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Autore: greenslove    03/02/2014    0 recensioni
Hazel ha sedici anni, ma ha già alle spalle un vero miracolo: grazie a un farmaco sperimentale, la malattia che anni prima le hanno diagnosticato è ora in regressione.
Ha però anche imparato che i miracoli si pagano: mentre lei rimbalzava tra corse in ospedale e lunghe degenze, il mondo correva veloce, lasciandola indietro, sola e fuori sincrono rispetto alle sue coetanee, con una vita in frantumi in cui i pezzi non si incastrano più.
Un giorno però il destino le fa incontrare Harry, affascinante compagno di sventure che la travolge con la sua fame di vita, di passioni, di risate, e le dimostra che il mondo non si è fermato, insieme possono riacciuffarlo.
Ma come un peccato originale, come una colpa scritta nelle stelle avverse sotto cui Hazel e Harry sono nati, il tempo che hanno a disposizione è un miracolo, e in quanto tale andrà pagato.
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QUESTA STORIA NON E' MIA. E' UN LIBRO DI JOHN GREEN, PERO' MI E' PIACIUTA COSI TANTO CHE HO PENSATO DI CONDIVIDERE QUESTA MERAVIGLIOSA STORIA ANCHE CON VOI.
Buona lettura
Genere: Commedia, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: Harry Styles, Niall Horan, Nuovo personaggio
Note: AU, Otherverse, Traduzione | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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The Fault in Our Stars (Colpa delle stelle)


«Non ti uccidono, se non le accendi»
«E non ne ho mai accesa una. È una metafora, sai:
ti metti la cosa che uccide fra i denti, ma non le dai il potere di farlo.»

 - Augustus Walters ( John Green- Colpa delle stelle)



Capitolo uno



Nel tardo inverno dei miei sedici anni mia madre ha deciso che ero depressa, presumibilmente perché non uscivo molto di casa,
passavo un sacco di tempo a letto, rileggevo infinite volte lo stesso libro, mangiavo molto poco e dedicavo parecchio del mio
abbondante tempo libero
a pensare alla morte.
Sugli opuscoli che parlano di tumori o nei siti dedicati, tra gli effetti collaterali del cancro c’è sempre la depressione.
In realtà la depressione non è un effetto collaterale del cancro. La depressione è un effetto collaterale del morire.
(Anche il cancro è un effetto collaterale del morire. Quasi tutto lo è, a dire il vero.) Mia madre però si era convinta che avevo
bisogno di nuove cure,
così mi ha portato dal dottor Jim, il mio medico di base, il quale ha confermato che stavo sguazzando
in una paralizzante e certo clinica depressione, e che perciò i miei farmaci dovevano essere rivisti e dovevo anche frequentare
un gruppo di supporto.
Il mio gruppo di supporto era composto da un cast mobile di personaggi in vari stadi di malessere indotto dal tumore.
Perché il cast era mobile? Un effetto collaterale del morire. Il gruppo di supporto, nemmeno a dirlo, era deprimente al massimo.
Ci si incontrava ogni mercoledì nel seminterrato di una chiesa episcopale in muratura a forma di croce.
Ci sedevamo tutti in cerchio proprio al centro della croce, dove i due bracci si incrociavano, nel punto in cui si trovava il cuore di Gesù.
L’avevo notato perché Patrick, il capogruppo, nonché l’unicodella stanza ad avere più di diciotto anni, parlava del cuore di Gesù a ogni
singolo assurdo incontro,
dicendo che noi, giovani sopravvissuti al cancro,
ci trovavamo proprio nel sacro cuore di Gesù, e così via. Nel cuore di Dio le cose andavano così:
i sei o sette o dieci che eravamo entravano a piedi/in carrozzina, brucavano una decrepita selezione di biscotti e limonata,
si sedevano nel Cerchio della Fiducia e ascoltavano Patrick raccontare per la millesima volta la sua miserevole,
eprimente storia di vita: di come avesse contratto il cancroalle palle e tutti lo dessero per spacciato, e invece non era morto,
e adesso eccolo lì, un adulto fatto e finito nel seminterrato di una chiesa nella 137esima città più bella d’America, divorziato,
videogamedipendente, praticamente
senza amici, che sbarcava il lunario sfruttando il suo passato canceroso e intanto faceva lenti progressi verso il conseguimento di un
master che non avrebbe migliorato le sue prospettive di carriera, in attesa, come tutti noi, della spada di Damocle che gli avrebbe dato il
sollievo, a cui sì, era davvero sfuggito quel tot di anni prima, quando il cancro gli aveva portato via tutte e due le noccioline ma
gli aveva risparmiato quella
che solol’animo più generoso avrebbe potutochiamare vita.
E ANCHE VOI POTRESTE ESSERE COSÌ FORTUNATI!
Poi noi ci presentavamo. Nome. Età. Diagnosi. E come stavamo quel giorno.
Sono Hazel, dicevo quando toccava a me. Sedici anni. In origine tiroide, ma con una solida e nutrita colonia satellite nei polmoni. Sto così così.
Finite le presentazioni, Patrick chiedeva sempre se c’era qualcuno che voleva esprimere le sue emozioni.
E allora iniziava il sussulto circolare di supporto: tutti che parlavano del loro combattere e battagliare e
vincere e recedere e sottoporsi a esami.
Patrick, gli va dato questo merito, ci lasciava parlare anche di morire. Ma la stragrande maggioranza di loro non stava morendo.
Sarebbero sopravvissuti e diventati adulti, proprio come Patrick. (Il che significava che c’era un bel po’ di competitività al riguardo:
ognuno voleva sconfiggere non solo il cancro,ma anche gli altri presenti nella stanza. Mi rendo conto che è irrazionale,
ma quando ti dicono che hai il 20 per cento di possibilità di vivere per altri cinque anni scatta una specie di gara e ti rendi conto che vuol dire uno su cinque.
Quindi ti guardi intorno e pensi, come farebbe ogni persona sana: devo sopravvivere a quattro di questi bastardi.)

