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Autore: Mr Nobody    01/02/2014    0 recensioni
Un uomo. Solo. In una stanza d'albergo. Seduto accanto alla finestra. Una grigia città fuori dal vetro. I suoi occhi la esplorano analiticamente, curiosi, avidi, in cerca di qualcosa, qualunque cosa a cui potersi aggrappare...
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'The Waiting Watcher [Raccolta di one-shot]'
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Racconto alla cui lettura accosterei i lyrics di questa canzone: http://www.youtube.com/watch?v=4zLfCnGVeL4 (Simon & Garfunkel - The Sound of Silence), e per la cui lettura consiglierei, come musica di sottofondo, questo pezzo: http://www.youtube.com/watch?v=luM6oeCM7Yw (Mogwai - Take Me Somewhere Nice). 

I hope you enjoy this. : )

[Immagine tratta da "L'illusionniste"]

 


THE SOUND OF SILENCE


PNG

 

 

Il silenzio era l'unica cosa che colmava lo spazio circostante: un'umile stanza in cui sedevo, nella penombra, acquattato sulla seggiola 
di una scrivania in mogano. Da tale postazione avevo modo di guardare liberamente fuori dal polveroso vetro della finestrella, 
rigidamente chiuso per non far entrare alcun refolo di vento - che in quei giorni infuriava e in strada spazzava via carte e cartacce, si 
insinuava nelle vesti della gente e pungolava la pelle nuda dei passanti, increspava le acque del fiume e si abbatteva con furia sulle 
chiome degli alberi, i quali, piegati sotto l'impellente pressione delle folate d'aria, perdevano qualche misera foglia. L'ululato del vento 
era infatti l'unico elemento sonoro che riusciva ad insinuarsi nella placida calma di quel quieto pomeriggio, ma si armonizzava così 
bene col silenzio che non dava fastidio alcuno, bensì mi cullava nelle mie metidazioni errabonde, come un flebile crescendo musicale. 
Il suo soffio, che mi giungeva ovattato per via della lucida e spessa superficie della piccola vetrata - e che invece all'aperto era gonfio 
e pomposo -, era per le mie orecchie un soave lamento, che saliva come una potente marea e poco dopo si affievoliva e si placava 
per lasciar spazio alla quiete obliante. 
La camera era avvolta da una semioscurità e l'unica fonte di luce era rappresentata dal riquadro dell'infisso, da cui entrava un po' della 
bigia luce superstite del sole, timidamente nascosto dietro ad una fitta coltre di nubi plumbee, che parevano cariche di pioggia, 
nonostante in realtà ultimamente esse solevano sostare sulla volta celeste innocue ed al contempo opprimenti. Il mio sguardo vagava 
appunto sul lugubre paesaggio che mi si parava dinanzi: trovandomi in posizione rialzata, potevo osservare le tristi e insignificanti 
facciate dei palazzi prospicienti quello in cui alloggiavo, i cui muri fatiscenti facevano risaltare ai miei occhi le crepe e ne esibivano 
fieramente i nudi mattoni imbiancati dalle intemperie. Le finestre schierate in fila presentavano le tapparelle abbassate, come occhi 
omertosi e ciechi che ignoravano il mondo, rifiutandosi di prender parte alla testimonianza e alla denuncia di tutta la sua laidezza e di 
ricambiare il mio sguardo attento, scrutatore; quei serramenti negavano inoltre alla mia curiosa indagine visiva di penetrare oltre e di 
veder svelati gli interni delle strutture. Pertanto spostai la mia attenzione altrove, dapprima sollevando gli occhi al cielo, la cui fosca 
