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Autore: Lilu_wolf    02/02/2014    2 recensioni
Mi chiamo Hope. E questa è la mia storia, di come ho ucciso, e sono stata uccisa
Una fenice non muore
Genere: Dark, Introspettivo, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 2
Al nostro Joe che disegna le balene negli spazi vuoti

La macchina procedeva silenziosa.  Al suo interno due persone stavano zitte, ma interiormente scoppiavano di domande. Joe voleva sapere chi era quella bambina, perché aveva sparato un uomo, cosa faceva, cosa ne pensava di lui. Hope voleva capire perché quell’uomo l’aveva adottata, chi era, che tipo di vita avrebbe condotto, che tipo era. Joe si schiarì la voce                                                                         
       –Allora, Hope. Io non voglio sostituirmi al tuo papà, perché un padre già lo hai. Perciò, se vuoi, io ti lascerò il tuo cognome originale, Buttercup-  cominciò, osservandola con la coda dell’occhio, per vedere come avrebbe reagito. Lei non si mosse. Non fece nulla                                                                                  
No. non lo voglio- disse, dopo un po’   
   –D’accordo, allora ti va bene se sarai Hope Welshire?-   
   -Suona bene- per la prima volta, Joe la vide sorridere. Un sorriso di sfuggita, fulmineo, un angolino della bocca che si sollevò e poi si abbassò. Decise di provarci di nuovo  
  –Vuoi sapere dove vivrai?- lei scosse le spalle, incurante. –La casa in cui abito è piccolina. Vivo solo.. da un po’- s’interruppe un istante, per stringere i denti. La bambina si girò verso di lui                      –Perché?-                                                                                                                                                                                     -Mia… moglie, Corinne. È morta tre mesi fa. Lei.. ti avrebbe adottato sicuro, e sarebbe stata molto felice di averti con noi- parlò velocemente. Hope si morse il labbro, e decise di fargli cambiare discorso, per non farlo soffrire. Ruppe nuovamente il silenzio, con la sua vocetta limpida       
–Mi stavi dicendo della casa- 
-Oh, si, è piccola, ma si sta bene. Io faccio l’avvocato, perciò quando sei a scuola, io sarò in ufficio. Sai, mi hanno dato una caparra, per farti frequentare una piccola scuola. Vedrai, ti troverai bene. Solo che ci sono delle regole. Ovviamente non le ho messe io, le regole. Ti accorgerai che sono leggermente diverso da come mi presento- ridacchiò. Hope, cercando di non darlo a vedere, lo osservava incantata.   
–Immagino che tu non sia un povero vedovo santarellino- Momorò, piano                                                         –Mi piace divertirmi, ma non amo nessuna ragazza o donna- disse lui, tornando a guardare la strada –Ti dà fastidio?- No, per nulla- scrollò le spalle, Hope. Chissenefrega, se aveva delle compagne che circolavano per casa. Non aveva proprio dormito negli ultimi giorni. Sentii le palpebre farsi pesanti, e crollò contro il finestrino. 
