessa, solo colui o colei che stava avanzando mi occupava i pensieri.
Non avevo paura, né ero curiosa. Ero una via di mezzo. Di nuovo.
 ‘Ora anche uno sconosciuto deve venire a disturbarmi. È così impossibile stare da sola?’
Pensare a quella frase, mi sorse quasi innaturale. Non era la verità, ma la realtà.
Non sono la stessa cosa, a differenza di quello che molti credono. La verità è ciò che è vero, ciò che non si può modificare, né camuffare. La realtà invece si. Puoi mascherare uno stato d’animo, agli occhi degli altri potrà apparire come realtà, anche se non sarà una realtà ‘vera’. C’è una realtà vera, e una finta. La verità, in quel momento, era che ero infastidita da quello sconosciuto, che volevo rimanere sola. Ma la realtà era il contrario, era che io non volevo essere sola.
 La finta realtà era stata creata con lo scopo di trovare una spiegazione, per classificare. Di solito tendiamo come a attaccare delle etichette su ogni cosa. Lo facciamo anche con le emozioni. Le identifichiamo in: ‘gioia’, ‘tristezza’ ,‘rabbia’, ‘noia’, ‘stanchezza’,.. Su queste etichette, spesso scriviamo cosa ci balza prima alla mente, e mai andiamo oltre per scavare più nel profondo e coglierne gli altri aspetti, le altre tonalità, e accettare questi, malgrado siano differenti parzialmente o totalmente da quelle iniziali. Oppure generalizziamo. In questo caso sappiamo l’esistenza di altre sfaccettature, ma cogliamo sempre quelle che ci arrivano prima alla mente, quelle che ci appaiono in maggior quantità. Che ci appaiono, non che sono. Ci fermiamo all’apparenza. Ci basiamo su pregiudizi. Non andiamo nel profondo nemmeno così. Possiamo anche generalizzare cogliendone solo alcuni, non è una ricerca del tutto finita, ma è più approfondita della precedente. Scegliamo in base a un criterio, ad esempio cosa secondo noi è più interessante. Per riferirmi a ciò, non utilizzavo mai il verbo apparire, perché in quel caso ognuno esprimeva il suo punto di vista. Per esempio, una pietra, maggiormente nera, e con sfumature di altri colori non definibili, per qualcuno poteva essere ‘nera, viola, verde’, per qualcun altro ‘nera, blu, rosa, gialla’. C’è la possibilità anche di ignorare quello presente in maggiore quantità, di ignorare le cose più palesi, in quel caso sarà: ‘viola, verde, rosa, giallo, blu’.
Mischiando il blu e il giallo si ottiene il verde, così avviene anche con le emozioni, che unite possono ottenere un’altra. Qualcuno non vede il risultato finale, e vede le due parti iniziali, altri il contrario.
Alcune volte, ma rare, è una comodità.  Per quanto riguardava me, era un tentativo di provare a comprenderci nel caso in cui non riusciamo a comprendere niente o ben poco di noi stessi, siamo confusi; in altri casi -a me ben noti, ma non passati sulla mia pelle- è per non farsi troppi rigiri, ‘non pensare troppo’.
Forse siamo tutti confusi, chi più, chi meno, proprio per la complessità delle emozioni. È sempre una questione di soffermarsi o no, di evitare o di notare.
Dettagli sempre più visibili, notai che portava una sciarpa verde.
Il mio corpo non ne voleva ancora sapere di muoversi, non per pigrizia. C’era un senso del dover restare, come quando vuoi andartene dalla fermata del treno che non arriva ancora, malgrado tu sia perfettamente in orario. Ti penti dell’impazienza e dici a te stessa di rimanere ad aspettare altri cinque minuti. I quali non sono tali, ma sono il triplo e anche il quadruplo. Non ti muovi lo stesso, e il treno poi arriva.