L’unico aspetto positivo del gruppo di supporto era Niall, un tipo con la faccia allungata ma non troppo, la pelle bianca, i capelli biondi e corti e con dei occhi apparentemente blu. E il suo problema erano proprio gli occhi. Aveva un cancro straordinariamente improbabile agli occhi.
​Uno gli era stato tolto da piccolo. Da quanto riuscivo a capire nelle rare occasioni in cui Niall condivideva la sua esperienza
col gruppo, la ricomparsa del male aveva messo il suo unico occhio buono in mortale pericolo.
Io e Niall comunicavamo quasi esclusivamente attraverso sospiri. Ogni volta che qualcuno discuteva delle diete anticancro o
dei benefici della pinna di pescecane, lui mi scoccava un’occhiatina, a cui faceva seguito un microscopico sospiro. Io per tutta
risposta scuotevo la testa in maniera impercettibile e sbuffavo. Il gruppo di supporto, quindi, si era rivelato una gran delusione, e nel giro di poche settimane
sono diventata piuttosto refrattaria rispetto alla faccenda. In effetti, il mercoledì in cui ho fatto la conoscenza di Harry Styles
avevo tentato in tutti i modi di evitare il gruppo di supporto standomene seduta sul divano con mia madre a guardare la terza
parte di una maratona di dodici ore di America’s Next Top Model della passata stagione, che, devo ammetterlo, avevo già visto, ma comunque.
          Io: «Mi rifiuto di andare al gruppo di supporto.»
          Mamma: «Uno dei sintomi della depressione è il disinteresse per le attività.»
          Io: «Ti prego, lasciami guardare America’s Next Top Model. È un’attività.»

