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Autore: outofdream    29/01/2014    1 recensioni
Rivisitazione di "Midnight Sun", di S. Meyer.
Dal 5 Capitolo:
[...] e in quegli attimi di totale oscurità, il suo corpo pallido mi appariva come l’unica fonte di luce. E me la immaginavo concentrata sui libri di scuola, mentre si passava una mano fra i capelli, muoveva le sue braccia nel sonno, piegava le gambe quando sedeva scomposta sul divano, corrucciava lievemente le labbra nei momenti disordinati della sua tenera vita, mentre si vestiva o si metteva degli orecchini, mentre si spogliava alla luce tenue della sua abat-jour con gesti stanchi, affaticati, per coricarsi a letto il più in fretta possibile. Me la immaginavo sorridere, come l’avevo vista fare tante volte con Angela e Jessica, voltarsi facendo ondeggiare i lunghi capelli. La immaginavo nella mia vita.
Genere: Romantico, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti | Coppie: Bella/Edward
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Successivo alla saga
Capitoli:
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Nota dell'autrice: So bene che la rivisitazione di Twilight (che trovate qui) non è ancora completata e che alla sua conclusione mancano ancora cinque capitoli (se non vado errata) ma per evitare di annoiarmi e, conseguentemente, scrivere in maniera svogliata e poco attenta la parte finale dell'altro racconto, ho deciso di cominciare a scrivere Midnight Sun, cioè il libro che narra la storia dal punto di vista di Edward (per chi non lo sapesse, aggiungo anche che l'autrice non ha portato a termine questa opera in particolare), anche solo per variare. Spero questo non crei confusione a nessuno e come sempre vi auguro buona lettura. 

                                                                                                             
                                                                                                   A prima vista



«Mi annoio».
«Lo so, ma abbi pazienza. Tra poco saranno di ritorno».
«L’hai detto un’ora fa. Io mi annoio. Mi annoio!».
Per quanto l’ascoltassi, la risata di Esme era qualcosa a cui proprio non ero capace di abituarmi, le note della sua voce erano intrise di sentimenti a me ignoti che sembravano gonfiarle d’amore il cuore, tanto da somigliare, in questo, ancora a un essere umano; io le invidiavo questa caratteristica, poiché la mia era una voce vuota, priva di motivi, di trilli, di sentimenti, proprio come se in me non ci fosse nulla di particolare da ricordare – era snervante. Chiusi gli occhi, cercando di prestare attenzione a ogni singolo dettaglio dentro e fuori la casa, nella speranza di sentirli tornare, ma fui deluso nuovamente.
«È la prima volta che ti vedo così impaziente, Edward. C’è qualcosa che non va?», Esme mi si avvicinò in punta di piedi, muovendo appena l’aria che la circondava, con una rapidità che avrebbe fatto girare a chiunque la testa. Le rivolsi un sorriso che intendeva essere affettuoso, «No, sto bene».
Ma la verità era che quell’affermazione non sarebbe potuta essere più distante dalla realtà dei fatti: non stavo bene, non stavo nemmeno male a essere precisi, in verità ecco, io non stavo affatto. Dopo tutti quegli anni potresti pensare che uno potrebbe farci anche il callo, no? Potresti pure pensare che uno si possa abituare a quel genere di vita, ma in me sembrava non esistere capacità di adattamento. Io ci avevo provato e continuavo a provarci ogni giorno, ma era una sfida persa in partenza: ero certo che quella routine – fingersi esseri umani, cacciare animali selvatici, trasferirci, di anno in anno, da un punto all’altro del mondo, essere sempre oggetti di un pettegolezzo selvaggio – sarebbe stata la causa della mia morte. Per assurdo, con tutto il tempo che avevo, tutto ciò che ero in grado di fare era nascondermi di notte e fingermi uno studente diciassettenne di giorno.
Speravo almeno di trarre qualche vantaggio da questa mia condizione.
«Oh, Edward, caro..», Esme provò a battermi sul tempo, ma fu tutto abbastanza inutile.
«Sì, li ho sentiti», mormorai fra i denti. Non avevo già più voglia di stare lì, con la testa poggiata sull’isola in granito della cucina sfarzosa in cui mi trovavo, completa di ogni utensile e posata, riempita fino all’orlo di batterie di pentole, stipata fino all’ultimo cassetto in mogano di set di argenteria – come se ne avessimo avuto bisogno. Certi vezzi estetici, certi capricci proprio non ero in grado di capirli. «È davvero uno strazio stare in tua presenza», commentò in tono scherzoso Jasper, in un attimo già accanto a me, «potresti farmi il favore di provare qualcosa di piacevole? Così potrei stare bene anche io. Che te ne pare, ti va?».
«Lascialo stare, non lo vedi che è triste?», lo rimbeccò in tono di rimprovero Alice, comparendo dietro le mie spalle. «Più che vederlo, lo sento», rispose in un sussurro l’altro, ironico.