Quando si svegliò era notte –Quanto ho dormito?- domandò stupita –Più di 12 ore- rispose Joe, senza batter ciglio –Stiamo per arrivare a casa. Se hai fame, c’è il pranzo, o cena, o colazione, siccome sono le cinque del mattino- Hope mangiò un paio di panini, e bevve un po’ d’acqua. Mentre la macchina sfrecciava in un lungo tunnel, cercò di pensare a cosa lasciava, e cosa avrebbe trovato. Circa sette ore dopo, oltrepassarono i cartelloni che indicavano l’inizio di Londra. Hope si stupì del traffico, della polvere, del chiasso, dei palazzi e delle strade. Spalancò gli occhi, e cercò di assorbire ogni particolare. Tutto era caotico. Eppure ordinato. Era un caos. Ma era fantastico –Ti abituerai- ridacchiò Joe, guidando fino ad un parcheggio
-Casa- esclamò, aprendo la porta blindata. Hope si trovò in un piccolo ingesso. La casa aveva solo un bagno, foderato di piastrelle verde mela, con una grande specchiera e una doccia abbastanza larga, un angolo cottura che terminava con un lungo bancone. Oltre il bancone c’era un salone abbastanza largo. Un divano color tortora, difronte alla parete attrezzata, faceva la sua bella figura, accanto ad una consolle di legno che pareva molto antica. Un tavolo di cristallo, con sopra un grosso lampadario, era confinato all’angolo del salone, che formava un secondo ambiente, anche se collegato al primo. C’erano due camere da letto. La prima era antica, c’era un grosso letto di legno di quercia, accanto ad una scrivania piena di carte dove si gettava la luce di una lunga finestra, dando all’ambiente un’aria luminosa e fresca. Un grosso armadio troneggiava lungo mezza parete, condividendola con molti quadri di arte moderna, e parecchi attestati, lauree e master. La seconda.. Joe si fermò sulla porta della seconda camera. Era stata Corinne a volerla: avevano deciso che quella sarebbe stata la stanza dei loro bambini. Posò la fronte sulla porta fresca, e poi scivolò dentro. Ci sarebbe stato parecchio lavoro da fare. Però la stanza era bella: c’era una finestra che dava sul parco di fronte casa sua. Una piccola libreria bianca, perfetta per metterci volumi scolastici, ma anche libri da leggere, e suppellettili. Joe si chiese se Hope amasse leggere. Aveva chiamato il suo socio qualche giorno prima, facendogli ordinare dei mobili per arredarla, ma doveva ancora pittarla.  Per quella notte portò una brandina nella stanza, e raccomandò ad Hope di chiamarlo per qualsiasi cosa. Lei annuì. Joe studiò qualche causa importante. Preparò una cena veloce, perché  Hope era provata dal lungo viaggio, e doveva abituarsi al fuso orario. Si scolò una birra. Poi andò a dormire, perché era esausto. Ma come posò la testa sul cuscino, la stanchezza passò. Si trovò a riflettere. Cosa aveva appena fatto? Aveva adottato una bambina, una piccola killer. Si ritrovò a pensare alla bocca sottile di Hope, ai suoi occhi verdi brillanti, alla sua faccia affilata, ai suoi capelli morbidi e scuri come la notte. Alla sua figurina piccola e indifesa, e alla sua voce… -Joe- ecco, era così, come un uccellino spaventato.. eh?! –Joe?- Joe sentì dei passettini che tornavano in stanza –Hope!- chiamò. Hope, che stava tornando in camera, corse nuovamente in camera di Joe. Aveva profonde occhiaie, come se fosse stata inseguita dai demoni 
 –Ho fatto un incubo- disse, strusciando i piedini nudi l’uno contro l’altro. Aveva un pigiamino leggero, uno dei suoi vestiti che, per fortuna, si era portato.  
  –Lo vedo- mormorò lui comprensivo. Ma cosa poteva fare? Cosa dirle? 
   –Ti va di dirmi cosa hai sognato?- 
  -La realtà- Joe deglutì. Anche lui sognava spesso la realtà. Una realtà dove corinne non c'era più, e lui era solo.  
     –Hope. Tu sei innocente. Perché ti sei condannata?- non era una domanda. Ma lei si limitò a fissarlo con i suoi occhi scintillanti.  
–Bhe, cosa vuoi fare..- momorò l’avvocato, dopo un po’. Hope era in imbarazzo   
   –Ok, allora ne parliamo domani..-  
  -Joe!-  
   -Si, Hope?-   
   -Posso.. posso dormire con te?-
   Joe non disse nulla, ma allargò le braccia. La bambina entrò circospetta nel letto, senza accettare l’abbraccio.  Si girò su un fianco, e rimase immobile. Joe si addormentò, fissando la sua spina dorsale. Si svegliò poco dopo, sentendo un calore improvviso. Hope, nel sonno, lo stava abbracciando. Mormorava parole convulse nel sonno, e Joe ne colse una in particolare     
  –Papà..-      
  lo sapeva che lei intendeva il soldato Buttercup, ma in quel momento gli venne spontaneo dire
     –Sono qui, Hope. Sono qui- 
  Si, aveva decisamente fatto la scelta giusta. Lei non era una piccola killer. Lei era un piccolo sassolino di fiume, una fogliolina di una quercia. E lui l’aveva salvata. Abbracciò la bambina, e si addormentò.