cappa minacciosa mi ammaliava non poco, e poi abbassandoli sugli squarci di strada visibili dalla mia ubicazione: la pavimentazione 
composta da un regolare acciottolato, bello da vedere in quanto immagine fatta di equilibrio e sobrietà, si snodava in vari viottoli, che 
si intrufolavano testardamente fra i muri delle diverse abitazioni e che erano attualmente spopolati - fatta eccezione per qualche rara 
figura imbacuccata, stretta nel proprio cappotto, magari con una sciarpa avvolta attorno al collo, o, se più pervicace, persino munita 
di ombrello (ovviamente sferzato dal vento) -. Esaminai il lungofiume desolato, la cui visuale mi arrivava pressoché lontana, 
nondimeno definita: il basso parapetto di pietra costeggiava l'intera via che procedeva parallelamente all'acqua del torrente, a tratti 
tranquillamente immobile, a tratti mossa e ondulata dalle ventate irregolari.
Dove andava a finire quel fiumiciattolo? Pur avendolo osservato innumerevoli volte, era la prima occasione in cui mi ponevo tale 
domanda. Eppure si sarebbe detto fosse una delle prime cose che verrebbe da chiedersi nel vedere un canale d'acqua... Tuttavia, la 
forza dell'abitudine, la sicurezza della staticità delle cose e la pigrizia della mente di volerne ammettere i mutamenti mi avevano sempre 
fatto accettare quel fiume come parte della città, una presenza immutabile e irremovibile, quasi esclusiva del luogo, e perciò non mi 
ero mai curato di immaginarne un prosieguo, di figurarmi un possibile tratto che andasse oltre questo borgo desolato e dimenticato, 
che si allontanasse da questo posto a me così caro, lontano dal mare e incassato in un'appartata valle solitaria. 
Ad ogni modo, mentre lasciavo che il mio sguardo ozioso sfiorasse a pelo le acque, tetramente incupite dallo strato di nubi cineree, 
un rumore secco mi piombò addosso improvvisamente, inaspettato: un ticchettio sordo contro il vetro, che mi fece sobbalzare e 
distrasse il mio raccoglimento riflessivo. Una goccia, una sola, si era abbattuta sulla superficie trasparente della finestra, seguita subito 
dopo da qualche altra. Nel giro di pochi minuti  s'era messo a piovere regolarmente, sommessamente. La lenta e indolente scarica 
d'acqua produceva quel suono ipnotico che a me era tanto familiare, poiché tante volte m'ero fermato ad ascoltarlo con attrazione, e 
che io trovavo tanto delicato; siffatto crosciare, accompagnato al fischio smorzato del vento, mi faceva cadere in una trance tale da 
farmi assopire e intorpidire tutto.
E così, coi nervi distesi e le membra rilassate, mi abbandonai sul comodo sedile, gli occhi rapiti dal piovasco imprevisto, la testa 
mollemente poggiata sulle braccia conserte, a loro volta poste sullo scrittoio. Qualche foglio di carta giaceva abbandonato sulla 
superficie del tavolo e una matita intoccata era rotolata via, sul bordo spigoloso, minacciando di cadere. Ma io non me ne premurai, 
attirato com'ero nel limbo sonnacchioso in cui versavo e a cui presto mi sarei arreso, uomo debole e alla continua e disperata ricerca 
di qualcosa; un qualcosa capace di entusiasmare ancora il fanciullo trascurato che sonnecchiava nel mio animo, ma che per ora era 
rimasto distante da me, celato e irreperibile.
E intanto fuori pioveva, e il cielo seguitava incessante a gettar giù acqua a secchiate sulla mia finestra, sul tetto dell'albergo, su tutta la 
città, e, crudele e spietato, non risparmiava niente e nessuno. 



