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Autore: Mirin    04/02/2014    2 recensioni
«Cosa scende con te dalla Francia, Chantal?»
«Quelque chose che desidevra i tesovri di Essio e che ha valicato i Pivrenei per ottenevrli.»
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«Un nome non vi fa padvrone, monsieur Mavrscello. Un nome non vi favrà vostvro padvre.»

Ezio fu spinto nella Confraternita dalla vendetta. Marcello dal nome che gli grava sulle spalle.
Genere: Generale, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Claudia Auditore, Marcello Auditore, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Incest, Violenza
Capitoli:
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La notte nera di stelle si stendeva nel cielo infinito come il mantello sulla schiena dell’uomo alto dal naso aquilino che osservava la distesa di alberi sotto di lui.
Gli occhi dal taglio europeo parevano ardere del calore che hanno le ceneri carbonizzate della legna, quel caldo residuo che in verità niente è se non un’illusione, un ricordo dell’umanità.
Una bestia, ecco cosa rappresentava quell’uomo.
«Ve lo dirò un ultima volta, Giacomo. Dove si trova la famiglia Auditore?»
Alle sue spalle, due uomini robusti trattenevano per le spalle un terzo, che frignava come un bambino. Questi era inginocchiato e le due guardie premevano duramente sulle sue caviglie con gli stivali, provocandogli un dolore oltre l’atroce. Tirato per i capelli, era costretto a tenere la testa rivolta verso l’alto e alla sua gola splendeva la lama di un coltello dall’aria micidiale. Aveva paura persino di deglutire, convinto che, se lo avesse fatto, il filo dell’arma gli avrebbe assottigliato il collo.
L’uomo si portò una mano inguantata a giocherellare con il pendente della sua collana, una croce nera spessa, grigia e nera. Rifletteva sul da farsi, ponderava al millimetro ogni sua futura azione: gli Assassini di Firenze erano stati allertati da Chérie, ogni sua mossa poteva essere spiata in qualunque momento, e quegli idioti mandati in avanscoperta non avevano fatto altro che combinare guai; se persino il figlio dell’Auditore -che, da quanto gli era stato riferito, era più sprovveduto di un cucciolo di leone nell’oceano- era riuscito a tirar fuori gli artigli e a trapassare da parte a parte qualcuno, c’era parecchio da meditare.
«Avete dunque deciso di morire, Giacomo? Rifletteteci bene. Il mio Signore non è un uomo a cui si rifiuta un favore, ed è notoriamente generoso» mormorò l’uomo col mantello, girandosi verso il quadretto deprimente.
Afferrò Giacomo per la mascella e lo costrinse a guardarlo dritto negli occhi neri come la pece.
«Sapete chi sono io?»
«N-no… ugh… nossignore, mio signore.»
«Mi chiamano Caino. Come il Caino della Genesi, io sono un servitore di Dio e sono il servitore di coloro che lo rappresentano in Terra; il mio compito è quello di sterminare l’Ateismo prima che possa porre fine alla Cristianità e alla Sacra Missione che i suoi protettori vogliono compiere» sibilò sul suo volto, con una calma ed una sicurezza che fecero sgorgare lacrime ancora più disperate dagli occhi di Giacomo.
«Caino?» domandò, disorientato. Aveva letto la Bibbia, e a quanto ne sapeva Caino aveva ucciso Abele perché i sacrifici di quest’ultimo erano più graditi al Signore.
«La Storia cerca di farmi passare per un mascalzone, per un delinquente, per un… assassino. Mais je ne suis pas ce. Io sono un cristiano e compio solo la volontà di Cristo» rispose l’altro, adornato di un sorriso così gelido da ghiacciare la lingua di Giacomo ed impedirgli di ribattere.
L’uomo rilassò le labbra. Anche quella preda era conquistata, vedeva zampillare dai suoi occhi pianto e paura. Non poteva rifiutargli nulla, era come un serpente con il suo incantatore.
«Dove si trova la famiglia Auditore?» lo incalzò. Fece un cenno alle due guardie, che lasciarono andare il prigioniero. Giacomo singhiozzò di sollievo.
«Io… non posso… mia figlia, mia moglie…» balbettò Giacomo, asciugandosi il volto bagnato.