          Mamma: «La televisione è una passività.»
          Io: «Oh, mamma, per favore.»
          Mamma: «Hazel, sei un’adolescente. Non sei più una bambina. Hai bisogno di farti degli amici, di uscire di casa e di vivere la tua vita.»
          Io: «Se vuoi che io sia un’adolescente non spedirmi al gruppo di supporto. 
          Comprami una carta d’identità falsa, così posso andare ai club, bere vodka e spararmi un po’ d’erba.»
          Mamma: «L’erba uno non se la spara, tanto per cominciare.»
          Io: «Vedi? Questo è proprio il genere di cose che saprei se tu mi procurassi una carta d’identità falsa.»
          Mamma: «Vai al gruppo di supporto.»           
          Sbuffai pesantemente
          Mamma: «Hazel, ti meriti una vita.»
E con questo mi ha zittito, anche se non riuscivo a vedere come frequentare un gruppo di supporto rientrasse nella definizione di vita.
Comunque mi sono decisa ad andare, dopo aver negoziato il diritto di registrare l’episodio e mezzo di ANTM che mi sarei persa.
Sono andata al gruppo di supporto per lo stesso motivo per cui una volta avevo consentito a certi infermieri con appenaun anno e
mezzo di pratica di avvelenarmi con medicinali dai nomi esotici: volevo fare contenti i miei genitori. C’è solo una cosa al mondo
più merdosa di dover combattere contro il cancro quando hai sedici anni, ed è avere un figlio che combatte contro il cancro.
La mamma si è infilata nel vialetto circolare dietro la chiesa alle 4.56. Io mi sono trastullata un secondo con la bombola d’ossigeno,
giusto per perdere un po’ di tempo.
«Vuoi che te la porti dentro io?»
«No, ce la faccio» ho detto. La bombola verde cilindrica pesava solo pochi chili, e avevo un carrellino di acciaio con le ruote per tirarmela dietro. Mi forniva due litri di ossigeno al minuto attraverso una cannula, un tubo trasparente che si divideva proprio sotto il mio collo, mipassava dietro le orecchie e poi si riuniva vicino alle narici. Il marchingegno era necessario perché i miei polmoni come polmoni facevano schifo.
«Ti voglio bene» ha detto la mamma
«Anch’io. Ci vediamo alle sei.»
«Fatti degli amici!» ha detto dal finestrino abbassato mentre mi allontanavo. Non volevo prendere l’ascensore perché al gruppo di supporto prendere l’ascensore è un po’ la tipica attività da Ultimi Giorni, così ho infilato le scale. Ho preso un biscotto e mi sono versata della limonata in un bicchiere di carta, poi mi sono voltata.
Un ragazzo mi stava fissando.

Ero abbastanza sicura di non averlo mai visto prima. Alto, asciutto e muscoloso, faceva sembrare minuscola la sedia
di plastica da scuola elementare su cui stava. Capelli castani, ricci con un ciuffo all’insù.
Sembrava avere più o meno la mia età, forse un anno di più,
e sedeva con l’osso sacro contro il bordo della sedia, con una postura aggressivamentes bagliata, e una mano mezza
infilata nella tasca dei jeans scuri.
Ho distolto lo sguardo, consapevole di colpo delle mie infinite inadeguatezze. Portavo un paio di vecchi jeans che un tempo
erano stati attillati ma che ormai si afflosciavano in punti improbabili, e una maglietta gialla con il nome di una band che non mi piaceva nemmeno più.
E poi i capelli: avevo questo taglio da paggetto, e non mi ero nemmeno presa la briga di pettinarmi. In più avevo le guance
assurdamente paffute, da scoiattolino, un effetto collaterale delle cure.
Sembravo una persona di normali proporzioni con un pallone al posto della testa. Per non parlare della bombola che mi trascinavo dietro.
Eppure  gli ho lanciato uno sguardo di soppiatto,  e i suoi occhi verdi smeraldo erano ancora su di me. Ho capito perché
lo chiamano contatto visivo. Sono entrata nel cerchio e mi sono seduta vicino a Niall, a due sedie di distanza dal ragazzo.
L’ho guardato di nuovo. Mi stava ancora osservando.
Insomma, diciamolo: era sexy. Se a fissarti in modo ostinato è un ragazzo non sexy, nel migliore dei casi si tratta di una cosa
imbarazzante, nel peggiore è una forma di aggressione. Ma quando lo fa un ragazzo sexy  be’.
Ho preso il telefono per vedere che ora fosse: 4:59. Il cerchio si è riempito degli sfortunati malati dai dodici ai diciott’anni, e
poi Patrick ci ha fatto  cominciare con la preghiera della serenità.
“Signore, concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare quelle che posso e la saggezza di capirne la differenza”.
Il ragazzo mi stava ancora guardando. Mi sentivo avvampare. Alla fine ho deciso che la strategia migliore fosse fissarlo a mia volta.
I ragazzi non hanno il monopolio di questa cosa del fissare, dopotutto. Così l’ho guardato apertamente mentre Patrick confessava per
la millesima volta la sua mancanza di palle eccetera eccetera, e ben presto è stata una gara di sguardi.
Dopo un po’ il ragazzo ha sorriso e poi ha distolto i suoi occhi verdi. Quando mi ha guardato di nuovo, io ho inarcato le
sopracciglia come per dire: Ho vinto.Lui si è stretto nelle spalle. Patrick è andato avanti e finalmente è venuto il momento delle presentazioni.