Ma ero pronta per sostenere di incontrare qualcuno? La maschera era costruita, ma era una maschera per confondersi tra la gente non per essere vista, al massimo solo di sfuggita. Sostenere anche solo un contatto visivo era difficile, perché era già uno sforzo notevole, hai degli occhi su di te, il volto non deve mostrare niente. La maggior parte delle volte, le emozioni di uno sconosciuto sono evidenti, pure io riuscivo a scorgerle. Le più facili da riconoscere sono la tristezza e la rabbia, perché raramente la gente finge di provare uno di questi sentimenti, mentre la maggior parte della gente che appare felice non lo è veramente.
Poi, dopo il contatto visivo, ci sono le parole. Pochi le sanno usare correttamente. Io no.  Allora sceglievo il silenzio, perché con quello non si può sbagliare, non c’è un silenzio giusto e uno sbagliato.  Ma molte volte non è solo una scelta, è un’altra delle reazioni involontarie di me stessa, ma se il cuore è un muscolo involontario non c’è da sorprendersi.
Lo sconosciuto, che non chiamerei più sagoma dato che lo vedevo chiaramente, stava armeggiando con il cellulare, che dopo pochi secondi, ritornò nella tasca. Quell’attività in quel lasso di tempo, impediva di vedere il volto, l’ultimo dettaglio del ritratto. Mi soffermai sui capelli: castano chiaro, tendente al rosso ma anche al biondo; né lunghi, né corti, ciocche piastrate e tirate indietro senza uso del gel, casomai della lacca. La fronte scoperta, ai lati corti e ricci, forse volutamente.
E poi lo vidi il volto, e arrivò la distruzione. Fu una distruzione diversa, non causata dal dolore provocato dal male, dal negativo. Fu diverso, fu un dolore causato dalle cose belle, quelle belle e basta, quelle inspiegabilmente belle, diversamente belle.  Perché in ogni vivente, non vivente, astratto o concreto sono contenuti gli opposti. E’ come usare una malattia per un vaccino, il male porta anche bene e viceversa. Il bene porta anche il male, non accade per la fine di uno e l’inizio dell’altro, anche, ma prima di questo ci accorgiamo di provare entrambe le cose nello stesso momento;  in fondo prevale la peggiore e forse un po’ di bene rimane, per poi svanire.
A distruggermi, inizialmente, fu la sensazione di essermi illusa, di star vivendo un sogno nuovamente. Un sogno iniziato dopo essermi addormentata con gli occhi e il volto bagnato dalle lacrime, un sogno bellissimo, che sembrava reale, ma adesso non più. Un sogno di un desiderio, di una richiesta, di un grido disperato. E poi il risveglio, la parte peggiore. Ritrovarsi con gli occhi difficili da aprire, incollati dalle lacrime, ogni muscolo si rifiuta di agire. Ritrovarsi da sola e stare peggio di prima. Io Harry lo sognavo spesso. E anche prima che accadesse la separazione, non ero mai felice di sognarlo. Non ero quella persona a cui piace stare insieme a chi vuole nei sogni. Io lo volevo nella realtà. Non potevo accontentarmi. Io non volevo sognare, non mi era mai piaciuto.
L’esperienza mi aveva insegnato a essere realistica, già dal fatto che non leggevo né vedevo film fantasy. Cose immaginarie, creature sovrannaturali, magia e lieto fine non facevano per me. Non esiste niente di tutto questo, è solo fantasia come, dice il nome. Servono solo a illudere, illudere e illudere.
Illudere è inutile, non serve a niente far credere in qualcosa di non reale, qualcosa di utopico. E fa del male, del male e basta. Dopotutto qualsiasi cosa a questo mondo può essere un deleterio, possono essere le armi ma anche l’acqua che se bagna un terreno può farci scivolare. Nell’acqua si può affogare. Non sempre le cose scontate generano dolore, anche le cose più naturali, sembrano innocue, ma poi ci fanno male e forse è peggio, forse perché non te lo aspetti, e perché te ne fanno di diversa intensità. Fino a eguagliare quello delle cose scontate o a superarlo.