Un colpo. Due colpi. Alla fine un calcio. La porta si apre di colpo –Joeeee- urla una ragazza. Ha i capelli neri e gli occhi verdi –Buongiorno dolcezza- esclama un uomo sbracato sul divano. Ha i capelli in disordine. La barba non rasata, e la camicia sbottonata –Hai fatto di nuovo tardi, ieri- sbotta Hope, trascinando un cestino, e cominciando a raccattare le bottiglie di birra –Chissà cosa direbbero i giudici, vedendo che sei cresciuta con un ubriacone donnaiolo- scherza il poco sobrio avvocato –Vado a prepararti un impacco per il dopo sbornia. Ti servirà tra un po’- esclama la ragazza, gettando via il suo maglione, e restando in canottiera. Oltre lo strato di alcol, l’uomo vede chiaramente la sottile e affilata linea di Hope, e si morde un labbro. Quando la ragazza si inginocchia per pulire una chiazza di bagnato a terra, il cuore dell’uomo si stringe, vedendo la fila di tagli e lividi che spuntano sulla schiena e la spalla della sua piccola –Sai, è in momenti come questi che vorrei andare a castrare a suon di calci tutti quei figli di puttana che ti hanno fatto questo- mormora. Hope si copre velocemente la schiena, abbassandosi bruscamente la canottiera, e mettendosi una mano sulla spalla –Quante volte ti ho detto che mi fa più male sentirti parlare così, che quello che loro… mi hanno fatto- deglutisce, stringendo i denti –E tutte le sue conseguenze- Joe stringe i pugni, fino a farsi diventare le nocche bianche –Josky- lo richiama dolcemente la ragazza –Va tutto bene. Io sto bene- Joe va in bagno, Hope lo sente imprecare e vomitare, e rabbrividisce. Se i  giudici sapessero che in realtà è lei che da cinque anni si prende cura del padre adottivo gli leverebbero immediatamente la custodia. Ma il giorno prima erano esattamente sei cinque anni che Corinne era morta. Era ovvio che Joe avesse ceduto all’alcol, almeno quella sera. Entra in bagno, e lo prende sottobraccio, conducendolo in camera sua. Nulla è cambiato, da quando è arrivata in quella casa. Forse la sua stanza è l’unica ad essersi evoluta, e lentamente sono apparse piccole cose, come foto di loro due, souvenir, pagelle scolastiche. Deposita Joe sul suo letto, e telefona a Miss.Kindle, la sua nuova segretaria e probabilmente futura compagna –Miss Kindle? Sono Hope Welshire. Senta, Joe non potrà venire in ufficio oggi, ehm.. è molto, molto malato. Si, ha provato ad alzarsi dal letto, ma glielo ho impedito. Non vogliamo che stia peggio di prima, non trova? Bene, grazie, arrivederci!-  dice, attaccando in faccia alla povera segretaria, che si trova a fronteggiare da sola un’orda di clienti imbufaliti. Hope Chiude le tende, e mette una borsa d’acqua fresca sulla fronte dell’avvocato –Hope?- Sono qui, Joe- mormora la ragazza –Perché non mi chiami papà?- biascica lui –Abbiamo lo stesso cognome- Hope sorride –Ma non lo stesso sangue- Già, nelle tue vene scorre il sangue di un’assassina- esclama lui, fingendo di rabbrividire –Sono innocente, e già lo sai. Ora cerca di dormire. E se vuoi qualcosa, chiamami. Vado a fare un the-  mormora lei, alzandosi. Mentre il bollitore emette il suo classico borbottio, Hope si accomoda sul divano, accarezzando distrattamente Kill, il suo cane –Sei un bastardo come me, Kill. Non sai mai chi sono i tuoi genitori- mormora, passandosi la mano sulla spalla piena di lividi. Quello che non sa, Hope, era che lo capirà presto, chi è la sua famiglia.
 
   
 
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