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Autore: Sam E Soer    03/02/2014    5 recensioni
"Stiles restò di sasso cercando per un intero minuto di trovare la falla in quella frase, l’inganno, il trucco. Perché c’era sempre il trucco, soprattutto quando si trattava di Derek."
Genere: Dark, Fluff, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Derek Hale, Stiles Stilinski
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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{Nota: Mi sembra doveroso specificare che gli avvenimenti descritti di seguito si svolgono dopo la puntata andata in onda la settimana scorsa in America (la 3x16, per intenderci).


Il problema dell’antro oscuro dell’animo umano è che, di fatto, nessuno si rende conto sia lì fin quando non è troppo tardi, fin quando non si è manifestato in tutta la sua funesta potenzialità. E’ lì, silenzioso, acquattato come un predatore nel groviglio di emozioni, di esperienze e di ricordi, per poi esplodere quando meno ce lo aspettiamo. E allora non si può fare più niente. In realtà è proprio su questo piccolo passaggio che conta l’oscurità per ghermirti completamente, il fatto che una volta che ha domandato il possesso di gran parte della tua anima, non puoi fare a meno di donargliela, di servirgliela.

Stiles avrebbe dovuto calcolare tutto ciò. Era un ragazzo intelligente, avrebbe dovuto almeno immaginarlo che le cose sarebbero andate a finire così. Fin dapprincipio aveva saputo che per lui le cose sarebbero andate diversamente, considerato che a differenza di Scott, lui era un essere umano. Scott avrebbe potuto combattere quell’oscurità con la sua doppia natura e di essere umano e di lupo. Stiles no. Però quando anche Allison non aveva battuto ciglio nel prendere la decisione di accogliere quel piccolo, potenzialmente devastante punto nero dentro di sé, allora Stiles si era detto, perché no? Cosa ho io meno di lei?
Avrebbe dovuto immaginarlo che non era abbastanza forte da non cedervi. E ora, fissando la foto che aveva fatto a quella dannata lavagna, non poteva fare a meno di sentirsi come un giunco in preda ad una tempesta. Si stava accartocciando su se stesso come una stanza le cui mura erano fatte di carta, invece che di salda roccia e l’oscurità stava entrando da tutte le parti. Quella era la sua calligrafia, non c’era dubbio, aveva scritto quei numeri ancora e ancora e ancora, e la sua stanza ne era ora tappezzata. Fogli, foglietti, post-it… non c’era ombra di dubbio. Era lui.
Era stato lui a domandare una vita.
Era buffo se si pensava che per la maggior parte del tempo, da quando Scott era diventato un lupo mannaro, Stiles aveva sempre tentato in tutti i modi di fare la cosa giusta. Di essere giusto anche lui sebbene fosse solo un semplice essere umano. Dove non poteva usare i muscoli metteva a disposizione degli altri il suo cervello. Ed era sempre stato confortante sapere di poter contare almeno su quello. Ma ora? Ora non poteva contare proprio su niente. Né sul suo cervello, né sulla sua umanità. A dirla tutta, si sentiva molto poco umano quei giorni.
Si sentiva un mostro.
Si passò una mano sul viso per l’ennesima volta quella notte. Al tatto sentiva un accenno di barba sotto le dita, un piccolo e breve segno di star toccando una sorta di livello superiore della sua vita. Non aveva avuto il coraggio di addormentarsi e stava stringendo i denti così forte che sentiva dolore in tutta la mascella. Persino i muscoli delle spalle erano così rigidi da far male. Dormire, in un altro momento, lo avrebbe aiutato a risvegliarsi con una mente capace di risolvere più problemi perché riposata. Ma dormire adesso avrebbe significato affondare di più nella melma.  Quella melma che già lo stava soffocando.
Scalciò via le coperte guardando la porta semichiusa della sua camera. Suo padre la lasciava così da quando Stiles, nel sonno, cominciava ad urlare come un ossesso. Non poteva continuare così. Non poteva continuare a far preoccupare suo padre e non poteva addossare altri problemi al branco. Era il suo personale inferno, solo che non sapeva cavarsene fuori. Non aveva le capacità per farlo.
Si alzò recuperando un pantalone che aveva lasciato la sera prima sul pavimento e lo infilò cercando di non posare gli occhi su tutti quegli appunti. Tutti quei numeri, tutta quell’evidenza che era lui, era lui il marcio questa volta, era lui il mostro da cui dovevano guardarsi le spalle. Infilò la felpa e si alzò il cappuccio sulla testa per poi prendere le chiavi della jeep che aveva lasciato sulla scrivania.
In casa regnava un silenzio di tomba. Buio e silenzio, due cose che ultimamente sopportava a malapena. Sapeva che le cose peggiori erano ben capaci di nascondersi anche alla luce del sole, ma aveva l’impressione che il buio alimentasse l’oscurità che aveva dentro. Se ne nutriva. E quel che era peggio, era che non aveva idea del tipo di luce che serviva per bandire quel tipo di oscurità. Non lo sapeva e non riusciva a riflettere per capire cosa doveva fare.
Curioso, aveva sempre aiutato tutti ed ora non era in grado di aiutare se stesso.
Mise le scarpe ed uscì dalla stanza a passo leggero. Cercò di non urtare nulla per non svegliare suo padre e prestò molta attenzione nel farlo, perché nonostante avesse una precisa idea della disposizione di ogni singolo mobile della casa, era sempre e comunque capace di prenderne qualcuno in pieno. Non sapeva come fosse possibile. A volte sembrava che persino le pareti cambiassero disposizione, in quel periodo più del solito.
In qualche modo riuscì ad arrivare fino alla porta di casa. Gradì molto il fatto che non cigolasse come nella maggior parte dei film e quando uscì la richiuse alle sue spalle con estrema delicatezza. In tutto non ci mise che dieci minuti. L’aria sembrava un po’ stantia quei giorni, non aveva idea del perché, ma avrebbe desiderato fosse un po’ più fresca, un po’ più respirabile. Era come se persino l’ossigeno non fosse più buono come una volta.
Entrò nella jeep richiudendo lo sportello con un po’ troppa foga. Probabile avesse svegliato il cane dei vicini, ma sperò in ogni caso di non aver svegliato suo padre. Quando mise in moto si avviò lungo la strada a fari spenti e li accese solo dopo un po’, tanto per essere certo di non allarmare i vicini. Non sapeva dove andare, non sapeva cosa fare, forse era la prima volta in tutta la sua vita in cui non aveva neanche voglia di concentrarsi sull’una o l’altra cosa. Ma sapeva di dover andare. Come recitava la famosa citazione “Se stai attraversando l’Inferno, continua a camminare.” Chissà perché poi. Forse c’era l’idea che continuando a camminare prima o poi si era in grado di trovare l’uscita. Lui aveva invece l’impressione che continuando a camminare, in realtà, stava addentrandosi solo più a fondo nel suo personale inferno.
Col finestrino semiaperto continuò a tenere il piede sull’acceleratore. Non un suono proveniva dalle strade, persino gli alberi sembravano silenziosi. Non c’era un dannatissimo filo di vento quella notte. Era tutto di un’immobilità quasi surreale.