E la stessa vita ci illude, ci fa credere nel per sempre, e poi tutto termina di colpo. Non c’è nemmeno il tempo di realizzare, non sembra accaduto. Senti ucciderti dentro con le peggiori torture ma ti senti anche esterna.  Mi sentivo come divisa in due parti: una stava guardando l’altra ardere, sotto un fuoco lento. La prima non poteva fare niente, altrimenti sarebbe finita anche lei tra le fiamme, l’altra era un edificio già rovinato dagli eventi succeduti nel tempo, il fuoco era aumentato, l’edificio si consumava e si riduceva in cenere. Adesso ha perso la propria funzione, adesso è inutile, adesso non è più niente. Verrà trasportata da vento chissà dove. Nessuno se ne ricorderà.                                                              
Credevo non ci fosse paragone migliore.
Se non era un sogno, era una visione.
‘Ora ti vedo anche quando non ci sei’.  
Ero arrivata davvero a questo? Ero veramente diventata pazza?
Lui, si era seduto al solito posto.
Io, ero ferma.
Furono i suoi occhi che si posarono nuovamente sui miei a farmi capire che tutto quello stava succedendo davvero?
Oppure fu quando il mio braccio si mosse, riscuotendomi da quella che assomigliava a una paralisi; la mano sfiorò la sua guancia e sentii una scossa che mi fece sentire viva?
Avevo trattenuto il respiro senza accorgermene, quando lo avevo sfiorato. La mia mano liscia, a sfiorare la sua pelle morbida, che non mostrava neppure un accenno di barba. Sembravano fatte di un tessuto identico. Forse anche io e lui eravamo simili. Lo avevo pensato, senza darmene una spiegazione.
 
Adesso ero viva, lo sentivo nelle scosse che ora si stavano diffondendo in tutto il corpo, per poi svanire.
Realizzavo, ma allo stesso tempo non realizzavo. Tutto era chiaro, limpido davanti ai mei occhi, Harry, il mio tutto, era di nuovo qua. Lo avevo rivisto. Avevo visto di nuovo lui. Ogni mio singolo muscolo si rifiutava di ammetterlo, ma li avrei costretti a farlo. Volevo che accadesse il prima possibile.
Sentii quel nodo alla gola formarsi, inconfondibile; e il familiare leggero calore agli occhi causato dalle lacrime bollenti come il fuoco che ne uscirono. Quelle lacrime erano diverse. Che fossero lacrime di gioia? Ma cos’è la gioia?
Il dolore usciva lo stesso, ed era più intenso, bruciava dentro.
Ebbi un leggero giramento di testa, e in seguito, sentii essa farsi pesante, e le lacrime diventare troppe.  Ancora troppe, perché io quella mattina ero sicura di averne tirate fuori abbastanza. Perché credevo che nei miei occhi, non ce ne fossero più.
Affondai la testa tra le mani, spostai tutto il peso sulle ginocchia. Il nodo alla gola era sceso al cuore, poi si era diramato, raggiungendo i polmoni con una velocità imprevedibile come un gas asfissiante. Strinto tutto insieme, in una morsa sciolta solo dal tocco di lui, che mi afferrò, mi spinse a sollevarmi e a sedermi sulle sue ginocchia piegate.
Avrei voluto ribellarmi, non avevo il diritto di scaricargli di nuovo tutto addosso. Non volevo ridurlo a una discarica. L’unica discarica dovevo essere io. In quel momento mi risultò innaturale anche pensare questo, capì che continuando a gettarmi tutto addosso, mi sarei solamente ferita di più, e che sarebbe stato inutile aver tirato tutto fuori per poi rimetterlo dentro. Avevo sbagliato in quei tre mesi. Non provai più compiacimento nel farmi a pezzi, né senso di sollievo.
Mi lasciai abbandonare a lui, ancora una volta a essere comandata da lui; ogni volta mi pareva tutto così giusto e mi parve tale anche quando le sue braccia mi avvolsero e mi avvicinarono al suo petto velocemente ma allo stesso tempo dolcemente. Stingendomi, in una morsa che non aveva niente a vedere con quella che avevo sentito prima dentro. Una morsa, o un abbraccio che questa volta non parlava, questa volta era solamente un abbraccio che dimostrava la sua presenza.
Ne ebbi la conferma.
- Adesso sono qua. – mi era mancata la sua voce roca, bassa, che trovavo immensamente rilassante.