«Ho belle notizie, comunque!», trillò lei in quel suo solito tono gioioso, «tra qualche giorno avremo una bella nevicata. Non sei felice?». Scrollai le spalle senza troppo entusiasmo, «Così e così».
Di certo la neve mi piaceva più quando ero vivo, questo era sicuro, quando ancora mia madre biologica era viva, quando ancora poteva uscire con le sue stesse gambe nelle strade imbiancate e gonfie di morbida neve ghiacciata. Era la parte dell’anno che preferiva, l’inverno, in assoluto, la gioia che le si disegnava in volto dopo una copiosa nevicata poteva tranquillamente cancellare da lei ogni sorta di preoccupazioni; quando mi mostrò quel miracolo di freddo e diamanti per la prima volta io ne rimasi estasiato, probabilmente perché così influenzato dalle sue stesse emozioni.. Lei toccava la neve e rideva in un modo tutto suo, non esisteva risata così al mondo, non ne era stata inventata ancora una simile alla sua e nemmeno io, che ero carne della sua carne, frutto del suo amore e dolore, avrei saputo come imitarla. Mi domandai cosa avrebbe provato se avesse toccato la mia pelle in quel momento, se avesse potuto dico, se fosse stata ancora viva: ne sarebbe stata felice e mi avrebbe paragonato a una creatura di ghiaccio splendente o si sarebbe ritratta in preda al ribrezzo e all’orrore? «Coso, ci stai rovinando la festa», Emmett fece la sua entrata trionfale dopo la solita battuta di caccia, «dico davvero, la devi risolvere questa cosa», fece un cenno rapido nella mia direzione.
Lo fissai con aria interrogativa. «Dovresti trovarti una bella vampira e a quel punto, lo sai cosa intendo..», accompagnò le sue parole cariche di enfasi con una vigorosa spinta di bacino.
Rosalie, dietro di lui, sospirò, passandosi una mano sulla faccia, Dio, udii i suoi pensieri rimbombarle nella mente proprio come se mi fossero appartenuti, ho sposato un demente.
Accortosi della reazione della moglie, Emmett si schiarì la voce e si affrettò a aggiungere, «Intendevo, a quel punto dovreste conoscervi meglio.. Parlare.. Guardare film romantici..».
Lo guardai con fare complice e scoppiammo entrambi a ridere.
«Emmett non ha tutti i torti», trillò Alice, sedutasi al mio fianco, «se non altro potresti distrarti».
«Ragazzi, io volevo soltanto smetterla di essere così annoiato, non di prendere appuntamento con un’Agenzia Prematrimoniale», sbottai sarcastico.
Lasciali perdere, Edward, la voce di Rosalie riecheggiò nel mio cranio, creando una sorta di vuoto pneumatico, ti rendi conto che stai parlando con gente che vanta come miglior esponente Emmett?, una nota di dolcezza pervase quella frase, ammorbidendone il senso e lavando via un po’ della malignità che di solito le riempiva il cervello – ancora adesso, dopo tutto questo tempo, faticavo a trovare del tutto normale il fatto di poter leggere nel pensiero di chi mi circondava. In principio mi parve un potere dal potenziale illimitato, questa mia netta superiorità mi faceva sentire quasi un Dio, un essere escluso dalle trappole del mondo umano e anche di quello dei vampiri. Potevo anticipare e battere sul tempo chiunque, poiché possedevo la chiave per la loro mente, ricettacolo dei più intimi e segreti pensieri – nulla mi era negato, né celato, potevo arrivare in ogni anfratto, in ogni angolo buio e sperduto del pensiero della mia vittima e analizzarne carattere, prevederne reazioni e capirne ogni sfaccettatura. Ma quello che all’inizio mi apparve come un dono incredibile, una giusta ricompensa vista l’ingrata sorte che mi era toccata, divenne ben presto un peso insopportabile: non mi era mai concesso un attimo di solitudine e, privato completamente del gusto della scoperta nell’altro, della difficile comprensione e cattura, cominciavo a guardare gli esseri umani con noia e disprezzo e i miei simili con vergogna e fastidio. Perfino trovare una compagna della mia stessa specie risultava impossibile ai miei occhi, visto che non avrebbe potuto comunque tenersi per sé niente, nemmeno un minuscolo, innocentissimo segreto.
«Oh, smettila Edward, sei un vero incontentabile», mi riproverò affettuosamente Alice.
«È vero. Perché non vai a fare visita a quella.. Come si chiama?», Emmett strizzò gli occhi, cercando di scavare nella sua memoria. «Emmett. No», gli intimai.
«Tanya», un sorriso a trentadue denti irradiò il suo volto.
«Oh per favore», mormorai, nascondendo la testa sotto il cappuccio della felpa.
«Tanya è vero», si unì al coro Jasper, dando man forte al fratello.
«Sareste così carini insieme!», mi sorrise Alice e il suo viso di seta toccò il mio con delicatezza, «Certo, se tu ti decidessi a vestirti meglio.. Guarda che le ragazze ci tengono a queste cose! Anche se sono vampire».