Surreale.

Sentì il cuore battergli ferocemente nel petto. Sembrava voler schizzar via e darsela a gambe. Stiles respirò a malapena poggiandosi la mano sul petto e spingendo con forza. Lo sentiva contro le dita. Quasi gli faceva impressione. Cercò di fermare il pensiero, di bloccarlo prima che come un virus cominciasse a diffondersi, ma era troppo tardi.
Rallentò pur non fermandosi e con la coda dell’occhio cominciò a guardare ora a destra, ora a sinistra, ora tornava a fissare la strada davanti a sé. Forse alla fine si era davvero addormentato, forse non era mai sceso di casa, non aveva mai preso la jeep. O addirittura era sceso, si era messo sulla jeep – non aveva forse sentito chiaramente il cane dei vicini abbaiare? – e poi solo dopo si era addormentato.
Dannazione. Si era addormentato alla guida e forse ora era già andato a sbattere in pieno contro un albero ed era in coma e quello, oh sì, quello era proprio l’inferno. Quella stasi, quel non andare avanti né indietro, quell’immobilità di tutto, degli alberi, delle foglie. Non un pigolio, non un cinguettio, non una carezza da parte del vento sulla pelle che gli avrebbe dato per il tempo di un secondo l’idea di essere vivo. Non era più vivo.
D’un tratto qualcosa che balzò davanti alla jeep lo costrinse a riportare repentinamente l’attenzione sulla strada. Fu questione di un secondo, la percepì con la coda dell’occhio arrivare da destra e, non seppe come, riuscì a frenare. Schiacciò in verità il freno così forte che il muscolo del polpaccio si lagnò come un ossesso per l’improvviso cambio di programma. Spalancò gli occhi stringendo le dita sul volante quando le ruote della jeep slittarono sull’asfalto – dovevano esserci anche dei dannatissimi sassolini – fino, fortunatamente, a fermarsi.
Urtò la schiena contro il sedile e fissò la figura alzando le sopracciglia. Era così simile ad una scena che aveva già vissuto in passato che ebbe quasi la certezza di stare davvero sognando, altrimenti non c’era altra spiegazione. Strinse le labbra scuotendo la testa e ci mise un po’ a trovare la dannata maniglia dello sportello. Quando ci riuscì uscì dalla jeep in tutta fretta.

