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Autore: cinquantunesimastrada    30/01/2014    1 recensioni
Olanda, 1942.
Sarah è una ragazzina ebrea di diciassette anni e mezzo, vive ad Amsterdam nel quartiere ebraico assieme a sua mamma, suo papà e suo fratello David.
La guerra è ancora in corso e le truppe tedesche delle SS sono venute a prendere lei e la sua famiglia per deportarli ad Auschwitz con altri ebrei di ogni dove. Tra i soldati tedeschi tanto odiati da Sarah, troverà l'amore.
Ora è solo questione di vita o di morte.
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Olanda, 5 luglio 1942.
Il Sole quel giorno non mi sembrava altro che spento, come se l’estremità di una sigaretta accesa fosse stata spenta con un soffio. Non era rimasta che la cenere ancora calda, certo, ma che presto si sarebbe raffreddata e sarebbe caduta a terra, disperdendosi. Mi guardai allo specchio e la mia immagine rifletteva una giovane ragazza sui diciassette anni e mezzo. I capelli biondo cenere ricadevano lunghi e poco mossi lungo la schiena, gli occhi azzurri, un tempo luminosi e vivaci, sembravano spenti proprio come quella sigaretta. Le labbra, invece, erano curvate in quello che doveva essere un sorriso, ma che aveva tutta l’aria di essere una smorfia.
Genere: Drammatico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti
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Olanda, 5 luglio 1942.

Il Sole quel giorno non mi sembrava altro che spento, come se l’estremità di una sigaretta accesa fosse stata spenta con un soffio. Non era rimasta che la cenere ancora calda, certo, ma che presto si sarebbe raffreddata e sarebbe caduta a terra, disperdendosi. Mi guardai allo specchio e la mia immagine rifletteva una giovane ragazza sui diciassette anni e mezzo. I capelli biondo cenere ricadevano lunghi e poco mossi lungo la schiena, gli occhi azzurri, un tempo luminosi e vivaci, sembravano spenti proprio come quella sigaretta. Le labbra, invece, erano curvate in quello che doveva essere un sorriso, ma che aveva tutta l’aria di essere una smorfia.
Oggi sarebbe stato il mio ultimo giorno in questa casa così troppo grande per una famigliola di solo quattro persone. Quando avevo sei anni, mio fratello ed io, correvamo sulle scale in modo così forte, che le persone al piano di sotto molte volte venivano ricoperte da piccolissimi granulini di polvere, ma che facevano sempre arrabbiare la mamma. Credo che quelle scale mi mancheranno, come mi mancherà la cucina, l’odore di caffè appena macinato e il profumo del pane fatto in casa.
Oggi sarebbe stato il giorno in cui gli ebrei come me, sarebbero stati portati via dai tedeschi. Come lo sapevo? Il mio modulo di convocazione da parte dei nazisti della Germania era ancora poggiato sulla scrivania dietro di me ed indicava data, ora, luogo e l’occorrente da dover portare con sé. Ma che colpa poteva avere una ragazzina come me? Non avevo scelto io di essere ebrea. Ero così e basta. Non potevo cambiare, sarebbe stato come rinnegare me stessa e le mie origini, i miei valori, la mia religione.
Gli ebrei e tutti i non-ariani erano il rifiuto dell’umanità. Con quale coraggio riuscivano, i nazisti, a guardarsi in faccia? Davanti al Signore Iddio eravamo tutti uguali, nessuno escluso. Era questa la convinzione che mi portavo nel cuore e quando sarebbe arrivata la nostra ora, l’Iddio ci avrebbe giudicato.
Mi alzai dalla mia postazione ed uscii dalla mia camera, scesi le scale a chiocciola e trovai la mia famiglia tutta riunita a discutere sul da farsi.
« Scapperemo in Palestina..» stava dicendo papà alla mamma ed a mio fratello David.Guardai la mamma così bella e giovane con una leggera vena di preoccupazione dipinta in volto, le mani le tremavano leggermente. Nessuno sapeva cosa ci sarebbe aspettato una volta preso il treno ed essere partiti per chissà dove verso est.
« Papà, ragiona. Non possiamo scappare in Palestina, non c’è più tempo per farlo. I tedeschi hanno accerchiato il nostro quartiere, è circondato dalle loro truppe. Ci faranno fuori! » non volevo che mio padre si illudesse, non era giusto. Bisognava guardare in faccia la realtà, bisognava essere realisti. Non ci avrebbero permesso di lasciare né Amsterdam né l’Olanda stessa, ci avrebbero portati via senza nemmeno passare dallo “start”. Due giorni fa dei soldati delle truppe tedesche avevano ucciso un bambino e sua madre, per il semplice fatto che erano ebrei e stavano cercando di espatriare dall’Olanda. “Das ist nicht möglich” avevano detto, non è possibile e poi solo il colpo di due spari a spaccare il silenzio fortissimo del quartiere ebraico di Amsterdam.Ormai niente era più possibile per gli ebrei, nemmeno respirare perché molto probabilmente infettavano l’aria degli ariani. Avevo voglia di urlare, di ribellarmi! Ma sembravo completamente sola nel volerlo fare.