«Non torceremo loro un capello, ve lo garantisco» annuì l’uomo, ma Giacomo non riusciva a credergli. Eppure, che speranze aveva? Se non avesse parlato, Caino l’avrebbe ucciso, e avrebbe torturato un altro, poi un altro ancora, fin quando non avesse saputo l’informazione che bramava.
E forse… forse… in fondo, cosa c’entrava la sua Fiorella? Era una bambina splendida ed innocente, niente a che vedere con la malvagità dell’uomo che gli stava di fronte. Persino lui sarebbe stato mosso dalla pietà all’osservare il viso placido della sua bambina mentre dormiva. Non avrebbe ucciso la sua Fiorella.
“Non puoi fidarti della parola di qualcuno che ha adottato come nome quello di un fratricida!”
Non aveva altra scelta. Era solo, completamente, ed era circondato solo da minacce armate di spade e di parole suadenti nella loro crudeltà.
Avrebbe soltanto desiderato poter stringere la sua amata ancora una volta, baciarla sulla bocca, dirle che l’amava. In quel momento null’altro aveva senso se non il cullarsi nei ricordi di una vita che gli sarebbe stata negata. Qualunque fosse stato l’andazzo, ormai il suo destino era segnato assieme a quello della sua famiglia.
«Il colle più a est. Bisogna attraversare Fonte Santa. Seguite il sentiero fino alla Villa dei Papaveri, poi tenete la sinistra e risalite il pendio. È il primo campo che cattura il vostro occhio.»
Caino annuì e agitò la mano. Un drappello di manigoldi scivolò nella scena, catturato dalla luce della luna.
«¿Que hacémos con él?» esclamò con voce rozza una delle due guardie. “Cosa ce ne facciamo di lui?”
«Átenlo y agáis lo que os parece más justo» replicò Caino, impassibile. “Legatelo e fatene ciò che vi pare più adatto”.
«¿Podemos matarlo?» chiese l’altro mercenario. “Possiamo ucciderlo?”
«Sólo si os aburrís demasiado» rise l’uomo, nascondendo la croce sotto i vestiti.
“Solo se vi annoiate troppo.”



Caino e i suoi uomini cercarono fino all’esaurimento, negli armadi, nelle ceste, negli anfratti, negli sgabuzzini, nelle stanze, nei cassetti, persino sotto i materassi. Non c’era traccia di una sola riga vergata da Ezio Auditore, né di una pagina del Codice. Nulla, tutto sparito.
«E dunque, una falsa pista» affermò l’uomo, soffocando la stizza. Un mese di preparazione, un viaggio interminabile oltre i Pirenei e le Alpi, l’uccisione di decine di innocenti ed il massacro di infiniti Assassini per giungere a cosa? Ad un filo di fumo.
Eppure un tarlo lo rodeva. Se Chérie era arrivata prima di lui a Firenze, era molto probabile che avesse fatto piazza pulita di tutte le informazioni che lui ed i suoi confratelli desideravano e che gli Assassini desideravano rimanessero segrete. Doveva aver portato via tutto all’insaputa degli Auditore; se le cose fossero andate in quel modo, doveva aver già preso la via per la Francia.
«E così sei stata più veloce di me, Chérie» mormorò. Chérie era arrivata prima di lui, aveva fatto scomparire ogni traccia del passato da quella villa, ne aveva fatto una roccaforte priva di segreti, aveva rubato la gallina più grassa dal pollaio e vi aveva lasciato solo i pulcini.
Caino sorrise.
Le avrebbe reso pan per focaccia.
Voleva la Mela? Che li avesse! Non avrebbe potuto di certo comprenderla, senza Abele.
«Fuego» ordinò ai soldati «bruciate tutto fino alle fondamenta.»
«Ma signore» protestò scandalizzato uno degli sgherri «rischieremmo di dare fuoco anche agli oggetti che Sua Maestà desidera!»
La lama dello stiletto che Caino portava legato alla vita disegnò una linea netta orizzontale sul collo del ragazzo, che schizzò sangue per quasi tre secondi prima che egli si afflosciasse al suolo.
«Bruciate tutto» bisbigliò mortifero.
E così venne fatto. Le fiamme divorarono tende, soprammobili, lenzuola, divani, tavoli, vetrine.