“Ma dico, sei matto?! Perché diavolo quando tenti il suicidio lo fai sempre davanti alla mia auto? Ci sono abbastanza abitanti qui perché tu possa suicidarti sotto qualunque altra macchina!”

Derek Hale, questa volta, non aveva un colorito cadaverico, quindi di fatto non sembrava stesse per morire da un momento all’altro. Al contrario, con l’espressione rilassata e noncurante alzò appena un sopracciglio e arricciò il naso e la bocca in modo assolutamente da Derek. E diceva da Derek perché era proprio sua quell’espressione, non l’aveva mai vista sul viso di nessun altro. Quando metteva su quell’espressione gli ricordava i cani quando ascoltano qualcosa di tremendamente interessante. O un lupo. Dannazione, Derek Hale aveva espressioni da lupo anche quando completamente umano.

“Che stai facendo, Stiles?” Chiese.

Stiles incrociò le braccia al petto.

“Che stai facendo tu a sbarrarmi la strada in questo modo!” Sbottò leggermente isterico.

Derek inclinò la testa di lato. La maglia rossa attillata gli abbracciava il busto in maniera quasi indecente. Non era giusto essere così perfetti. Era uno schiaffo morale a tre quarti della popolazione mondiale. Era una crudeltà bella e buona. Di rimando Stiles si strinse nella felpa infilando le mani nella tasca davanti. Si sentì improvvisamente a disagio, il che era una sensazione nuova considerato che ultimamente a parte essere arrabbiato, ansioso e impaurito, non era riuscito ad avvertire altro. Era quasi una gioia accogliere quella nuova sensazione.
Derek si avvicinò accorciando con un paio di lunghi passi la distanza tra loro, Stiles si fece indietro andando a sbattere il sedere contro il fanale anteriore della jeep. Se lo massaggiò corrugando la fronte.

“Ahi.” Borbottò. “Perché ti stai avvicinando? Cosa stai combinando? Gesù perché infili quella mano in tasca ora?!” Via, via che parlava la sua voce saliva di un’ottava. L’ultima frase uscì così stridula che Derek fece una smorfia chiudendo un occhio, infastidito dal suono.

Prese il cellulare dalla tasca e, lanciando un’occhiata ora a Stiles, ora al display, socchiuse appena gli occhi consegnando poi l’apparecchio nelle mani di Stiles.

“Che c’è? Ho il mio cellulare, grazie.” Non era vero, lo aveva lasciato a casa ora che ci pensava. “Non ne ho bisogno.”

Derek, mostrando come suo solito la sua grande ed immensa pazienza, tirò Stiles per la felpa facendolo sussultare.

“Leggi.” Ordinò tra i denti.

“Va bene, VA BENE!” Disse Stiles strattonando il braccio per liberarsi dalla presa.

Nel farlo sbatté il gomito contro il cofano ed imprecò tra i denti alzando gli occhi al cielo.

“Dammi questo affare!” Sbottò strappando il cellulare dalle mani di Derek il quale, fece un passo indietro, ed incrociò le braccia al petto voltando il viso di lato.