Non mi interessava per niente approfondire i rapporti con Tanya, né vestirmi meglio di come ero vestito. In tutti quegli anni non avevo mai prestato troppa attenzione al modo in cui dovessi apparire agli altri, che fossero essi esseri umani o inumani, d’altro canto non ce ne sarebbe stato bisogno comunque: la nostra razza vantava un corredo genetico niente male, eravamo tutti esseri di una bellezza sfacciata, carichi di un fascino irresistibile per chiunque. Ero abbastanza certo che quando attraversassi i corridoi del liceo, centro della vita giovanile della nebbiosa Forks, le ragazze che mi seguivano con lo sguardo facessero ben poco caso ai miei vestiti. «Passo, grazie mille», mugugnai, fra l’insofferenza e l’imbarazzo.
«Come ti pare allora!», disse Emmett, sempre con quel tono divertito, «Divertiti a andare in bianco fino alla fine dei tempi!», e dopo quell’ultima affermazione sparì dietro Rosalie, che aveva lasciato la stanza pochi momenti prima. Infine, anche Jasper e Alice lasciarono uscirono e, se non avessi potuto avere la prova tangibile e concreta che Carlisle e Esme si aggiravano dalle parti della cucina, in salotto per lo più, avrei giurato di essere rimasto completamente isolato dal mondo. Rosalie e Emmett, come Alice e Jasper, formavano una coppia, perciò spendevano molto del loro tempo insieme, lontani dalla proprietà comune e, anche se sicuramente impiegavano il loro tempo meglio di quanto potessi fare io, non riuscivo a invidiarli. Almeno.. Non del tutto. Se avessi passato più di un’ora con un’altra persona, a stretto contatto, sarei completamente impazzito a causa dei miei sensi sviluppati, non avrei potuto tollerare a lungo un rapporto così chiuso ed esclusivo, come facevano i miei fratelli, isolandosi anche per settimane intere. A me sarebbe piaciuto qualcosa di diverso, una persona che riuscisse a regalarmi parole misurate e attente e che serbasse per sé una certa intimità, così che io avessi qualcosa da scoprire, svelare, e, per essere onesti, per molto tempo avevo ricercato caratteristiche simili nelle femmine umane, proprio a causa delle loro menti meno sviluppate della mia (immaginavo che non fosse impossibile trovarne una che riuscisse a celare parte della sua mente, se non altro a causa della differenza fra le nostre capacità sensoriali), ma non ci ero mai riuscito. Tuttavia, anche se l’avessi trovata, la voglia di sangue umano, il richiamo dell’odore così selvaggio, primitivo, necessario e compatibile al mio organismo, avrebbe ridotto tutto in tragedia. Per non parlare della vergogna che sarei stato costretto a provare di fronte a tutta la mia famiglia. E per quanto riguardava le femmine della mia specie.. Nessuna di loro mi entusiasmava particolarmente. Forse ero soltanto destinato a una vita di solitudine, umana condizione, che avrei dovuto coltivare per tutto il resto della mia esistenza. Tirai un lungo, impercettibile, sospiro, che Esme colse al volo – si affacciò dopo qualche secondo sulla soglia della cucina, con un sorriso raggiante in volto, chiedendomi se fosse tutto okay.
«Normale.. Come prima», risposi.
«Mi dispiace molto, tesoro», poggiò una mano sulla mia spalla, «sono certa che andare a scuola ti migliorerà un po’ l’umore. Se non altro farai qualcosa, no? Potrebbe anche succedere qualcosa di elettrizzante!», squittì eccitata lei, stringendosi le mani con trepidazione.
«Mh-mh», tirai su un’espressione imbronciata, «che ore sono?».
«Quasi le cinque, caro».
Volsi uno sguardo aldilà della grande vetrata della cucina, osservando il dileguarsi lento delle ombre che lasciavano il mondo con la promessa di fare ritorno e il cielo cominciava già a schiarirsi, laddove i primi raggi di luce cominciavano a sfiorare la superficie opalescente della volta celeste.
«Saranno tre lunghe ore», commentai, fra me e me.
Tre lunghissime ore.


Non ti senti già una favola? Sono tutti impazziti. Ora non sei più annoiato, pensò Emmett, rivolgendomi un’occhiatina complice, dall’altro capo dell’aula. «Diciamo che quando Esme mi aveva detto che sarebbe potuto anche succedere qualcosa di elettrizzante, di certo non immaginavo questo», grugnii io, in maniera così debole da rendere l’intera frase impercettibile all’udito umano. Emmett soffocò una risata, divertito.
Lo ignorai, tornando a sfogliare con poco interesse il libro di matematica di fronte a me, zeppo di esercizi che avevo già fatto, risposte che mi ero già segnato e calcoli che ormai non mi impegnavano mai per più di cinque secondi. Di solito Esme sceglieva le parole con cura – con un’efficacia che avrei definito degna di Alice, con l’unica differenza che lei, mia madre adottiva, non sapeva prevedere il futuro – per questo, ogni volta, dopo averle parlato, mi sentivo sempre un po’ meglio: mi aggrappavo a quelle frasi, quel tono di voce così solare e caldo come se fosse stato il mio unico appiglio per non precipitare nel vuoto.