Caino osservò l’inferno di fuoco che aveva scatenato. Il ruggito delle fiamme avanzava come l’Inferno dietro la Morte e il suo cavallo verdastro, mentre lui era Michele e lottava contro il serpente antico.
«Allora uscì un altro cavallo, rosso fuoco. A colui che lo cavalcava fu dato potere di togliere la pace dalla terra perché si sgozzassero a vicenda e gli fu consegnata una grande spada» recitò, facendosi il segno della croce, prima di voltare le spalle all’apocalisse di cui era stato il fautore.
 
Un’energica scossa alla sua spalla. Una preghiera dalla dolce voce e dall’accento transalpino.
La seconda cosa che Marcello registrò era la puzza di zolfo esasperante che pareva essersi diramata persino nel suo cervello.
La terza cosa che Marcello comprese era il logorante calore che provava sulla guancia sanguinante.
La quarta cosa che Marcello capì era che tutto ciò non era normale.
La quinta cosa che Marcello carpì erano i colori rosso e giallo che divoravano la sua casa, non appena fu capace di aprire gli occhi.
Marcello registrò.
Marcello comprese.
Marcello capì.
Marcello carpì.



La fine.


Il suo corpo intero scattò. Si lanciò fuori dal letto e caracollò verso il pianerottolo in fiamme. Una trave cadde dal soffitto e si schiantò sul corrimano, si trascinò dietro un pezzo di muratura e venne rimasticata dal fuoco che si elevò sopra essa e lambì la caviglia di Marcello, lanciato in corsa verso la prima camera del corridoio, quella di Sofia.
«MAMMA! MAMMA! MAMMA!» gridò. Sentì i timpani spaccarsi dalla forza della sua stessa voce, ma Sofia non rinvenne. Marcello la scosse, la scosse come si era sentito scuotere per la spalla pochi secondi prima, ma Sofia caparbia teneva gli occhi chiusi.
«SVEGLIATI! SVEGLIATI! TE NE PREGO, SVEGLIATI!» aveva raggiunto il limite del disumano, sentiva la gola lacerata a metà dal fumo e dalle lacrime, piangeva, e le lacrime cadevano sul volto cereo di Sofia. Stava facendo un bel sogno, Sofia, Marcello vedeva il suo sorriso.
«Non sta dormendo, Marcello. Non sta dormendo.»
Avrebbe voluto onorare la memoria della madre, sdraiarsi accanto a lei e lasciarsi prendere anche lui, ma un rumore lo destò dai pensieri più oscuri.
Un piccolo, leggero, microscopico, sottile, innocente, flebile, incredibile, commovente colpo di tosse.
Fiorella.
Marcello non corse. Marcello probabilmente si materializzò, fra le fiamme e le ceneri, fra le ferite e le scottature, fra i dolori e la vista torbida di fumo, nella stanza di sua sorella.
Flavia era sveglia.
«FLAVIA!» si gettò al suo capezzale, baciandola sulle guance.
«no… no… Marcello… porta via Fiorella» lo implorò. Lo guardò negli occhi con una tale decisione che Marcello non poté esimersi dal fare ciò che le aveva ordinato.
Flavia Auditore era stata la più straordinaria tra le donne, la più meravigliosa tra le madri, la più splendida tra le sorelle, la più forte tra i suoi pari. Marcello non si sentì uomo ad osservare quello sguardo così fiero, così prezioso, come un topazio grezzo incastonato nelle sue orbite, non avrebbe mai avuto la sua stessa fermezza, la sua stessa inflessibilità mentre diceva a qualcuno “lasciami morire, salva mia figlia”.
«Ti voglio bene, amica mia» la salutò Marcello. Poggiò la bocca sulla sua testa, una bocca impastata di lacrime e saliva, e le tracciò tre croci sul cuore, sulle labbra e sulla fronte.
«Sei un grande uomo, Marcello Auditore. Non te ne scordare mai» si raccomandò Flavia, prima di chiudere gli occhi.
Marcello afferrò Fiorella con un urlo. La bambina era svenuta, quindi non si destò, e Marcello prese a correre.
La pavimentazione incandescente cedeva sotto il suo peso, sentì le piante dei piedi nudi andare a fuoco, ma nonostante tutto continuava a correre.