Stiles poté vedere una sorta di ghigno dipingersi sul suo volto. Chiaramente trovava molto divertente il fatto che fosse capace di farsi male da solo. Sbuffò scuotendo la testa e lesse il messaggio sul display.

Sono io questa volta. Sono io il mostro.

Lasciò che quelle parole si adagiassero lentamente in una parte del suo cervello. Tentò invano di fermare la mano tremante o quantomeno di chiudere la bocca per lo stupore ma non riuscì a fare nulla di tutto ciò. Era troppo sbalordito anche solo per alzare gli occhi e tornare a guardare Derek.
Quando diavolo gli aveva mandato un messaggio? E perché non lo ricordava? Per quanto si sforzasse non riusciva proprio a ricordare il momento in cui aveva deciso di scrivere un messaggio simile e poi inviarlo. Non ricordava l’averlo pensato, non ricordava di averlo fatto. Non sapeva neanche perché, tra tutte le persone, lo avesse mandato proprio a Derek. E ce n’erano di persone a cui avrebbe potuto mandarlo. C’era Scott, c’era Lydia, in un certo senso avrebbe persino preferito mandarlo ad Allison. Ma non a Derek.
Non a lui. Tra tutti non a lui.
Ma ancora una volta la sensazione d’irrealtà lo colpì così ferocemente che le gambe non ne vollero sapere di sostenerlo. Lo abbandonarono di punto in bianco costringendolo a poggiarsi contro la jeep con tutto il corpo, scivolando lentamente fino a sedersi sull’asfalto.

“Questo è un sogno. Sto sognando, sono sicuro.” Mormorò. “E magari adesso mi sbrani pure, che ne so.” Alzò gli occhi a guardare Derek che di nuovo si era avvicinato e ora aveva abbassato la testa per guardarlo.

Era strano vederlo davanti a lui in quel modo. Era persino curioso guardarlo da quel punto. La mascella un po’ affilata era illuminata dai fari della jeep che gli donavano un’aria un po’ più inquietante del solito, sebbene ormai Stiles si fosse così abituato alla sua presenza da non riuscire più ad avvertire inquietudine quando era con lui. No, era passato quel periodo in cui si sentiva persino spaventato da Derek. Era così lontano quel tempo, che gli era persino difficile ricordare perché avesse mai avuto paura di lui.
Di certo non avrebbe mai scommesso neanche un soldo bucato che sarebbero finiti così, anche se quel così era del tutto indefinibile.

“Stiles…”

“Oppure no! Aspetta! Magari ti ammazzo io adesso! Sarebbe decisamente più probabile visto come vanno le cose ultimamente!” Scoppiò a ridere.

Proprio non riusciva a vedersi ammazzare Derek. Ma fino ad un paio di settimane prima non avrebbe mai neanche detto di poter alzare un folle assassino contro una ragazza che tecnicamente non aveva fatto proprio nulla. Le cose cambiavano, il mondo cambiava, lui era cambiato. E mentre ciò avveniva Stiles continuava a perdere pezzi da qualche parte, perdere interi processi di sé. Se per esempio cercava di riportare alla mente quando era passato dal detestare Derek al non avere problemi a trovarselo sempre tra i piedi, non ci riusciva. In quel momento era in realtà persino confortante che fosse lì con lui.

“Stiles.” Se prima il tono di Derek era stato leggermente pungente ora ogni singola lettera del suo nome era stata pronunciata accompagnata da un leggero ringhio.

“Cosa?!” Sbottò infastidito.

“Alzati.”

“Non usare quel tono da alfa con me.” Rispose Stiles, però si puntellò su una mano e si rialzò lentamente. “Tra l’altro non sei neanche più un alfa.”

Derek serrò la mascella chiudendo e riaprendo gli occhi molto, molto lentamente, fulminandolo con lo sguardo. Per il modo in cui il labbro superiore si alzò appena, di lato, Stiles suppose che volesse ringhiargli contro, questa volta davvero.

“Forse dovrei semplicemente lasciare la città.” Socchiuse gli occhi voltandosi a guardare la jeep. Tecnicamente aveva un serbatoio pieno.

“La smetti di dire idiozie?” Chiese Derek chiaramente al culmine della pazienza.