Quando aveva usato la parola ‘elettrizzante’ quindi, io davvero mi aspettavo qualcosa che si potesse sinceramente definire elettrizzante, ma tutto ciò che avevo ottenuto era stato lo scompiglio generale dovuto all’arrivo di una nuova studentessa. Vedevo il suo volto riflesso nei pensieri di ragazze e ragazzi, riecheggiavano nella mia testa il tono neutro che aveva di presentarsi e i suoi debolissimi sorrisi.
Allora com’è?, non faceva che stuzzicarmi, mentre giocherellava con una matita, È carina? Oppure è una specie di morto risorto?, gli lanciai un’occhiataccia.
Oh, andiamo, fratellino, rilassati! Nessuno ti biasimerà per aver fatto pensieri sconci su una guercia che zoppica, chinò la testa fra le grossa braccia – le stesse con cui era capace di spezzare, vertebra per vertebra, la spina dorsale degli orsi di Goat Rocks – e lo sentii soffocare le risate al pensiero di me che mi fidanzavo con una specie di mostro a tre teste, con tanto di tentacoli.
«Non è guercia», mi arresi, «è normale», a quelle parole mi rivolse uno dei suoi soliti sorrisi.
Allora è scopabile?, insisté.
«Lo dirò a Rosalie», lo fissai con aria divertita, mentre osservavo l’allegria abbandonare lentamente il suo volto. Non oseresti, sibilò, rabbrividendo al pensiero della collera di sua moglie.
«Vuoi vedere?», lo provocai io, zittendolo immediatamente.
Sono certo che Emmett, davanti a chiunque, avrebbe definito la sua subordinazione a Rosalie fastidiosa, magari con aria scocciata o assente, ma a me non poteva sfuggire, non ci riusciva mai nessuno, e io vedevo ciò che andava al di là delle sue espressioni o parole e potevo toccarlo da vicino, avere un assaggio dei suoi sentimenti così passionali e accesi verso quella donna così bella eppure così dura. A volte lo invidiavo, lo invidiavo non tanto come Edward Cullen, non come un vampiro, ma esattamente come un normale essere umano sentivo palpitare il mio cuore, toccato da un leggero senso d’ansia e angoscia, e desideravo ciò che lui e Jasper avevano, desideravano i sentimenti che provavano, li volevo miei in una maniera infantile e capricciosa, senza tregua. Forse dipendeva soltanto dal vuoto che sentivo, che avevo provato a riempire in qualunque modo ma senza nessun risultato o forse si trattava semplicemente di un’attrazione verso qualcosa che sappiamo di non poter avere – probabilmente, se avessi ottenuto ciò che tanto agognavo, me ne sarei sbarazzato, con la stessa insopportabile noia e arroganza, nell’arco di un mese o due.
Al pensiero m’intristii, quasi più per la consapevolezza di essere così incontentabile che per via della mia vita vuota e piatta. Certo, probabilmente non apparivo in questa maniera alle ragazze della mia scuola, no, loro lasciavano correre anche troppo la loro fantasia, immaginandomi mentre m’imbarcavo in chissà quali avventure, che spezzavo il cuore a chissà quante modelle e mentre viaggiavo in località esotiche – a un tratto quel continuo flusso di pensieri, pettegolezzi, congetture cominciò a infastidirmi a tal punto da farmi accarezzare con desiderio la possibilità di poter spiegare a ciascuna di loro l’unica cosa che avrei mai potuto fare, con i loro delicati corpicini. Quello le avrebbe zittite. Ma d’altro canto, sarebbe stata una follia rivelarsi in una maniera così sfacciata quindi, quello continuava a rimanere solo un bellissimo sogno ad occhi aperti che assaporavo di continuo, specie quando mi passava accanto Jessica Stanley, la quale aveva nutrito e portato avanti per mesi interi un’assurda infatuazione nei miei confronti. Non che in effetti ne fossi dispiaciuto, tuttavia avrei apprezzato molto di più il sentimento se non si fosse trattato di una ragazza dai pensieri così insistenti e fastidiosi – la sua mente era un vero covo di improbabili pensieri e desideri, a volte facevo fatica ad adattarmici, ma forse dipendeva più che altro dal suo modo cattivello di giudicare silenziosamente il prossimo, con una tale presunzione e presupponenza , da farmi venire il mal di testa.
Quando la scorsi nei corridoi, diretta verso la mensa, i suoi pensieri non facevano che concentrarsi unicamente sulle reazioni dei suoi compagni alla vista della nuova arrivata.