Il muro d’Inferno rendeva piatto tutto attorno a lui, non ricordava dove fosse l’uscita, la testa gli girava e sentiva il sapore acido del rigetto sulla lingua, ma non era una scusa sufficiente a fermarsi.
Il calore delle vampe lo aveva ustionato, si sentiva legato ad una pira, reo di aver creduto di non appartenere alla realtà nella quale era incatenato, il suo corpo chiedeva pietà, aveva una caviglia slogata, ma non era abbastanza per smettere.
Marcello correva, senza una direzione, soltanto lontano, lontano dal fuoco, lontano dalla sua vita, lontano dal suo nome.
Marcello non poteva più esistere.
Aveva perso tutto.
Gli rimaneva solo una cosa ormai.
Non seppe mai come valicò la solida parete di fiamme che ostruiva il varco nella parete. L’aria era un balsamo sul suo corpo ustionato. Non la percepiva sul lato destro del volto, che sanguinava abbondantemente, non aveva sensibilità e quindi certamente mai più avrebbe sentito la mano di una donna accarezzarlo. Immaginò il suo volto strinato da una cicatrice indelebile e non riuscì a trattenere il vomito, colpa delle esalazioni, del dolore e della paura folle che gli avevano attanagliato lo stomaco.
Cadde in ginocchio e la bambina gli scappò dalle mani, poiché già era steso sull’erba bruciata e il suono dell’incendio gli crepitava nelle orecchie.
Non poteva dormire, ma il suo corpo rifiutava di andare avanti.
Scavò nel terreno con le unghie e guadagnò il territorio centimetro per centimetro. Non sapeva quale Dio gli stava dando la forza di trascinarsi, sapeva solo che in quel momento la sua esistenza erano quei centimetri che gli parevano invalicabili quanto montagne.
Insanguinato, distrutto, dilaniato, Marcello Auditore continuava ad avanzare.
Basta, ti prego diceva il mas.
Non smettere mai diceva il vir.
Fece leva sui polsi per alzarsi in piedi. Agguantò Fiorella per un braccino e se la trascinò in spalla, quasi fosse il suo sacco pieno di frutta. Era iniziato un nuovo giorno di lavoro, e Fiorella era la sua preziosa merce, ciò che avrebbe dovuto conservare a tutti i costi.
I suoi piedi si trascinavano spossati nei campi che venivano distrutti nella sua totale indifferenza. Era estraneo persino al suo stesso corpo, non capiva, procedeva meccanicamente attraverso la morte e la perdita.
Inciampò in un quadrato di legno nascosto tra la sterpaglia.
Il rifugio.
Con rinnovato vigore, posò delicatamente a terra la piccola e si chinò sulla botola. Infilò le dita nell’invisibile fessura e tirò. Le sue unghie si lacerarono e cominciarono a sanguinare copiosamente, sentì il medio della mano sinistra rompersi con uno schiocco, ma non gli importava.
Più morto che vivo, entrò nella cantina assieme a Fiorella, chiudendosi l’anta e la vita alle spalle.
 
Steso sul pavimento, Marcello si svegliò di botto con un dolore inconcepibile nell’intero corpo.
Rannicchiata contro di lui c’era Fiorella, Marcello l’accarezzò con la mano sporca di sangue.
«Amore mio» bisbigliò «amore mio.»
Riuscì ad alzarsi su un fianco con qualche difficoltà, dopodiché tirò via i capelli di Fiorella dalla sua fronte e le morse le guance.
Aveva la voce afona per il fumo, quindi parve più una minaccia quella che scaturì dalle sue labbra appena dischiuse.
«La luna se n’è andata, la mamma si è svegliata, la luce si è alzata, inizia la mattinata.»
Fiorella si girò nella sua presa: «no, tio, mamma non si vveglia più.»
Marcello chiuse gli occhi alla coltellata che le sue parole infantili gli avevano inferto.
La lasciò andare ed attraversò il corridoio illuminato da fiaccole. Ormai detestava il fuoco, non sopportava niente che lo riguardasse, era il suo personale Anticristo.
Dalle profondità più recondite della cantina soffiava una gelida brezza. Marcello si chiese cosa avesse provocato quell’improvviso vento, ma una volta arrivato a destinazione non ebbe motivo di domandarselo ulteriormente: il peso di un albero caduto e il calore del fuoco avevano aperto un minuscolo varco sul tetto del sotterraneo, tappato da un ramo sottile dello stesso arbusto.