“Forse potresti persino darmi qualche suggerimento.” Stiles si voltò verso di lui, questa volta avanzò di un passo, ma Derek restò impalato dov’era. “Sei così bravo tu ad andartene, d’altronde.”

Non aveva idea da dove provenisse tutta quella rabbia. In parte era tutto quello che stava accadendo, in parte si vergognava per aver mandato proprio a Derek quel messaggio. Non sapeva perché ma tra tutti era quello a cui avrebbe nascosto quello che gli stava accadendo ben volentieri. Non che agli altri ne avrebbe parlato a cuor leggero, ma a lui… con Derek era diverso.
E nel frattempo era l’unico ad essere di fronte a Stiles in quel momento. Non erano Stiles e Scott, non erano Stiles e Lydia. Erano Stiles e Derek ad essere lì, in quella strada che neanche ricordava di aver mai percorso. In quel nulla statico, erano Stiles e Derek, e Stiles e Derek erano le uniche cose che si muovevano. Erano i cinguettii assenti degli uccellini e l’inesistente brezza notturna, erano il fischio del vento tra le foglie verdi e il suono della pioggia sull’asfalto.

“Vero.” Ammise Derek. “Però sono qui ora.”

Stiles restò di sasso cercando per un intero minuto di trovare la falla in quella frase, l’inganno, il trucco. Perché c’era sempre il trucco, soprattutto quando si trattava di Derek. Sembrava sempre esserci un secondo fine nelle sue intenzioni, qualunque cosa facesse le sue motivazioni non erano mai del tutto evidenti. E questa era una cosa che Stiles detestava, perché non sapeva mai come muoversi, se non con una certa cautela. Le infinite volte che negli ultimi tempi aveva avvertito l’improvviso bisogno di bussare alla porta di Derek piuttosto che a quella di chiunque altro era stata frenata proprio da questo.
Ma quelle parole, in quel momento, sortirono uno strano effetto. Era davvero come se il mondo si stesse risvegliando all’improvviso. Come se quella singola frase avesse messo in moto qualcosa e Stiles non aveva idea di cosa fosse, ma ebbe la netta sensazione che quella era esattamente la candela di cui aveva bisogno. Ne poteva vedere il bagliore, poteva persino avvertirne il delizioso calore sulla pelle, se si concentrava abbastanza.
Avrebbe voluto che la sua voce non tremasse tanto, ma quando parlò le parole vibrarono in modo strano sulla lingua.

“Perché sei qui ora?” Mormorò.

Avrebbe voluto aggiungere tante altre cose. Perché vai sempre via? Perché ci lasci sempre quando le cose si mettono male? Perché volti le spalle in questo modo? T’importa qualcosa? Qualcosa di noi? Qualcosa di me.
Qualcosa di me.
Perché se c’era una domanda che lo tormentava sempre ogni volta che Derek girava le spalle a tutti era proprio quella. E non che lui avesse qualcosa di speciale rispetto a chiunque altro, ma forse avrebbe voluto. Ecco, forse avrebbe voluto essere speciale ai suoi occhi.

“Perché mi hai chiesto aiuto.” Disse. “O almeno questo mi è sembrato.”

Di nuovo una frase semplice, una risposta schietta, che non lasciava spazio ad incomprensioni di alcun tipo. E d’un tratto Stiles sentì di star comprendendo qualcosa. Comprese perché aveva mandato il messaggio a lui e non a qualcun altro. Derek era davvero lì di fronte a lui, in piedi, col suo solito fare del tutto indelicato e quasi sprezzante, ma era lì. Non era andato via, non era scappato a gambe levate, era semplicemente lì. Per Stiles.

“Tu non ci sei mai quando abbiamo bisogno di te!” Esplose.

Derek chinò la testa scuotendola appena. In qualsiasi altro momento, Stiles avrebbe detto che era offeso, ma non adesso. Definirlo offeso avrebbe significato sminuire quell’espressione sul suo viso, avrebbe significato far finta di non saper distinguere un volto offeso, da uno ferito.
E Stiles aveva ferito Derek che era esattamente l’ultima cosa che avrebbe voluto fare, sicuramente era l’ultima cosa che si meritava in quel momento.
Fece per dire qualcosa, ma Derek non gliene diede l’opportunità.