Oh, per favore.. Non è così carina, voglio dire, è solo che è nuova, fai finta di nulla. Arrabbiarsi sarebbe comunque inutile, ghignò maligna, fra un paio di settimane sarà tornato tutto come prima. Mi domando se anche Mike l’abbia notata in quel senso. Certo, di Eric o Ben non potrei stupirmi, quand’è stata l’ultima volta che hanno toccato una tetta? Nel dopo guerra? Ridicoli.
Quei pensieri riassumevano alla perfezione ciò che ero stato costretto a subire negli ultimi tempi. Cercai di dirottare la mia attenzione verso la nuova arrivata o meglio, verso la sua schiena, visto che ero qualche metro dietro il suo nuovo gruppo di amici. A vederla così sembrava uguale a tutte le altre, capelli mediamente lunghi, boccoli, un po’ minuta forse, molto bianca, quasi pallida – non le detti molta importanza e mi limitai a trovare posto al solito tavolo, con i miei fratelli. Jessica e i suoi amici, più distanti, fecero lo stesso. «Allora», disse Emmett sedendosi rumorosamente vicino a me, «che novità? La nuova arrivata ha già paura di noi?». Jasper ridacchiò fra i denti, «Non tirare troppo la corda, Emmett. Edward è sul piede di guerra». «Dai, coso», insisté quello, «ascolta un po’, sono curioso».
«Emmett, sarebbe difficile trovare qualcosa che non ti incuriosisce», lo riprese Rosalie, lanciandogli un’occhiata indecifrabile, a metà strada fra la sua solita cattiveria e un segreto e personalissimo divertimento. Emmett le rivolse un sorriso smagliante, senza mostrare il benché minimo segno di rabbia, «È così infatti, non a caso ti ho sposata. Ero curioso di vedere se avevi un cuore o me l’ero solo immaginato!».
Quel passo falso gli costò un broccoletto in faccia.
Jasper rise e Alice si unì a lui, contenta che per qualche istante, le attenzioni dell’ultimo membro della famiglia a essere stato trasformato, non fossero rivolte tutte verso il sangue pulsante di tutti quei ragazzi che, se avessero saputo la minaccia a cui erano esposti quotidianamente, non ci avrebbero messo molto a fare i bagagli e sparire da Forks. Jasper d’altro canto non era cattivo, semplicemente era ancora in balia ai suoi primordiali istinti e ancora pativa la nostra dieta alternativa, che prevedeva esclusivamente fauna locale. Se fosse dipeso da lui, avrebbe dato libero sfogo alla sua sete di sangue umano in qualsiasi momento; l’unico dettaglio per cui si tratteneva così tanto si chiamava Alice Cullen e per lei, lui avrebbe rinunciato perfino a se stesso – sconfinati erano i sentimenti verso quella donna dall’aria così deliziosa e gli occhi fulvi. «Dai, solo una sbirciatina», mi supplicò Emmett.
Sospirai, acconsentendo e cercai di concentrarmi esclusivamente sul gruppo di Jessica. All’inizio trovai qualche difficoltà, proprio perché per così tanto tempo mi ero allenato a isolarmi da tutte quelle voci secondarie che nessuno, a parte me, era in grado di captare. Mi ci volle qualche secondo.
Attraverso Jessica, potei ascoltare Angela Weber parlare, proprio come se le stessi di fronte.
«Ei, Jessica, guarda chi c’è!», diceva, con la sua piccola vocina e l’amica rispondeva con sufficienza, ma potevo captare un guizzo di divertimento nei suoi pensieri, Chissà cosa ne penserà Bella.., si chiedeva, fra sé e sé. «È un ragazzo che ti piace?», sentii per la prima volta la voce della nuova arrivata e era.. Stranamente piacevole all’udito. Jessica non tardò a ribattere, «No, cioè, sì, diciamo che c’è stato una sorta di.. Breve connessione fra noi. Ma a quanto pare nessuna è carina abbastanza per uno così», rispose con tono amaro.
Angela saltò subito su a rassicurare l’autostima più che vigorosa dell’amica, la quale non se le prestò granché interesse. Allora?, Emmett si intromise, Che dicono?
«Scemenze, per lo più.. Nulla di che», dissi, quasi sul punto di interrompere la connessione, ma poi, la nuova arrivata si espresse nuovamente.
«Magari è stupido», ipotizzò, sempre con fare distratto, «quindi è probabile che tu ti sia risparmiata una gran lagna». Angela Weber ci mise ben poco a correggere quella colossale idiozia, spiegandole che noi eravamo i migliori studenti del liceo – c’era forse da stupirsi? Frequentando così tante volte il liceo, anche se in diverse parti del mondo, per inserirci al meglio nella vita degli esseri umani, non c’era da meravigliarsi che fossimo i più bravi e capaci. E dire che quando ero ancora un essere umano ero così distante dall’essere uno studente modello, proprio ironica a volte la vita. Isabella ebbe come un lievissimo sussulto a quelle parole e si voltò nella nostra direzione, mostrando i suoi capelli lunghi e sciolti alla sua nuova compagna di classe che ne invidiava ogni più piccola sfaccettatura. Eccoci, si è subito girata, pensava divertita Jessica, ha provato un po’ a fare la finta tonta ma adesso.. Sono certa che voleva solo fare un po’ la preziosa, avrà di certo già visto i Cullen per i corridoi e adesso avrà semplicemente ceduto alla curiosità.. Magari si prenderà anche una cotta per uno di loro! Ah, buona fortuna, idiota!