Marcello provvide a staccarlo e lo utilizzò per forzare il baule al centro della stanza.
Conficcò, prepotente, il ramo tra le catene che proteggevano il baule e tirò con tutta la forza che aveva in corpo. Un grido sfuggì dalle sue labbra mentre applicava tutti i suoi muscoli su quell’unico scopo: aprire quel maledetto baule. Ormai era una questione personale, Ezio glielo doveva.
Ezio Auditore aveva cancellato Marcello Auditore con la sua ombra.
Marcello Auditore avrebbe spento per sempre il manto di luce che circondava Ezio Auditore.
Il primo tentativo non andò a buon fine, infatti l’uomo cadde sul pavimento per il contraccolpo.
«Andiamo, Ezio, non fare il difficile» ringhiò.
Due volte tentò nello stesso modo, due volte il baule rimase ostinatamente chiuso. Si ritrovò a rovesciarlo con un calcio, frustrato: non era abbastanza nemmeno per quello? Per forzare un maledetto baule?
Un altro colpo si infranse sul legno, seguito da un secondo e poi da un terzo ancora, mentre Marcello sfogava tutta la rabbia covata nel cuore. Se lui fosse stato suo padre… poi si ricordò che era stato suo padre, il padre di Flavia e il marito di Sofia, la causa per cui erano morte.
Suo padre e i maledetti segreti che teneva segregati in quel baule.
Si rifiutava di accettarlo. Niente era tanto prezioso da richiedere il sacrificio di due vite innocenti. Come aveva potuto Ezio correre così irresponsabilmente un pericolo tale? Se lui era il custode di cotanta potenza, con quanta irresponsabilità si era lasciato circondare dall’amore?
Mai come in quel momento, sperò che ci fosse un aldilà. Soltanto perché Ezio soffrisse dei peccati che persino da morto continuava a perpetrare.
Quando stava per rifilare l’ennesimo calcio alla cassa, si accorse di una piccola sagoma scavata nel legno, sul fondo della cassa. Marcello si inginocchiò ed accarezzò quel segno, che era freddo sotto i polpastrelli e probabilmente nascondeva un marchingegno meccanico.
“Una serratura?”
Spezzò la punta di uno dei bozzi presenti sul suo piede di porco improvvisato. Con una mano tenne ferma la cassa, così iniziò a girare la punta nella serratura. Era ossessionato, si capiva dagli occhi sporgenti, dalla bocca aperta in modo maniacale, dai movimenti nervosi delle sue dita.
Aveva in pugno Ezio. Gli avrebbe fatto sputare la verità, a quell’ignobile uomo.
Dopo dieci minuti buoni, qualcosa scattò. Le catene caddero con uno schianto a terra e il rivestimento esterno si spezzò in lunghe crepe, che nascondevano un’anima di ferro all’interno; questo spiegò a Marcello come mai aveva trovato così difficoltoso spostarlo la sera precedente.
Provvide a rimettere dritta la cassa, ma mentre stava per aprirla, si accorse che non avrebbe potuto ancora farlo: c’era una seconda serratura; sotto di essa, al centro della cassa, una scritta in foglia d’oro. Marcello impiegò alcuni minuti a leggerla, essendo vergata da destra a sinistra.

 
Si deve guardare più il basso che l’alto.

Cosa significava quell’enigma?
Forse è un allusione alla posizione della serratura nascosta sotto al baule, pensò Marcello. Poteva essere una frase filosofica che inneggiava alla pratica dell’umiltà. Qualunque fosse la soluzione, ciononostante, non risolveva il più fondamentale interrogativo: perché quell’incisione esisteva? Se Ezio era stato tanto ostinato a proteggere i suoi segreti, di certo non si aspettava che qualcun altro aprisse il suo forziere; eppure, si era preoccupato di lasciare quell’indizio, anche se nascosto sotto forma di indovinello… ma era inutile! Se pure qualcuno ne avesse scoperto l’esistenza, era inutile, poiché tale persona aveva già guardato il basso!
Scosse la testa: troppi pensieri. Doveva agire e basta.