“Perché semplicemente non sali in auto e vai a casa? Ti metti a dormire e domani ne discutiamo. Qualunque cosa stia accadendo, troveremo il modo di uscirne.”

Troveremo. Non aveva detto che lui avrebbe trovato o che il branco avrebbe trovato per Stiles una soluzione, aveva detto troveremo. Dava l’idea di un insieme.

“Derek…”

Derek aprì lo sportello della jeep e con un cenno della testa sembrò incitarlo ad entrare.

“Stiles.” Disse.

“Derek!” Questa volta era lui a domandare l’attenzione dell’altro che si voltò verso di lui con aria leggermente irritata.

“Non ti lascio andare via, Stiles. Se è questo che mi stai chiedendo di fare puoi scordartelo e fare invece come dico io e salire su questa dannatissima ferraglia, tornare a casa, e dormirci su.”

In un altro momento forse Stiles avrebbe alzato gli occhi e sbuffato a quel tono perentorio. Ne avrebbe persino riso, ma la verità era che non aveva alcuna voglia di ridere in quel momento.

“Non posso dormire! Già in questo momento non riesco a comprendere se quello che sta accadendo sia reale o meno, Derek!” Scosse la testa. “Non so che diamine sta succedendo, so solo che mi sento tirare sempre più a fondo, ogni volta che batto le ciglia ho il terrore di essermi addormentato e aver riaperto gli occhi su un sogno invece che sulla realtà. Io non mi sento più reale!”

Annaspò sulle ultime parole, come se stesse correndo mentre le pronunciava. Derek richiuse la portiera della jeep che sbatté così forte da far sussultare Stiles. Accorciò la distanza rimanente tra loro, questa volta con un solo passo, un solo passo che bastò a Stiles per ritrovarselo esattamente a due centimetri dal viso. Se non lo avesse conosciuto fin troppo bene, avrebbe detto che sembrava quasi preoccupato. Lì, sotto quell’espressione arrabbiata e irritata, sembrò per un istante esserci un barlume di frustrazione, e persino di paura.
Fu quasi devastante vederlo in quel modo. Vederlo così a causa sua.

“Questo momento è reale. Adesso siamo qui… sebbene non sappia con esattezza dove si trovi qui. Ma ci siamo. Sei uscito di casa. Ti sto seguendo da quando sei uscito!”

Stiles corrugò appena la fronte.

“Ah bene, sei in modalità stalker stasera, bravo.” Alzò gli occhi al cielo, in realtà quella vicinanza lo stava rendendo un po’ nervoso.

Sentiva persino il profumo delicato della maglia di Derek, e avrebbe detto tutto di lui, ma non che usasse un detersivo delicato per lavare i suoi vestiti. In realtà persino il pensare a Derek che faceva la lavatrice era decisamente un pensiero assurdo in sé. Derek poggiò una mano sul cofano, proprio accanto al corpo di Stiles, il suo braccio gli sfiorava il fianco. Poi fece altrettanto con l’altro, impedendogli, di fatto, ogni via di fuga.

“Ero convinto che ad un certo punto non avresti resistito e ti saresti addormentato e invece sei uscito. Ho compreso la gravità della situazione solo in quel momento, altrimenti probabilmente avrei prestato più attenzione.” Abbassò la testa. “O avrei cercato di restare sveglio.”

Stiles spalancò gli occhi.

“Oh mio Dio!” Disse. “Ti sei addormentato mentre facevi la guardia? Sei un pessimo stalker, Derek!”

Derek lo guardò inclinando un po’ la testa di lato. Sorrise. Quello stramaledetto lupo dei suoi stivali, sorrise. Ghignò estremamente divertito.

“Non c’è nulla da ridere Derek, è grave.”

“Assolutamente.” Confermò.

Il suo alito caldo gli sfiorò la pelle del naso. Stiles trattenne il fiato. Parte si sé avrebbe voluto che si allontanasse lasciandogli un po’ di spazio, perché stava cercando di convincersi che in quel modo non riusciva a respirare. Non era vero. Respirava benissimo. E in realtà un po’ si sentiva al sicuro lì, si sentiva al caldo. Perché se era incastrato lì, non poteva essere da nessun’altra parte a combinare danni. Lì, in quel piccolissimo e ristretto spazio, in una qualunque strada chissà dove, gli sembrò quasi di stare bene. Dopo settimane, dopo giorni, dopo ore, sentiva come se stesse vagamente riprendendo il senso delle cose.