«Niall, forse oggi potresti iniziare tu. So che stai affrontando un momento difficile.»
«Ok» ha detto Niall.
«Mi chiamo Niall. Ho diciassette anni. E pare che mi debba  operare tra un paio di settimane, dopodiché diventerò cieco. Non è che voglio stare qui a lamentarmi né niente, perché so che a molti di voi va peggio ma be’, ecco, essere cieco fa abbastanza schifo. La mia ragazza mi è di aiuto, però. E gli amici come Harry.»
Ha fatto un cenno verso il ragazzo, che adesso quindi aveva acquistato un nome.
«È così» ha continuato Niall. Si guardava le mani, che teneva serrate una contro l’altra come la cima di un tepee.
«Non ci si può far niente.»
«Siamo qui per te,Niall » ha detto Patrick.
«Diciamoglielo, ragazzi.» E noi, in un coro monotono: «Siamo qui per te, Niall.»

Poi è toccato a Michael. Aveva dodici anni. E la leucemia. Ce l’aveva da sempre. Stava così così. (A sentir lui, quantomeno. Aveva preso l’ascensore.)
Lida aveva sedici anni, ed era abbastanza carina perché il ragazzo sexy ne facesse l’oggetto dei suoi sguardi.
Era una frequentatrice abituale, in lunga remissione da un cancro all’appendice, una forma tumorale di cui, prima di conoscere lei,
non sospettavo nemmeno l’esistenza. Ha detto come aveva fatto a tutti gli altri incontri del gruppo a cui avevo partecipato che si sentiva forte, il che, mentre i tubicini dell’ossigeno mi
solleticavano le narici, mi è parso una vanteria. Ne sono dovuti passare altri cinque prima di arrivare a lui.
Quando è venuto il suo turno ha sorriso un po’. Aveva una voce bassa, roca, eccitante da morire.

«Il mio nome è Harry Styels» ha detto.
«Ho diciassette anni. Ho avuto un lieve osteosarcoma un anno e mezzo fa, ma oggi sono qui solo su richiesta di Niall.»
«E come ti senti?» ha chiesto Patrick.
«Oh, a meraviglia.» Harry Styels ha sorriso con un angolo della bocca.
«Sono su una montagna russa che va solo in salita, amico mio.»