Analizzò la seconda serratura, quella sopra la scritta. Aveva una strana forma, di fiamma, ed era di oro rosso e giallo. Aveva un solo minuscolo foro, più piccolo di qualunque chiave esistente. Tentò di infilarci il rametto, poi un dito, nulla era abbastanza sottile da passarci, probabilmente soltanto l’aria. Il suo sguardo si perse nella contemplazione dello strano simbolo, preda di ricordi lontani.
Ripetilo, papà!
Oh, Flavia…
Per favore, una volta sola!
Nulla è reale, tutto è lecito.
Aaaaw! Mi fa venire i brividi! Avresti dovuto fare lo scrittore, le tue storie sono così avvincenti! Vero, Marcello?
Una forza superiore spinse la bocca del ragazzo contro il freddo metallo. Il suo respiro si infilò in quella complessa armonia di ingranaggi come l’olio che fa muovere le ruote.
«Nulla è reale, tutto è lecito» sussurrò alla fiamma che parve crepitare di vita, accendersi di rosso brillante. Prima che potesse capire cosa stava accadendo, la fiamma ruotò sui cardini e si girò a testa in giù con un rumore di sblocco.
Marcello aprì la chiusa del baule e si chinò ad osservare al suo interno cosa ci fosse con occhi spenti, cadaverici.
Un piccolo scrigno dall’aria preziosa, una trentina di pagine sciolte dall’aria antica, un’uniforme bianca ed un bracciale da polso.
E Flavia e Sofia erano morte per questo.
«DAVVERO, EZIO? MI PRENDI IN GIRO? TUTTO QUESTO SANGUE VERSATO PER UN DANNATO COFANETTO ED UN PAIO DI MALEDETTISSIME PAGINE VECCHIE QUANTO IL MONDO? TUA FIGLIA E TUA MOGLIE SONO MORTE  PER QUESTO! MORTE! E A TE IMPORTA QUALCOSA? NO! TE N’È MAI IMPORTATO, LURIDO BASTARDO? NO! CI HAI LASCIATI NEL PERICOLO, NELLA SVENTURA, CON L’UNICA CERTEZZA DI AVERE LA MORTE FIN DENTRO LE OSSA! QUANTO DESIDEREREI UCCIDERTI IO STESSO, CON LE MIE MANI, E LIBERARMI DEL TUO SANGUE CHE MI SCORRE NELLE VENE! BASTARDO, SCHIFOSO MALEDETTO BASTARDO! E COSA DOVREI FARE IO ADESSO, EH? TUTTA FIRENZE MI RITERRÀ MORTO ORMAI, MORTO! NON POSSO SCAPPARE, NON POSSO PIÙ TIRARMI INDIETRO, C’È FIORELLA, C’È ZIA CLAUDIA… GAAAAAAAAH!» Marcello cadde in ginocchio, portandosi le mani alla testa e trattenendo lacrime di disperazione.
Cosa doveva fare? Che cosa doveva fare?
La sua mente era il caos più totale. Paura, sofferenza, agonia, angoscia, tutte si rimescolavano nel suo petto e gli facevano salire il mal di mare. Schiarirsi la mente era un’utopia, non ricordava più cosa fosse la serenità, si sentiva terribilmente debole ed invecchiato. Era solo, solo e senza aiuti. Tutta la sua famiglia era morta, gli era rimasto l’ultimo fardello -nonché la sua consolazione più dolce-: Fiorella. Lei non doveva subire gli orrori dei quali era stata partecipe, Marcello aveva giurato a Flavia di portarla in salvo, e non intendeva tradire la parola data. Non osava immaginare cosa sarebbe successo non appena fosse riuscito ad adempiere alla sua missione, era già difficile pensare al presente senza tormentarsi per il futuro, però non poteva impedirsi di affrontare la realtà ineluttabile che le loro strade si sarebbero divise.
Ciò che doveva fare, in quel momento, era trovare una sistemazione alla sua nipotina.
«Zia Claudia?» mormorò sovrappensiero «a Firenze?»
Non c’era alcuna soluzione. L’unica loro salvezza era Claudia, lontanissima, a Firenze. Come arrivarci, era il quesito giusto da porsi. Affrontare tanto cammino nelle sue condizioni era impossibile: aveva dolori alla schiena, al volto, alle gambe e alle braccia.