Per una volta, i ragionamenti di Jessica parevano non fare una piega, eppure, una volta tornata nella posizione iniziale, non riuscii a scrutare sul volto della ragazza nessun tipo di sentimento, proprio come se il disinteresse nei nostri confronti fosse genuino.
«Non è interessata ai pettegolezzi», mormorai, con uno strano, lieve sentimento in corpo.
«Che peccato.. Speravo in una ficcanaso», disse Emmett alzandosi con insolita grazia dal tavolo, «Hai lezioni adesso?». «Biologia», risposi, imitandolo. «Beh, buona fortuna», rise Jasper.
Ci dividemmo non appena fuori dalla mensa, io mi infilai fra un gruppo disordinato di persone e mi diressi verso l’aula di Biologia II con poco interesse. Mi sedetti al solito posto, solo al primo banco – era sorprendente la capacità delle menti umane, seppur solamente a livello inconscio, di captare il pericolo nell’aria elettrica, desiderare di vedermi lontano, quasi come se non se lo sapessero spiegare, ma fossero certi che in me ci fosse qualcosa di avverso alla natura umana.
E per un attimo, quel pensiero mi fece divertire.
Poi, lei.
Entrò in aula e mi domandai come avessi potuto non accorgermene prima.
L’odore del suo sangue mi colpì come la peggiore fra le disgrazie, in una maniera così sfacciata, così tremenda da farmi girare la testa. Si sedette accanto a me, disinteressandosi completamente della sua salute fisica, quasi volendo sfidare il mio autocontrollo. Afferrai il bordo del banco, esercitando su di esso una pressione non quantificabile, provando a reprimere la mia sete e i mostri che si contorcevano dentro di me, mandando a fuoco il mio corpo – provai a smettere di respirare, ma ormai quell’odore era in me come un fantasma, una maledizione, una catastrofe; era in me e più provavo a non pensarci, più m’entrava dentro, inebriandomi, eccitandomi oltre ogni limite. La volevo in maniera spasmodica, più di qualunque altra cosa, io che non avevo mai desiderato nulla così disperatamente in tutta la mia esistenza, io che non avevo idea che un odore simile, una tale meravigliosa fragranza potesse esistere – avevo già assaggiato il sangue umano, ne avevo provato già l’odore, il gusto sulla mia lingua, nella mia gola arsa, ma questo.. Questo!
Mai avrei creduto possibile la sua esistenza, altrimenti avrei setacciato mezzo mondo anche solo per aggiudicarmene una stilla, mi sarei compromesso, avrei distrutto intere città, raso al suolo metropoli se solo avessi saputo prima cosa mi stavo perdendo. D’altro canto, adesso.. Il nostro incontro non poteva avvenire in una situazione più sfortunata: non avevo potere di far nulla, se l’avessi voluta tenere per me, in quel momento, avrei dovuto uccidere tutti i ragazzi presenti nell’aula, il professor Banner – solo vittime collaterali, un incidente di percorso di fronte ai miei occhi affamati – poi ci saremmo trasferiti, avremmo creato un diversivo, costruito un alibi, ce la saremmo cavata. La vidi disporre i suoi libri sul tavolo e decisi che, sì, doveva morire, dovevo avere quel sangue, non mi importava di nient’altro.
Fui sul punto di scattare per afferrarla, come il peggiore fra i suoi incubi, pronto per stroncarle le gambe e immobilizzarla, uccidere prima tutti i testimoni e infine godermi quel pasto come mio ultimo, bere fino all’ultima goccia del suo corpo liscio e sodo, assaporare la freschezza della sua giovinezza e poi ricordarmi di quell’attimo per sempre; fui sul punto di farlo, davvero, quando lei si voltò verso di me con un sorriso che non sembrava di circostanza, ma appariva gentile e delicato e con quella sua voce morbida disse, «Mi chiamo Bella». In un primo momento non la capii – si presentava soltanto per entrare in contatto con me e essere al centro del pettegolezzo locale o era una semplice frase di circostanza? Provai a scrutarle dentro, ma non udivo altro che silenzio, non percepivo niente, la sua mente era chiusa, i suoi pensieri celati da un velo impenetrabile. Rimase un attimo a fissarmi, sperando probabilmente in una mia risposta, ma io non dissi nulla, mi limitai a voltarmi dall’altra parte. «Il piacere è tutto mio», l’udii mormorare, fra sé e sé.