Il mio cuore stava battendo nuovamente insieme al suo, non alla stessa velocità - il mio era esageratamente veloce – ma quando le sue mani, mi carezzarono la schiena, nel suo modo che utilizzava per calmarmi, il mio cuore rallentò; come se anche esso volesse passare al meglio quel momento, come se anche su esso lui avesse il controllo. E come dargli torto.
 
Ero tranquilla ora, era così semplice farsi placare da lui.
‘Non mi sono accorta di aver smesso di piangere’, ripensare quella frase, per la seconda volta in quella giornata mi fece sorridere. Era vero, era l’ennesima volta che accadeva dopo quel giorno all’asilo.
Era assurdo solo pensare di non dipendere da lui. Non potevo spiegarmi come fosse nato quel rapporto, almeno riguardo a me, per Harry il nostro era un semplice rapporto di migliori amici, come tutti gli altri.
Il pensiero solo della parola dipendenza, suscitò in me quel ricordo. Una promessa non mantenuta. La promessa non mantenuta. Era strano, non lo avevo mai fatto. Era strano fossi mancata proprio a quella, era come mancare al proprio spettacolo preferito; con la differenza che a quello avrei potuto rimediare, ma all’altra non potevo essene ugualmente certa. E con un’altra differenza che riguardo al primo avrei creduto fino all’ultimo momento di andarci, mentre alla seconda sapevo da tempo che non sarei riuscita. E un’altra ancora: qualsiasi imprevisto mi avesse fatto saltare quello spettacolo non era colpa mia, mentre riguardo a quella tanto agognata promessa ne ero l’unica responsabile.
Decisi che per quella giornata avrei evitato quell’argomento, lo avrei riposto nella valigia della mia mente anche se avrebbe occupato moltissimo spazio, avrei tentato di chiuderla con la forza; ma quello minacciava in continuazione di uscire, riducendo le forze di resistenza della serratura.
Sperai almeno che non ne parlasse lui, che chiunque oggi mi avesse graziato con l’arrivo di Harry, che era stato come un miracolo, provasse pietà per me nuovamente.
Sperai anche che lui non fosse qui per questo.
- Perché sei qua? – articolai.
- Avevo bisogno di te, mi mancavi. –
Il diaframma si abbassò, la tensione sul mio volto si disfece, ma dopo pochi secondi ricomparse. Premeva ugualmente sullo stesso tasto dolente. Ed era stato sincero, sfortunatamente sincero. Lui non aveva niente da nascondere e niente a cui era mancato.
Sarebbe stato migliore dirglielo? Sarebbe stato migliore confessargli quanto lo avessi necessitato ogni secondo? Che la maggior parte delle notti le avevo passate a stare male per lui mentre gli avevo giurato, vedendolo in quelle condizioni, di fare il contrario? Che prima di iniziare ognuna di quelle 80 notti facevo una croce su un foglio per segnare il termine di ogni giornata vuota senza di lui? E come mi ero ridotta da sola? Si, sola perché non avevo più nessuno e anche perché avevo fatto il “meglio”, la maggior parte da me.
No, non lo sarebbe stato affatto. Certamente, non avrei potuto tenerlo in quella valigia per molto altro
 tempo, avrei controllato quando farlo saltare fuori, con le giuste precauzioni e avvertimenti. Sarebbe stato una delle prossime volte, questa giornata era la prova esemplare che la distanza non avrebbe inciso su noi due, volevo viverla al meglio. Noi, sì perché adesso eravamo di nuovo un ‘noi.’ Poco prima avevo pensato il contrario, era strano cambiare di pensiero così rapidamente. Di nuovo l’influenza di Harry, come quella della luna.
- Anche tu mi sei mancato, e anche io ne avevo bisogno di te. – Peccato che detto da me, sembrasse quasi falso. Sentii ritorcersi tutto dentro, mi ripudiavo quasi.
Lui non mi necessitava nello stesso modo morboso.  Harry era l’unica persona a cui ero riuscita a legarmi, era l’unica roccia a cui mi ero aggrappata saldamente, e alla quale avrei potuto aggrapparmi nuovamente, abbandonando le alghe.