A cavallo? E con quale cavallo?
Forse quello che aveva rubato la sera precedente era ancora vivo. Al vedere le fiamme poteva essere corso nella foresta; ipotesi remota quanto improbabile, ma alla fine era l’unico piano che aveva in mente e che potesse attuare.
Si alzò, pronto ad imboccare la via esterna, prima di rendersi conto del fatto che non poteva uscire. Se la notizia dell’incendio di Villa Auditore era trapelata sul serio fino a Firenze, lui era considerato morto, non stava bene che camminasse per i boschi a viso scoperto.
La sua mano s’impregnò del tessuto del manto immacolato. Era la divisa degli Assassini, l’Ordine che Ezio aveva mandato avanti per anni. Metterla significava diventare un adepto delle convinzioni di quello scellerato, dell’uomo che lui più disgustava.
“È solo per praticità. La getterò non appena saremo arrivati a Firenze” si disse.
Con un gesto nauseato, raccattò la tenuta bianca e la indossò, lento.
Marcello Auditore da Firenze alzò il cappuccio sulla propria fronte.
La caccia -fuga lo corresse il mas- era iniziata.
 
La luce era strana da percepire, Marcello se ne avvide non appena uscì all’aria aperta.
Aveva detto a Fiorella di aspettarlo nella sala dei tini e di non uscire per nessun motivo, poi si era incamminato nel mezzo della foresta alla ricerca del suo cavallo.
Per centinaia di metri, il Bosco di Fonte Santa era stato completamente raso al suolo. I cadaveri degli alberi giacevano storti nel terreno, abbattuti su un fianco oppure dilaniati. Il terreno era bruciato, di verde nemmeno l’ombra, e corpi di animali piccoli si riscontravano qua e là. Era uno spettacolo lugubre e ripugnante.
Nonostante non sapesse quale fosse la sua applicazione, si era portato dietro il bracciale da polso. Non aveva armi, quindi poteva rivelarsi un vantaggio nel corpo a corpo visto che pareva essere molto robusta.
Dopo parecchio viaggio, si ritrovò nel folto della foresta che non era stata intaccata dall’incendio. I rumori che solitamente gli parevano benigni e piacevoli, erano cupi e minacciosi: ognuno di essi poteva coprire un passo, un nitrito, una voce, uno sguainare di ferro, elementi che lui aveva la necessità più che urgente di cogliere. Piano, si mosse verso la concentrazione più fitta di flora, nascondendosi in mezzo ai tronchi più grossi.
Il cuore gli balzò in gola quando udì una voce rozza dal forte accento spagnolo a pochi metri da lui.
Le sue membra si irrigidirono dalla paura, e qualcosa gli graffiò il palmo della mano, lo capì dal sangue che gli scorreva fra le dita.
Alzò il polso per esaminarlo: dal cuoio era spuntata una lama aguzza, sottile, piccola e discreta, ma dall’aria letale. Provò a rilassare il braccio e questa si ritrasse, tornando invisibile come prima. Verificò alcune volte lo stesso sistema, irrigidire e rilassare il braccio, e il meccanismo funzionava perfettamente, senza perdere colpi. Era un’arma perfetta per un assassinio silenzioso, proprio quello di cui lui aveva bisogno.
Si sporse dal suo nascondiglio e vide due guardie discutere vicino ad un cavallo nero bardato di tutto punto. Necessitava di quel destriero, e se il Fato aveva deciso di metterci di mezzo anche due manigoldi da assassinare, non poteva tirarsi indietro.
Sempre rannicchiato, superò con la gamba sinistra la radice massiccia dell’albero, mentre tendeva al massimo la destra. Fece scattare la lama e inquadrò per bene il suo bersaglio. Una minuscola porzione di collo era lasciata scoperta dall’elmo corredato di pennacchio rosso, quindi avrebbe colpito proprio in quel punto. Se fosse stato abbastanza veloce, avrebbe potuto ucciderli entrambi senza che nemmeno se ne accorgessero: la tempistica era tutto.
Appena la guardia con l’armatura scoppiò in una risata grossa, Marcello agì. Si slanciò, veloce come una pantera, e colpì la guardia alla nuca. Prima che la seconda potesse solo dire “ah”, Marcello ritirò la mano dal corpo della guardia, allungò il braccio e affondò la lama nel petto dell’altro, dritta nel cuore.