Quando è arrivato il mio turno ho detto:
«Mi chiamo Hazel. Ho sedici anni. Tiroide con metastasi polmonari. Sto così così.»
L’ora è passata in fretta. Sono state raccontate lotte, battaglie vinte in mezzo a guerre che sarebbero state certamente perse; ci si è aggrappati a speranze; le famiglie sono state sia celebrate che criticate; si è convenuto sul fatto che gli amici non possono proprio capire;
si sono versate lacrime; è stato elargito conforto. Né io né Harry Styles abbiamo più aperto bocca fino a che Patrick ha detto:
«Harry, forse ti piacerebbe condividere le tue paure con il gruppo.»
«Le mie paure?»
«Sì.»
«Ho paura dell’oblio» ha detto lui senza nemmeno un attimo di esitazione.
«Ne ho paura come il proverbiale cieco aveva paura del buio.»
«Il paragone giusto al momento giusto,
non c’è che dire» è intervenuto Niall, aprendosi in un sorriso.
«Sono stato indelicato?» ha chiesto Harry.
«Mi capita di essere piuttosto cieco in materia di sentimenti altrui.»
Niall stava ridendo, ma Patrick ha alzato un dito in segno di rimprovero e ha detto:
«Harry, per favore, torniamo a te e ai tuoi problemi. Hai detto che hai
paura dell’oblio?»
«Proprio così» ha risposto Harry. Patrick era confuso.
«Qualcuno qualcuno vuole aggiungere qualcosa in proposito?»
 
Erano tre anni che non frequentavo una scuola vera e propria. I miei genitori erano i miei due migliori amici. Il mio terzo migliore amico era un scrittore che non sapeva nemmeno che esistessi. Ero una persona piuttosto timida, non il tipo che alza la mano.
Eppure, solo per quella volta, ho deciso di parlare. Ho alzato la mano appena appena e Patrick, tutto soddisfatto, ha detto subito:
«Hazel!»
Deve aver pensato che finalmente mi stessi aprendo. Che stessi finalmente diventando Parte Del Gruppo.
Ho guardato Harry Styles, che ha ricambiato il mio sguardo. Aveva gli occhi così verdi che ci si poteva quasi perdere dentro.
 
«Verrà un tempo» ho detto
«in cui tutti noi saremo morti. Tutti. Verrà un tempo in cui non ci saranno esseri umani rimasti a ricordare che qualcuno sia mai esistito o che la nostra specie abbia mai fatto qualcosa. Non ci sarà rimasto nessuno a ricordare Aristotele o Cleopatra, figuriamoci te. Tutto quello che abbiamo fatto, costruito, scritto, pensato o scoperto sarà dimenticato, e tutto questo» ho fatto un gesto che abbracciava la stanza
«non sarà servito a niente. Forse quel momento sta per arrivare o forse è lontano milioni di anni, ma anche se noi sopravvivessimo al collasso del nostro sistema solare non sopravviveremmo per sempre. È esistito un tempo prima che gli organismi prendessero coscienza, e ce ne sarà uno dopo. E se l’inevitabilità dell’oblio umano ti preoccupa, ti incoraggio a ignorarla. Sa il cielo se non è quello che fanno tutti.»

Era una cosa, questa, che avevo imparato dal mio summenzionato terzo miglior amico, Peter Van Houten, il misantropo autore di Un’imperiale
afflizione, il libro che era per me una Bibbia. Peter Van Houten era l’unica persona che mi fosse mai capitato di incrociare che (a) sembrava capire che cosa significa davvero stare per morire, e (b) non era morto.
C’è stata una pausa di silenzio abbastanza lunga. E poi un sorriso si è
diffuso su tutto il viso di Harry: non il sorriso ammiccante appena accennato del ragazzo che cercava di fare il sexy con me mentre mi fissava, ma il suo vero sorriso, troppo grande per il suo volto.

«Accidenti» ha detto piano.«Certo che sei un bel tipo.»
 
Nessuno di noi ha detto più niente per il resto dell’incontro. Alla fine, come al solito, ci siamo presi tutti per mano e Patrick ci ha guidato in preghiera.
 
«Cristo Signore, siamo riuniti qui nel Tuo cuore, letteralmente nel Tuo cuore, essendo sopravvissuti al cancro. Tu e tu solo ci conosci come noi ci conosciamo. Guidaci verso la luce nei momenti di difficoltà. Preghiamo per gli occhi di Niall, per il sangue di Michael e Jamie, per le ossa di Harry, per i polmoni di Hazel, per la gola di James. Preghiamo che Tu ci possa guarire e che noi possiamo sentire il Tuo amore e la Tua pace, che supera ogni comprensione. E ricordiamo nel nostro cuore coloro che abbiamo conosciuto e amato e che sono
tornati a casa da Te: Maria, Kade, Joseph, Haley, Abigail, Angelina, Taylor, Gabriel...» Era un elenco lungo. Il mondo contiene
tantissime persone morte. E mentre Patrick continuava, leggendo l’elenco su un foglio dato che era troppo lungo perché potesse ricordarselo a memoria, io ho tenuto gli occhi chiusi, cercando di
concentrarmi sul pregare, ma anche immaginando il giorno in cui il mio
nome si sarebbe fatto largo in quell’elenco, all’ultimo posto, quando ormai non ascoltava più nessuno.
 