« Sarah. » mio padre disse il mio nome con voce talmente flebile che mi dovetti sforzare per udirlo.« Perché parli così? Dove hai riposto la tua fede nell’umanità? » le parole di mio padre furono come uno schiaffo in faccia. Dove avevo riposto la mia fede per l’umanità? Era sparita nel momento stesso in cui mi avevano espulsa dalla scuola a causa della mia religione. Con che cuore potevano dire ad un bambino o ad un ragazzino, desideroso di imparare ogni giorno cose nuove, di essere stato espulto dalla propria scuola? La scuola doveva essere un diritto per tutti. L’imparare nuove lingue, nuove culture, nuove religioni, nuove storie era un nostro diritto. Sfornavano leggi antisemitiche come se fossero pezzi di banconote: gli ebrei dovevano portare la stella di David; gli ebrei dovevano consegnare le biciclette; gli ebrei non potevano prendere il tram; gli ebrei non potevano nemmeno andare in auto; gli ebrei potevano fare la spesa solo tra le 15:00 e le 17:00 del pomeriggio, due ore libere; gli ebrei potevano andare solo da parrucchieri ebrei; gli ebrei non potevano uscire per strada dalle 20:00 alle 6:00 della mattina; gli ebrei non potevano frequentare teatri, cinema o altri luoghi di divertimento; gli ebrei non potevano andare in piscina né nei campi da tennis né nei campi di hockey o qualunque altro campo sportivo; gli ebrei non potevano trattenersi nel loro giardino o in quello degli altri dopo le otto di sera; gli ebrei non potevano andare a casa dei non ebrei; gli ebrei dovevano frequentare solo scuole ebraiche; e la lista continuava. Sembravamo agli arresti domiciliari, solo che noi eravamo ebrei. Il fatto di essere di religione ebraica, complicava tutto. E’ da precchio tempo che non vado in bicicletta. E’ da parecchio tempo che non mi siedo sulla panchina. E’ da parecchio tempo che non vado al cinema. E’ da parecchio tempo che non vivo la mia vita. E’ da parecchio tempo che l’essere ebrea, è una condanna.
« Sono semplicemente realista. Credi che un po’ d’oro basti a loro? Loro vogliono la tua vita. Quello è il loro oro più grande. » non riuscivo a capire perché mio padre non riuscisse a vedere ciò che vedevo io.
Le leggi razziali non bastavano a fargli vedere dove il nazismo ci stava portando? Pochi erano gli ebrei come me che capivano come stavano andando il corso delle cose. Ci chiamavano “pessimisti”, io li chiamavo “stupidi”. Come ogni essere umano ci tenevo alla mia vita. Volevo sposarmi un giorno, avere dei figli ed un marito a cui donare tutto l’amore che avevo in corpo. Avevo tanti sogni riposti nel cassetto ed i nazisti lo stavano sigillando con le loro leggi. Sono certa che quel cassetto non si sarebbe riaperto tanto facilmente, ci sarebbe voluto un miracolo. Proprio quando mio padre fece per parlare, si sentirono dei tonfi provenienti dalle scale che portavano ai vari appartamenti della palazzina. Noi eravamo all’ultimo piano ed avevamo l’appartemento più grande ed il più bello di tutti, compresa la mansarda dove c’era la stanza mia e di David. Quest’ultimo era un tipo taciturno, se ne stava sempre sulle sue e non esprimeva quasi mai la sua opinione. Faceva sempre quello che gli veniva chiesto di fare e non diceva mai di no a nessuno. Non sapevo se definirlo buono o stupido. Io, Sarah Dekker, odiavo stare zitta. Io dovevo sempre dire la mia, perché se mi avessero tolto anche la parola cosa mi sarebbe restato d’altro? I nazisti si erano presi tutto, comprese le vite di milioni e milioni di ebrei. Di mio avevo ancora i pensieri e la parola, se me li avessero tolti non capivo che senso aveva continuare a vivere.
Dall’interno del palazzo si potevano sentire porte che sbattevano e le valigie che venivano sbattachiate a destra ed a sinistra contro il muro o la ringhiera delle scale. Si potevano udire i bambini chiedere dove fossero diretti ed i genitori rispondere “a fare una gita con altri ebrei”. Si potevano udire i passi coordinati delle truppe tedesche, i pugni chiusi che battevano contro le porte con una rabbia feroce, assassina.
Un colpo e un’altro ancora contro la porta di casa mia.
La mamma scattò in piedi.
Secondo colpo.
Papà afferrò la mano della mamma.
Terzo colpo.
« Ci sono ebrei qui dentro? » urlò un soldato tedesco.
Quarto colpo.
Nessuna risposta.
Quinto colpo.
« Ci sono ebrei? » urlò di nuovo.
Papà aprì la porta con estrema lentezza e, in quel momento, sentii la Terra smettere di fare il suo consueto moto attorno al Sole.
« Sì, ci sono ebrei. » la voce di mio padre non era altro che un sussurro appena udibile, ma che raggiunse le orecchie del tedesco dallo sguardo di ghiaccio come se fosse urlato a pieni polmoni.
Quel giorno il Sole non mi era mai sembrato più spento.

  
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