“Però tu ridi.” Mormorò.

Forse non avrebbe dovuto guardargli le labbra nel dirlo, ma non poté farne a meno, anche se ora Derek non stava più sorridendo. Anche se adesso sembrava avere un’espressione dannatamente seria.

“Rido perché sei impossibile.” Spiegò.

“Oh.”

Ed eccola lì, la madre idiota di tutte le risposte. Oh. Cosa stava a significare, oh? Oh cosa? Oh perché? Doveva seriamente pensare a qualcosa nel modo più veloce possibile per tirarsi fuori da quella situazione.
Però poi Derek allungò una mano verso di lui e il cervello di Stiles semplicemente smise di pensare. Quando sentì la mano del ragazzo che si poggiava così delicatamente sul suo viso, quasi come se temesse di fargli del male, tutti gli ingranaggi che nella sua mente negli ultimi giorni sembravano essersi inceppati, cominciarono a lavorare improvvisamente tutti insieme. Le domande più idiote cominciarono ad affacciarsi al cervello premendo per essere espresse ad alta voce. Le dita di Derek erano piacevolmente fredde e Stiles neanche si rese conto di essersi aggrappato alla sua maglietta, le dita che stropicciavano l’indumento all’altezza della spalla, il corpo che si sarebbe volentieri avvicinato un altro po’ a lui, solo un altro pochino. Quel tanto che bastava per… non sapeva per cosa. Forse solo per sentirsi meglio.

“Io preferirei che tu rimanessi.” Disse Derek.

Stiles lo fissò negli occhi. Se non fosse stato già così perso nel suo inferno personale, probabilmente sarebbe stato risucchiato da quello sguardo. Probabilmente gli sarebbe persino piaciuto.

“Perché?” Chiese Stiles e adesso finalmente gli sembrava di aver fatto una domanda sensata.

Derek lo fissò. Di nuovo sembrò spaventato da qualcosa, ma per un solo fuggevole istante, come il suono di uno schiocco di dita. Poggiò anche l’altra mano sul viso di Stiles, poi avvicinò il viso con una lentezza che per poco non fece cedere le ginocchia a Stiles. Però capì perché lo stava facendo, capì anche perché nel farlo non chiuse gli occhi neanche un istante, mentre si avvicinava. Il suo sguardo era così eloquente che, col tono di voce di Derek, Stiles cominciò a sentire intere frasi.
Fermami ora.
Dimmi che devo fermarmi se non va bene.
Dimmi di andarmene.
Mandami via.
Ma Stiles non voleva nulla di tutto ciò. Lui voleva sentire le labbra di Derek contro le sue, non si era mai reso conto di quanto lo volesse fino a quel momento, di quanto lo desiderasse. Lasciò scivolare la mano dalla spalla al collo di Derek, e lo attirò a sé. Ebbe persino il tempo di notare che finalmente chiuse gli occhi, un istante prima di sentire le sue labbra. Gli sembrò di essere investito in pieno da una semplicissima verità. Quello era reale. Era reale la mano di Derek sulla sua schiena che lo stringeva a sé, era reale la sua bocca, era reale la barba stranamente morbida contro la pelle, era reale il suo profumo – proprio suo, quello che probabilmente aveva dalla nascita – erano reali i loro respiri annaspanti e i loro corpi uniti. Era tutto, dannatamente reale. Reale e tangibile. Reale e, per la prima volta dopo tanto tempo, semplicemente bello.
Quando Derek si allontanò Stiles restò a fissarlo per qualche istante senza dire nulla. Semplicemente lasciò che quella deliziosa sensazione lo pervadesse per bene, tentando in qualche modo d’impacchettarla o almeno di metterla al sicuro dentro di sé per poterla conservare in qualche modo. Non riuscì a fare a meno di sorridere.

“Ora ci torni a casa?” Chiese Derek, sorrideva anche lui.

Stiles strinse le labbra.

“Dipende,” rispose. “Magari sì, ma forse mi serve un passaggio.”
 
 
 
   
 
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