E solo in quella tarda mattinata di quel giorno di settembre, mi accorsi che Harry era l’unica persona che mi facesse provare sia blu e giallo, sia verde; le emozioni singole e allo stesso tempo quella finale, che si intrecciavano, in una treccia lunga e irregolare, ma mai si univano. Ogni tanto, uno di questi fili, usciva dalla treccia, seguitamente rientrava, e così succedeva a un altro. Alla fine si ritrovavano tutti di nuovo legati, per percorrere l’ultimo pezzo di tragitto insieme per terminare definitivamente in un nodo e il restante fuori da esso non ha bisogno di essere tagliato; i fili erano stati tessuti di una misura precisa. Così accadeva ogni volta che il tempo passato con lui terminava, tutte le emozioni provate in precedenza svanivano.
Harry era l’unica persona a cui tenessi veramente, per lui ero quella a cui teneva di più. Il fatto che  fosse l’unica persona importante della mia vita, mi portava a esagerare, a non avere nessun limite. Quando qualcosa accade per la prima volta, ci mostriamo come siamo senza barriere, reagiamo con naturalezza e decisione, è automatico essere impulsivi. Questo avviene anche quando si prova un’emozione nuova, facciamo avere effetto ad essa su di noi, la lasciamo agire in tutte le sue forme, ci facciamo guidare da essa in tutte le nostre azioni. Poi dopo averla conosciuta, possiamo comandarci rispetto ad essa, se reprimerla o lasciarla manifestare, o farla attuare più spesso; nelle volte successive non avverrà con la stessa intensità della prima, la quale era dovuta proprio alla novità della sensazione che sicuramente l’aveva accentuata. Harry oltre a me aveva molti amici e amiche, aveva esperienza, non era il suo problema quello di controllare l’intensità dei propri rapporti.
- Come è andata a Parigi? – Tirai fuori di getto, usufruendo del suo silenzio.
- Una noia mortale. -
 – Raccontami dai, non ci sono mai stata.  – lo incalzai.
- Allora..  I miei hanno affittato là un monolocale, è vicino alla scuola e all’aeroporto, ma non mi è mai interessato sapere il nome della via. Non è tanto male, ci sono le stanze sufficienti. La camera la condivido con Gemma e di solito sto lì. Il tentativo dei miei genitori di mandarmi là per fare nuove conoscenze è andato fallito; potevano evitarmelo facendomi passare una bella estate. Pazienza, ormai quel che è fatto è fatto. –
S’interruppe un istante, con la sua voce aveva scandito lentamente ogni parola, come sempre, come per dare importanza ad ognuna di esse.
 Prese in mano i due lembi della sciarpa, la stava già cercando a tastoni mentre aveva iniziato la sua narrazione, inizio a giocherellarci, lanciando debolmente prima l’uno e poi l’altro e afferrandoli insieme.  Gli occhi dal verde più chiaro della sciarpa rapiti da quel giochetto, assorti e concentrati, mi sembrò di rivedere quel bambino dell’asilo che giocava con le macchinine e mi aveva gettato la mia bambola preferita a terra.
Lo fissai in silenzio, la mia attenzione catturata dal suo racconto, di cui impaziente attendevo il seguito. Catturata non del tutto, una piccola parte era concentrata a formulare qualcosa di credibile sulla mia vita di quel periodo di distanza, che ovviamente non fosse vero.
- È meglio che tu non ci sia mai stata, non è niente di speciale. In famiglia va tutto bene, sono entusiasti del percorso che mi hanno scelto, mi stanno ancora cercando di convincere sulla validità, ma non credo riusciranno nemmeno in questo. E poi niente, solo al pensiero di parlare in francese tutte le mattine… Dovrò trovare qualcuno che mi svegli al posto tuo. Pensa come inizierei bene già il primo giorno addormentandomi. –
Gli sorrisi, un sorriso che non si trasformò in una risata perché non volevo tagliare il suo filo del discorso
così spedito, rischiando di non sentire più niente di quelle parti della sua vita che mi ero persa. Volevo sfruttare quelle smilze possibilità che avevo per recuperarne dei frammenti.