Quando Patrick ha finito, abbiamo recitato insieme quello stupido mantra
 
‘VIVERE OGGI LA NOSTRA VITA MIGLIORE’
e siamo stati liberati. Harry si è spinto su dalla sedia e mi è venuto incontro. Aveva un’andatura leggermente sbilenca, come il suo sorriso. Torreggiava su di me, ma si è tenuto un po’ a distanza, così da non costringermi a torcere il collo per
guardarlo negli occhi.

«Come ti chiami?» mi ha chiesto.
«Hazel.»
«No, il tuo nome completo.»
«Uhm. Hazel Grace Lancaster.» Stava per dire qualcos’altro quando Niall si è avvicinato.
«Solo un attimo» ha detto Harry alzando un dito, poi si è rivolto a Niall. «È stato molto peggio di quanto mi avevi detto.»
«Te l’avevo detto che era squallido.»
«Perché ci vieni?»
«Non lo so. Un po’, be’, aiuta.»
Harry si è sporto verso di lui, forse pensando che così non lo avrei sentito.
«Lei è una che viene sempre?»
Non sono riuscita a sentire la risposta di Niall, ma Harry ha ribattuto:
«Sono d’accordo.»
Ha afferrato Niall per le spalle e poi ha fatto mezzo passo indietro.
«Di’ a Hazel della clinica.»
Niall ha posato una mano sul tavolo dei
biscotti e ha puntato i suoi occhi su di me.
«Okay. Dunque, stamattina vado in clinica e dico al chirurgo che preferirei essere sordo che cieco. E lui mi dice: Non è così che funziona, e io, tipo: Sì, mi rendo conto che non funziona così, sto solo dicendo che preferirei essere sordo che cieco, se potessi scegliere, ma lo so che non posso e lui dice: Be’, la buona notizia è che non diventerai sordo e io, tipo: Grazie per avermi spiegato che il mio cancro agli occhi non mi renderà sordo. È una fortuna che un intellettuale della sua levatura si degni di operarmi. »
«Che genio» ho detto.
«Cercherò di farmi venire un cancro agli occhi solo per poter conoscere questo tipo.»
«In bocca al lupo, allora. Devo andare. Monica mi sta aspettando. Devo guardarla un sacco finché posso.»
«Counterinsurgence domani?» ha chiesto
Harry.
         «Certo.» Niall si è voltato e si è avviato verso l’uscita, facendo due scalini alla volta.
          Harry Styles si è girato verso di me.
        «Letteralmente» ha detto.
        «Letteralmente?» ho chiesto.
        «Siamo letteralmente nel cuore di Gesù» ha detto.
        «Pensavo che fossimo nel seminterrato di una chiesa, ma siamo letteralmente nel cuore di Gesù.»
        «Qualcuno dovrebbe dirglielo, a Gesù» ho fatto io.
        «Dev’essere un bel rischio per Lui tenere nel cuore dei ragazzini malati di cancro.»
        «Glielo direi io» ha ribattuto Harry,
        «ma si dà il caso che sia letteralmente incastrato dentro il Suo cuore, per cui non mi sentirebbe.» Ho riso. Lui ha scosso la testa e mi ha guardato.
        «Cosa c’è?» ho chiesto.
        «Niente» ha detto.
        «Perché mi guardi così?»
        Harry ha fatto un mezzo sorriso.
       «Perché sei bella. Mi piace guardare la gente bella, e poco fa ho deciso di non negarmi i semplici piaceri della vita.»
        Poi un breve silenzio impacciato. Harry l’ha interrotto:
        «Voglio dire, dato che, come tu hai fatto così deliziosamente notare, tutto questo finirà nell’oblio e via dicendo.»
         Mi è scappato un verso, o un sospiro, o una cosa che sembrava vagamente un colpo di tosse, non so bene neanch’io, e poi ho detto: «Non sono bel.. »
        «Sei la Natalie Portman della generazione Y. La Natalie Portman di V per Vendetta, dico.»
         «Non l’ho visto» ho detto.
         «Davvero?» ha chiesto.
         «Ragazza bellissima coi capelli da folletto
disprezza l’autorità e non riesce a evitare di innamorarsi di un ragazzo pur sapendo che le porterà solo dei guai. È la tua autobiografia, per quel che ne so.»
Ogni sua sillaba flirtava. Dico sul serio, mi eccitava. Non avevo idea che i ragazzi potessero eccitarmi cioè, non nella vita vera. Una ragazzina più piccola ci è passata vicino.
«Come va, Alisa?» le ha chiesto lui. Lei ha sorriso e borbottato:
«Ciao, Harry.»
«Una del Memorial» ha spiegato lui. Il Memorial era il grande ospedale coi laboratori di ricerca.
«Tu in quale vai?»
«Al Pediatrico» ho detto, con voce più esile di quanto mi aspettassi. Lui ha annuito. La conversazione è parsa finire lì.
«Be’» ho detto, accennando agli scalini che ci portavano fuori dal Cuore Letterale di Gesù. Ho inclinato il carrellino sulle ruote e ho cominciato acamminare. Lui si è messo a zoppicarmi accanto.
«Ci vediamo la prossima volta, magari?» gli ho chiesto.
«Dovresti vederlo» ha detto.
«V per Vendetta, intendo.»
«Okay» ho detto.
«Me lo procurerò.»
«No. Con me. A casa mia» ha detto.
«Adesso.» Mi sono fermata.
«Quasi non ti conosco, Harry Styles. Potresti essere un assassino psicopatico.»
Lui ha annuito. «Okay, Hazel Grace.»