Il silenzio era l'unica cosa che colmava lo spazio circostante: un'umile stanza in cui sedevo, nella penombra, acquattato sulla seggiola di una scrivania in mogano. Da tale postazione avevo modo di guardare liberamente fuori dal polveroso vetro della finestrella, rigidamente chiuso per non far entrare alcun refolo di vento - che in quei giorni infuriava e in strada spazzava via carte e cartacce, si insinuava nelle vesti della gente e pungolava la pelle nuda dei passanti, increspava le acque del fiume e si abbatteva con furia sulle chiome degli alberi, i quali, piegati sotto l'impellente pressione delle folate d'aria, perdevano qualche misera foglia. L'ululato del vento era infatti l'unico elemento sonoro che riusciva ad insinuarsi nella placida calma di quel quieto pomeriggio, ma si armonizzava così bene col silenzio che non dava fastidio alcuno, bensì mi cullava nelle mie metidazioni errabonde, come un flebile crescendo musicale. Il suo soffio, che mi giungeva ovattato per via della lucida e spessa superficie della piccola vetrata - e che invece all'aperto era gonfio e pomposo -, era per le mie orecchie un soave lamento, che saliva come una potente marea e poco dopo si affievoliva e si placava per lasciar spazio alla quiete obliante. 

La camera era avvolta da una semioscurità e l'unica fonte di luce era rappresentata dal riquadro dell'infisso, da cui entrava un po' della bigia luce superstite del sole, timidamente nascosto dietro ad una fitta coltre di nubi plumbee, che parevano cariche di pioggia, nonostante in realtà ultimamente esse solevano sostare sulla volta celeste innocue ed al contempo opprimenti. Il mio sguardo vagava appunto sul lugubre paesaggio che mi si parava dinanzi: trovandomi in posizione rialzata, potevo osservare le tristi e insignificanti facciate dei palazzi prospicienti quello in cui alloggiavo, i cui muri fatiscenti facevano risaltare ai miei occhi le crepe e ne esibivano fieramente i nudi mattoni imbiancati dalle intemperie. Le finestre schierate in fila presentavano le tapparelle abbassate, come occhi omertosi e ciechi che ignoravano il mondo, rifiutandosi di prender parte alla testimonianza e alla denuncia di tutta la sua laidezza e di ricambiare il mio sguardo attento, scrutatore; quei serramenti negavano inoltre alla mia curiosa indagine visiva di penetrare oltre e di veder svelati gli interni delle strutture. Pertanto spostai la mia attenzione altrove, dapprima sollevando gli occhi al cielo, la cui fosca cappa minacciosa mi ammaliava non poco, e poi abbassandoli sugli squarci di strada visibili dalla mia ubicazione: la pavimentazione composta da un regolare acciottolato, bello da vedere in quanto immagine fatta di equilibrio e sobrietà, si snodava in vari viottoli, che si intrufolavano testardamente fra i muri delle diverse abitazioni e che erano attualmente spopolati - fatta eccezione per qualche rara figura imbacuccata, stretta nel proprio cappotto, magari con una sciarpa avvolta attorno al collo o, se più pervicace, persino munita di ombrello (ovviamente sferzato dal vento) -. Esaminai il lungofiume desolato, la cui visuale mi arrivava pressoché lontana, nondimeno definita: il basso parapetto di pietra costeggiava l'intera via che procedeva parallelamente all'acqua del torrente, a tratti tranquillamente immobile, a tratti mossa e ondulata dalle ventate irregolari.

Dove andava a finire quel fiumiciattolo? Pur avendolo osservato innumerevoli volte, era la prima occasione in cui mi ponevo tale domanda. Eppure si sarebbe detto fosse una delle prime cose che verrebbe da chiedersi nel vedere un canale d'acqua... Tuttavia, la forza dell'abitudine, la sicurezza della staticità delle cose e la pigrizia della mente di volerne ammettere i mutamenti mi avevano sempre fatto accettare quel fiume come parte della città, una presenza immutabile e irremovibile, quasi esclusiva del luogo, e perciò non mi ero mai curato di immaginarne un prosieguo, di figurarmi un possibile tratto che andasse oltre questo borgo desolato e dimenticato, che si allontanasse da questo posto a me così caro, lontano dal mare e incassato in un'appartata valle solitaria. 

Ad ogni modo, mentre lasciavo che il mio sguardo ozioso sfiorasse a pelo le acque, tetramente incupite dallo strato di nubi cineree, un rumore secco mi piombò addosso improvvisamente, inaspettato: un ticchettio sordo contro il vetro, che mi fece sobbalzare e distrasse il mio raccoglimento riflessivo. Una goccia, una sola, si era abbattuta sulla superficie trasparente della finestra, seguita subito dopo da qualche altra. Nel giro di pochi minuti  s'era messo a piovere regolarmente, sommessamente. La lenta e indolente scarica d'acqua produceva quel suono ipnotico che a me era tanto familiare, poiché tante volte m'ero fermato ad ascoltarlo con attrazione, e che io trovavo tanto delicato; siffatto crosciare, accompagnato al fischio smorzato del vento, mi faceva cadere in una trance tale da farmi assopire e intorpidire tutto.

E così, coi nervi distesi e le membra rilassate, mi abbandonai sul comodo sedile, gli occhi rapiti dal piovasco imprevisto, la testa mollemente poggiata sulle braccia conserte, a loro volta poste sullo scrittoio. Qualche foglio di carta giaceva abbandonato sulla superficie del tavolo e una matita intoccata era rotolata via, sul bordo spigoloso, minacciando di cadere. Ma io non me ne premurai, attirato com'ero nel limbo sonnacchioso in cui versavo e a cui presto mi sarei arreso, uomo debole e alla continua e disperata ricerca di qualcosa; un qualcosa capace di entusiasmare ancora il fanciullo trascurato che sonnecchiava nel mio animo, ma che per ora era rimasto distante da me, celato e irreperibile.

E intanto fuori pioveva, e il cielo seguitava incessante a gettar giù acqua a secchiate sulla mia finestra, sul tetto dell'albergo, su tutta la città, finanche sulla mia anima, e, crudele e spietato, non risparmiava niente e nessuno. 

 

  
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