- Queste giornate ho dormito fino a tardi, la sera raramente sono uscito, mi pare solo tre o quattro volte per andare in qualche ristorante con Gemma. Non c’è niente di interessante là fuori.-
Notando che erano due le volte che aveva nominato sua sorella, le chiesi di lei.
- Come sta Gemma? Tutto apposto? Mi manca un po’anche lei, voglio rivederla. –
Quel ‘mi manca’ e soprattutto ‘voglio rivederla’ celavano sotto la voglia di vedere di nuovo lui, erano solo un pretesto. Ero sicura che se avessi rivisto sua sorella, avrei rivisto anche lui; tutte le volte in passato che ero uscita con lei, c’era stato sempre Harry insieme a noi.
- Si si, con lei avevo già parlato da un po’ di ritornare qua, i miei li ho messi al corrente ieri sera, sai com’è a loro piace comunicare le cose all’ultimo minuto, e così ho pensato che gli piacesse anche ricevere le comunicazioni così. –
Nella sua voce era palpabile ancora una punta di rabbia, come se non gli fosse ancora passata da quel dì. Ciò mi fece pensare che del tutto ok gli affari di famiglia non lo erano, ma seguissero  solamente il loro corso ascendente, migliorando.
- Comunque ora che ci penso si dice che la torre Eiffel sia spettacolare la notte. –  cambiai argomento, anche perché avrei toccato un altro tasto dolente, un tasto nero, per metà compreso in uno bianco del mancato compimento della sua richiesta e un altro bianco, che avrei scoperto più avanti. Tasti che erano comuni a entrambi, perché lui era la parte di plastica del tasto, io ero il meccanismo che lo metteva in moto. Lui era una delle persone su questo pianeta, io ciò che attivava il dolore in lui.
- Sul serio? Un giorno l’andrò a vedere allora. Vieni anche tu a Parigi un giorno dai, magari mi farà meno schifo. –
 


 
HARRY’S POV
 


- Sul serio? Un giorno l’andrò a vedere allora. Vieni anche tu a Parigi un giorno dai, magari mi farà meno schifo. –
Fargli quella proposta, dopo la diceria che mi aveva raccontato lei, non era stato casuale. E anche la città dava il proprio contributo.
Ma no Harry, a cosa stai pensando? Cos’era quello che provavi? Si cos’era?
Avrei voluto saperlo. Eppure più ci pensavo e più diventavo dell’idea che fosse veramente la cosa che avevo sempre cercato disperatamente, e ricevevo proprio ora. Come un regalo di Natale con tre mesi di ritardo. Non so se avrei potuto considerarlo un regalo, adesso era solo un fottutissimo problema.
Stando lì, avrei dovuto chiarire. Avrei dovuto mettere fine ai tormenti che per fortuna non sempre mi affollavano la mente.
I piatti della bilancia sui quali erano appoggiati quei due termini, non erano mai stati allineati, quello a me sconveniente era stato sempre più peso; una differenza innocua, alla quale ero sicuro di porre rimedio. Adesso, sul  piatto tanto temuto, era stato aggiunto dell’altro ed era pericolosamente piazzato in basso, mancavano pochi centimetri a sfiorare il suolo.
Fortunatamente c’erano quei centimetri che non mi rendevano impossibile respirare. Non era proprio l’estremo dei casi.
Restava solo aspettare e vedere, la cosa più difficile per me. Non potevo quantificare il tempo che avrei dovuto aspettare, proprio quell’incertezza, che da poco avevo perso, dopo averla ottenuta nuovamente
 senza richiederla, era la parte più temuta.
Ma non sarebbe stato migliore, questa volta, ricevere la risposta più negativa possibile. Assolutamente no. Questa volta, sarebbe stata l’eccezione alla regola. Sarebbe stato scomodo, come un divano chiodato, ma per lei avevo detto che farei anche l’impossibile, no? Quindi, avrei dovuto attendere del tempo. Perché per chiunque non sarebbe stato impossibile, ma per me si.