Mi è passato davanti, il passo leggermente aritmico sul lato destro, mentre camminava sicuro e baldanzoso su quella che ero
sicura fosse una gamba finta. L’osteosarcoma a volte ti prende un arto per scoprire chi sei. Se poi gli piaci, si prende il resto.
L’ho seguito di sopra, perdendo terreno dato che salivo lentamente: le scale non sono il posto ideale per i miei polmoni.
E poi eccoci fuori dal cuore di Gesù, nel parcheggio, con l’aria di primavera perfetta seppure un po’ pungente, la luce del
tardo pomeriggio paradisiaca e struggente.La mamma non c’era ancora: strano, perché era quasi sempre lì ad aspettarmi.
Mi sono guardata intorno e ho visto che una ragazza bruna, alta e formosa aveva bloccato Niall contro il muro di pietra della chiesa e
lo stava baciando in modo piuttosto aggressivo. Non erano molto lontani, tanto che riuscivo a sentire gli strani rumori che facevano le loro bocche unendosi, e lui
che diceva «Sempre» e lei che diceva «Sempre» in risposta.

Harry mi è spuntato accanto tutto di colpo, e ha sussurrato:
«Credono fermamente nelle pubbliche manifestazioni di affetto.»
«Perché quei sempre?»
I rumori di lingue attorcigliate sono cresciuti.
«Sempre è la loro parola. Si ameranno per sempre e così via. In un calcolo approssimativo per difetto, direi che si
sono messaggiati la parola sempre quattro milioni di volte nell’ultimo anno.» Sono arrivate altre due auto, che hanno portato via Michael e Alisa. Eravamo rimasti solo io e Harry, e guardavamo Niall e Monica che si davano da fare come se non fossero schiacciati contro un luogo di culto. La mano di lui ha cercato la tetta di lei sopra la maglietta e l’ha stretta, il palmo fermo, le dita che esploravano tutto intorno. Chissà se era una bella sensazione. A vederla così non sembrava, ma ho deciso di perdonare Niall sulla base del fatto che stava per diventare cieco. I sensi devono gioire finché sono in tempo.