Oh, che tremendo sconforto mi aveva assalito, che incredibile vergogna mi aveva investito. La stavo per uccidere davvero, come se non fosse significato niente, come se si fosse trattato di un pezzo di carne qualsiasi. Ma lei mi aveva parlato, aveva schiuso le labbra, leggermente irregolari, e aveva sorriso e nel suo sorriso c’era una carezza lieve che mi aveva sfiorato appena, che con dolcezza mi aveva quasi detto, «Va tutto bene, ti perdono comunque». Nessuno mi aveva mai parlato così.
Nessuno.
E mai avevo potuto godere di un tale silenzio intorno a qualcuno – se soltanto il suo sangue non avesse rappresentato un dolore così accecante per me, sapevo sicuramente che sarei potuto essere anche felice, felice di stare semplicemente così, come quando ero ancora vivo.
Socchiusi gli occhi, provando a concentrarmi su qualcos altro, ma il fiotto di veleno che mi riempiva la bocca e la gola non faceva che peggiorare la situazione, il mio corpo teso la voleva, ne avevo bisogno.
Volevo farlo più di qualunque altra cosa, non c’era stato sangue umano che avessi bramato maggiormente, con la medesima intensità, eppure ero ancora fermo, ancora lì, i muscoli tesi e il volto girato verso la finestra sporca dell’aula. Era lì, accanto a me, cosa avrebbe potuto fare? Scappare? Tutti quei ragazzi avrebbero avuto una sola possibilità? Li avrei comunque potuti uccidere tutti e lei avrebbe avuto giusto il tempo per vedermi muovere – dopodiché, avrei segnato la sua fine, non le avrei nemmeno permesso di urlare, non le avrei concesso nemmeno il lusso di sentire la sua stessa voce un’ultima volta.
Sì, ero a un passo da soddisfare i miei demoni, di nutrire il mio inferno personale, già le fiamme stavano divampando in me feroci, fomentando la tempesta catastrofica che mi piegava al suo volere, c’ero, ero pronto, eppure.. Non mi muovevo e non lo capivo.
Mi ci volle più di quanto mi piaccia ammettere per capire cosa mi tratteneva – era il modo in cui guardava le cose, le sue lunghissime ciglia, i suoi capelli sciolti, posati con noncuranza su un lato. Era quella pelle traslucida attraverso la quale potevo così bene vedere le diramazioni violacee delle sue vene, sentire il suo cuore battere. Volevo ucciderla, più di quanto avrei potuto desiderare di tornare a sentire il mio corpo caldo e vivo, ma non ce la facevo, non potevo cancellarla, non riuscivo nemmeno a sfiorarla, quasi tutto il mio corpo si fosse completamente arreso alla debolezza della sua fragile esistenza, alle parole di riguardo che mi aveva rivolto pochi attimi fa («Mi chiamo Bella»), quasi nella speranza di mettermi a mio agio.
Ne fui colpito e al tempo stesso sconvolto, toccato profondamente.
Era ancora doloroso starle vicino, respirare la sua stessa aria, abbandonare la ferocia nelle crudeli intenzioni, rinnegare la parte più vera della mia natura, fingere di essere ciò che non ero, ma l’idea della sua morte mi turbava, l’idea di vederla fredda, immobile, le membra ghiacciate umide e molli che carezzavano la terra senza più poterla sentire realmente mi fece venir quasi voglia di piangere, piangere disperatamente lacrime che non esistevano più in me, che non sarebbero mai più comparse per rigare il mio volto perfetto.
Lacrime che mi si fermavano tutte dentro, logorandomi.
Quando la campanella suonò, scattai in piedi, lasciandomi l’aula alle spalle. Di corsa mi ficcai in Segreteria, aggrappandomi con foga all’ultima speranza che mi era rimasta.
«Signora Cope?», cercai di controllare il tono di una voce rotta, che tradiva un sentimento più imponente di quanto il mio cuore potesse sopportare.
«Dimmi Edward», sorrise lei, lasciando vagare libera la mente.
«Mi chiedevo se fosse possibile.. Cambiare il mio orario», le lanciai un’occhiata penetrante.
«C’è qualcosa che non va?», provò a resistere lei.
Scossi la testa, «Nulla, soltanto.. Mi chiedevo se ci fosse la possibilità di sostituire le mie lezioni di biologia con qualche materia dell’ultimo anno.. Ho già affrontato questi corsi, nella mia vecchia scuola».
«Hai qualche problema col professor Banner, per caso?», insisté lei.
«No», dissi, provando a controllare la rabbia nei confronti di quella donna grassa e fastidiosa, «ho solo voglia di cambiare». Quella schioccò la lingua, sistemandosi gli occhiali.
«Vediamo..», mormorò, passandosi sotto il naso pile e pile di scartoffie, «Non penso, mi dispiace, il corso risulta già al completo», disse dopo un po’, senza ancora aver levato lo sguardo dalla scrivania.
«Allora», tentai di nuovo, usando un tono di voce più suadente e mellifluo, «potrei studiare per conto mio? Andrebbe bene?». Quella mi squadrò per qualche momento, prima di dire, «Avrei bisogno di parlare con i tuoi genitori per autorizzare questo tipo di cambiamento».