Mi imbarazzava solo il pensiero da quanto stessi in quell’attesa perenne, prima non mi premeva così tanto, me la lasciavo dietro le spalle, ma ora, ora non c’era più abbastanza spazio per tenerla dietro. Inizialmente me l’ero trovata davanti agli occhi, ora appariva anche in qualsiasi direzione mi voltassi. Ero circondato, ma non del tutto, quei centimetri tra il piatto della bilancia e il suolo lasciavano alcuni spazi vuoti.
 
Eppure non potevo fare nient’altro, in quel modo avrei ritardato il punto sulla linea del tempo della mia vita in cui avrei sbagliato, quello sbaglio che era inevitabile compiere. Quello sbaglio che avrebbe mutato parecchie cose, già dal fatto di nascondere tutto questo fino a quel giorno. Attraverso quello sbaglio avrei distrutto Cher nuovamente, e in modo più acuto, e anche me stesso. Avrei sentito di nuovo in me, quelle emozioni e sensazioni ancora estranee, e forse anche alcune nuove. Perché non si smette mai di provare sempre qualcosa di nuovo, nemmeno alla fine della vita si è provato tutto, in qualsiasi modo si sia condotta.
 
- Mi piacerebbe moltissimo. Se chiedessi ai miei di andare là per tutte le vacanze di Natale? Non la trovi una buona idea? –
A me forse piacerebbe di più. Basta, Harry basta. E se me lo fossi creato io quell’ostacolo? Se il troppo pensarci sopra lo avesse fatto diventare reale?
O se stessi scambiando quella paura per la realtà?  Magari.
- Lo trovo perfetto. E tu cosa hai fatto in questo tempo? – le chiesi, sia perché mi interessava, sia per far riposare la mente o il cuore che fosse, dalla propria attività.
- Niente, mi sono riposata, ero davvero stanca. Sono sempre restata a casa, non ho sentito il bisogno d’uscire. –
Se fossi restato con lei sarebbe stato diverso, non si sarebbe annoiata a morte. Di sicuro non avrebbe potuto dirmelo in faccia che ero stato un coglione, ma lo pensava o non si rendeva conto di farlo, su un muro delle tante strade nella sua testa complessa ero certo ci fosse scritto, a caratteri cubitali lampante e anche sottolineato ed evidenziato.
Solo che lei era troppo, troppo per tutti. Speravo un giorno lo capisse, capisse tutto quello che aveva e non lo sapeva. Anche se ci sarebbe stato il rischio che mi avesse abbandonato, ma l’avrei preferito. Perché lei veniva prima di qualsiasi altra cosa o persona su questo pianeta. Avrei accettato che abbandonasse il bastone sul quale si era appoggiata per gran parte del suo cammino, per iniziare a continuarlo da sola.
La paura che mi avesse abbandonato in questo periodo era scemata, ma non avevo dubbi di averla provata e in ingenti dimensioni.
Ero convinto che i suoi occhi colore della terra, non si degnassero più di bearmi posandosi sui miei, verdi come i prati, lo stelo dei fiori, gli arbusti che senza il terreno non hanno possibilità di vita. I miei verdi come le foglie delle chiome degli alberi, sostenuti da rami rivestiti da una corteccia marrone come essi stessi, allo stesso modo lei si rivestiva di maschere realizzate da se stessa, con la stessa pelle e le stesse sofferenze; e da un tronco dello stesso materiale che porta la chioma verso l’alto e la collega alla terra.  Verdi come una pianta in particolare: il caprifoglio, una rampicante che vive attaccato all’albero del noce, e dal tronco di questo ruba la linfa vitale per la propria sopravvivenza. Il caprifoglio che nuoce al noce, ma l’ultimo necessita esso così come è necessitato dal primo, il noce necessita il male che gli provoca il caprifoglio. Il caprifoglio passa tutta la vita attaccato al noce, perché è l’unico e traumatico modo per poterla passare. Perché a differenza di me, ha solo quella misera possibilità; ma quel caprifoglio ha scelto un noce in particolare, o forse è stato il destino già a farlo per lui scegliendo la sua origine selvaggia in una zona limitrofa a quell’albero. Passa la propria vita avvolto ad esso, così come le mie braccia stavano circondando il corpo sottile di Cher.