«Immagina di fare quell’ultimo viaggio in ospedale»
ho detto piano.
«L’ultima volta che potrai guidare un’auto.»
Senza voltarsi a guardarmi, Harry ha detto:
«Così mi ammazzi le vibrazioni, Hazel Grace. Sto cercando di contemplare un amore giovane in tutta la sua splendida goffaggine.»
«Credo che le stia facendo male alla tetta» ho detto.
«Sì, non si capisce se stia cercando di eccitarla o di farle un esame diagnostico al seno.» Poi Harry si è infilato la mano in tasca e di tutte le cose possibili ha tirato fuori un pacchetto di sigarette. Ha fatto scattare il coperchio e si è messo una sigaretta fra le labbra.
«Non ci posso credere» ho detto.
«Pensi che sia figo? Oh, mio Dio, hai appena rovinato tutto.»
«Tutto cosa?» mi ha chiesto, voltandosi verso di me. La sigaretta gli pendeva spenta dall’angolo non sorridente della bocca.
«Quel tutto per cui un ragazzo che è non poco attraente e non poco intelligente, insomma, non inaccettabile, mi fissa e sottolinea un uso scorretto della letteralità e mi paragona a un’attrice e mi chiede di andare a vedere un film a casa sua. Ma naturalmente c’è sempre
una hamartia, e la tua evidentemente è questa. Voglio dire, anche se AVEVI UN DANNATO CANCRO, dai soldi a una multinazionale del tabacco in cambio della possibilità di farti venire ANCORA PIÙ CANCRO. Oh, mio Dio. Lasciami solo dirti che non essere in grado di respirare sai cosa fa? SCHIFO. Che delusione. Che delusione totale.»
«Una hamartia?» ha detto lui, la sigaretta ancora in bocca. Gli faceva sporgere più in fuori la mascella. E aveva una mascella fantastica,
purtroppo.
«Un’imperfezione fatale» ho detto, voltandomi dall’altra parte.

Sono partita verso il marciapiede lasciandomi Harry Styles alle spalle, e a quel punto ho sentito una macchina arrivare. Era la mamma. Aveva aspettato che io mi facessi degli amici o roba del genere.
Ho sentito una miscela di delusione e rabbia montarmi dentro. Non so nemmeno che sentimento fosse, davvero, so solo che ce n’era tanto, e volevo tirare ad Harry Styles uno schiaffo ma anche scambiare i miei polmoni con due polmoni che non facessero schifo. Ero lì in piedi con le mie All Stars sul ciglio del marciapiede, la bombola di ossigeno fissata al carrellino, e nel momento in cui mia madre è arrivata ho sentito una mano afferrare la mia. Ho dato uno strattone per liberarmi, ma mi sono voltata verso di lui.

«Non ti uccidono, se non le accendi» ha detto mentre la mamma fermava l’auto praticamente attaccata al cordolo.
«E non ne ho mai accesa una. È una metafora, sai: ti metti la cosa che uccide fra i denti, ma non le dai il potere di farlo.»
«È una metafora» ho detto, dubbiosa. La mamma temporeggiava.
«Proprio così, una metafora» ha detto lui.
«E quindi tu ti comporteresti in un modo rispetto a un altro sulla base delle risonanze metaforiche» ho detto.
«Oh, sì.» Ha sorriso. Il suo sorriso largo, quello vero, quello buffo.
«Sono un devoto credente nella metafora, Hazel Grace.»
Mi sono voltata verso l’auto. Ho dato un colpetto al finestrino. Si è abbassato.
«Vado a vedere un film con Harry Styles» ho detto.
«Per favore, registrami i prossimi episodi della maratona di ANTM.»

 




 ( John Green- Colpa delle stelle)


oblio: Dimenticanza prolungata, completa; perdita di ogni memoria, cancellazione del ricordo
  
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