Prim’ancora che potessi provare un’ultima volta, udii la porta della Segreteria aprirsi e girandomi la vidi di nuovo, Isabella Swan, che se ne stava in piedi sulla soglia, con quel suo solito broncio – l’odore del suo sangue, di tutto il suo corpo mi esplose in viso come una bomba e ci mise poco a riempire ogni angolo di quel posto. Mi voltai di scatto, «Ne è sicura quindi? Non posso cambiare corso?».
«Temo di no, caro. Ma se lo desideri potrei parlare col professor Banner..», proseguì quella, ma io la interruppi quasi immediatamente, informandola che rinunciavo comunque ai miei intenti.
Scappai da quel posto più velocemente che potei e mi ficcai in auto, deciso a tornarmene a casa.
Non c’era modo che la potessi allontanare da me, non mi restava che saltare tutte le lezioni e evitarla da quel giorno in poi, anche se prevedevo già la difficoltà di mettere in pratica un piano simile, specialmente perché lei parevo completamente indifferente alla mia presenza: non l’avrei definita un tipo spavaldo o eccessivamente sicuro di sé, ma di certo non la intimidivo, né la interessavo particolarmente. Una ragazza come Angela, o Jessica addirittura, loro sarebbero state più semplici da allontanare, poiché soggette al mio fascino e timorose delle mie reazioni. Avrei potuto facilmente trattarle male, o provare a minare la loro autostima, in modo che perdessero da sole la voglia di starmi vicine, ma lei no. A lei non sarebbe importato nulla nemmeno se le avessi fatto sfilare un candelotto di dinamite sotto il naso, no, probabilmente avrebbe arricciato il naso e corrucciato leggermente le sue labbra e avrebbe continuato a fare ciò che stava facendo, senza prestarmi neanche una briciola della sua attenzione. Era snervante, talmente tanto che ci misi un po’ a concentrarmi sul dettaglio più importante, e cioè che non ero stato in grado di leggerle la mente, durante l’ora di biologia. Pensai che forse, così occupato com’ero a mantenere la calma, non mi ero concentrato abbastanza e non ero stato capace di sfruttare a pieno i miei poteri: l’idea mi fece trasalire e inorridire al tempo stesso! Così poco era bastato per minare le mie capacità? Solo una nuvola di profumo, solo un unico passo falso, un solo piccolo imprevisto – mi domandavo cosa sarebbe potuto succedere la prossima volta.
Avrei perso il controllo? Sarei caduto, vittima del mio stesso inferno? Oppure..
Oppure no.
Magari avrei potuto presentarmi. Presentarmi?
Morii d’imbarazzo al solo pensiero, cosa mi saltava in mente? Con quali parole, con quale forza più che altro? Ma forse, se mi fossi nutrito abbastanza.. Solo un’ultima volta sarebbe bastata e avrei potuto sentire di nuovo la sua voce, rivedere le sue labbra incastonate in quel viso rubicondo a forma di cuore, pensai con una timidezza che scoprivo in quel giorno e per la prima volta. Strinsi le mani intorno alla pelle che rivestiva il volante, cosa mi saltava in mente? Era un essere umano! Lei era viva e fragile, mentre io..
Io ero già morto, non ero altro che una carcassa irrigidita dal dolore e fatta pietra da un paio di zanne. Io non facevo parte del suo mondo comunque. A volte non sentivo nemmeno il mio cuore battere e se anche per caso succedeva, in capo a una giornata intera, non potevo che rattristarmene – il suono che udivo non rappresentava più assolutamente nulla per me. Un tempo il mio cuore era una creatura selvaggia, imprevedibile, pulsante, ogni volta che lo sentivo palpitare, che il mio petto veniva sfiorato lui dava segno della sua presenza con fierezza, con trepidante sentimento. E invece adesso..
«Edward!», la voce di Esme mi richiamò, «Che ci fai in auto? Non entri?».
Mi resi conto solo allora di aver già spento il motore, ma di non aver mosso un muscolo da quel momento.
«Ti senti bene?», mi chiese con apprensione.
Annuii, aprendo lo sportello e uscendo.
«Avevi un viso così stravolto..», sfiorò il mio viso con il dorso della sua mano, tracciando una mezzaluna che mi toccava dall’orecchio sinistro alla punta del mento.
«Sto bene», mormorai, poco convinto, «forse avrei bisogno di fare due passi».
Lei mi sorrise, «Ma certo, dove pensavi di andare?».
Scrollai le spalle, «Non so.. Ho un po’ fame. Pensavo.. pensavo di andare a caccia, per il momento».
Esme mi lanciò una lunga occhiata, cercando di scrutarmi nel profondo, non come avrei fatto io ma piuttosto come avrebbe fatto una madre.
«D’accordo, tesoro», piegò lievemente la testa di lato, muovendo una ciocca di capelli, «torna presto», disse mentre mi preparavo a voltarle le spalle.
«Sì, lo farò», furono le mie ultime parole.
Poi, sparii nel fitto della foresta.

  
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