- I negozi? Non sei mai stato in nessuno? – se ne uscì lei.
Avevo lasciato a lei la possibilità di selezionare quali domande fare, da dove iniziare, e in alcuni casi avevano coinciso con quelle che avrei voluto farle io. Ovviamente non questa tipicamente femminile.
Sapevo con la massima certezza che entrambi avevamo un oceano di cose da dirci, e i discorsi saltavano da un argomento all’altro con balzi più o meno ampi; per fortuna questo oceano, non era stato nuovamente un oceano di lacrime da non poter contenere. Ero ancora scosso dall’ultima volta che avevo pianto, mi sembrava ieri. Non riesco ancora a immaginare cosa sia piangere tutti i giorni.
 
- In alcuni si, ma non ho comprato moltissimo. Ce ne sono parecchi, se riuscirai a farti portare qua, ti comprerò qualcosa; sennò dimmi cosa vuoi che te lo porto io. -
Farle un regalo era il minimo, con amarezza pensai che sarebbe stato opportuno averglielo portato ora. Ma altrettanto opportuno non era stato discolparsi con ‘dimmi cosa vuoi’, io sapevo benissimo cosa le piacesse. Menomale avevo la busta.
- Verrò, i negozi sono un motivo in più per venirci. –
- E quali sarebbero gli altri? – Non avevo resistito a domandarlo, non ce l’avevo fatta. Mi consolai trovando il lato positivo nel non aver resistito alla domanda, e non ad altro.
- Te, e poi niente. -  Non seppi interpretare il tono della sua voce. Malinconico, nostalgico, dolce, rassegnato, scocciato; fu quello che dedussi, ma non me ne curai. Sorrisi, avevo sentito proprio quello che volevo le sue labbra tinte di rosso pronunciassero; ma i miei occhi, che ero sicuro mi brillassero e forse anche troppo non si poggiarono su di esse, ma sui suoi occhi, nuovamente. E capii che se li avessi guardati prima non sarebbe stata necessaria la domanda. Allora, guardai di nuovo quegli occhi, cercandoci dell’altro richiesto ed evitando di trasmettere io quello che desideravo vedere in lei. Questo evitare, mi stava riuscendo male, così distolsi a malincuore i miei occhi dai suoi e rimediai con un abbraccio, che non era solo per porre una toppa allo strappo che avevo appena fatto, ma esso aveva il medesimo fine della ricerca precedente. Ripresi il controllo più velocemente possibile, evitando di espandere quello strappo o farne altri, e la lasciai seduta su quella panchina, per non fare altri danni.
 
 
 
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Note dell’autrice.
Non sarebbe migliore se ognuno pensasse al male che si fa da se credendo di farlo agli altri?
Dopo essersene causato abbastanza, o troppo, è impossibile non farlo anche agli altri. Tutti sbagliamo o tutti siamo giusti, è solo una scelta di come considerare, non c’è differenza.
Ci sono certe cose che ingigantiamo, e ci facciamo schiacciare da quel peso abnorme.
Il punto è che a volte soffriamo di più con il pensiero di aver fatto qualcosa a qualcuno che vediamo come un martire, ma è proprio questo qualcuno che ci fa essere succubi e che ci farà il male più acuto e penetrante, che uscirà con la stessa durezza con cui è entrato. Uscirà e porterà via con se alcune cose, quando i ladri entrano in una casa non fanno lo stesso?
Ma una rimarrà, perché è impossibile da portare via, come lo è un soffitto. Il soffitto, copre la casa sulla sommità proteggendola dal l’esterno; così lo fa quella cosa impossibile da togliere, quella che Harry ha tanto terrore di provare e crede che col tempo se ne andrà, così la protegge dall’esterno da quello che sono veramente gli altri, coperto da cemento e tegole.

Non significa che questi altri siano delle “persone disastro”, ma non dico altri, voglio essere precisa, altra. Quello che voglio dire significa solamente che in certi frangenti non farebbe male costruire un lucernaio su quel soffitto, giusto per dare un’occhiata.
 
  
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