Con ai piedi i cadaveri dei suoi nemici, sorrise di un sorriso cupo: cosa non si fa, guidati dalla vendetta e dall’autoconservazione?
 
Nella sera delle strade deserte di Firenze l’aria era gelida e il capo di Marcello ciondolava, distrutto. Fiorella, seduta con la schiena contro il suo petto, dormiva già da ore e non aveva pianto per tutto il viaggio.
Il viaggio, già. Durato l’intera giornata, era stato stancante come niente in tutta la sua breve vita; aveva i nervi a pezzi, i dolori che aveva in corpo si erano amplificati, la mano sinistra si era completamente bloccata e pulsava di dolore, l’ustione che aveva al volto continuava a bruciare come se fosse di fiamma e la caviglia gonfia gli impediva di camminare.
Sui merli delle fortificazioni e dei palazzi importanti, soldati osservavano stanchi l’atmosfera sotto di loro, senza notare un cavallo che avanzava nell’ombra.
Si era infilato oltre le porte dopo aver ucciso le guardie che le controllavano e i mercenari spagnoli che si aggiravano per le vie non si azzardavano a fermare un cavallo che portava l’insegna di Carlo V, anche se il suo cavaliere era un tipo losco.
Marcello, con le poche forze rimastogli, guidò il cavallo attraverso passaggi secondari che soltanto i fiorentini conoscevano, depistando i vari coscritti che lo osservavano con troppa curiosità, prima di incontrare un sentiero troppo ripido che l’animale si rifiutava di imboccare.
Scese da cavallo e lo legò con le redini ad una decorazione uncinata, prese in braccio Fiorella e proseguì a piedi.
La Villa di Zia Claudia non era lontana, ma anche se lo fosse stata, Marcello non avrebbe demorso: il desiderio di mettere al sicuro la nipotina era più forte della stanchezza e della sofferenza fisica e morale che provava.
C’erano innumerevoli persone che giravano armate con lo stemma degli Asburgo ricamato sul mantello, Marcello se ne accorse aggirandosi negli anfratti ombrosi delle case e delle piazze. La notte tranquilla di Firenze era bucata da voci spagnole e tedesche, che si mescolavano assieme a quelle degli ubriaconi toscani.
“Se non è in programma nessuna visita da parte del Re di Sicilia, come possono tollerare i Medici questa intrusione?”
Marcello ritirò la testa al passare di una ronda. Quella storia non gli piaceva affatto, avrebbe chiesto a Claudia spiegazioni.
Si aggiustò meglio la bambina tra le braccia e sfrecciò silenzioso attraverso la piazza. Si nascose contro la fontana ed aspettò che la masnada si spostasse verso est, poi continuò in direzione nord fino ad un bivio pattugliato da due agenti asburgici, spalla contro spalla. Depositò Fiorella nella rientranza buia di un portone e attaccò i nemici, trapassando la gola di uno e accoltellando la schiena dell’altro con un paio di movimenti lesti. Senza fare rumore, caddero al suolo.
Girò a sinistra, zoppicante, ed arrivò davanti alla villa borghese di zia Claudia. Stremato, bussò e dopo pochi secondi sentì Saverio, il capo della guardia, mormorare: «Marcello?»
«Sì, ti prego, siamo feriti» rispose senza voce, scivolando con la spalla lungo il muro.
Le mani robuste dell’uomo afferrarono Marcello per la divisa e lo trascinarono all’interno.
«Sia lodato l’Altissimo» sospirò, prendendo in braccio Fiorella «madonna Claudia stava impazzendo.»
«Perché? Dovremmo essere morti» ribatté Marcello, che seguiva Saverio lungo la scala a chiocciola che portava allo studio della zia.
«Lascerò che sia vostra Zia a dirvi cosa sta accadendo» si congedò il capitano. Bussò alla porta d’acero e sussurrò qualcosa, cosicché immediatamente Claudia venisse ad aprire.
«Oh Marcello, nipote mio adorato, grazie a Dio!» singhiozzò prima di abbracciarlo stretto «sei solo? Flavia? E la mia adorata cognata? E Fiorella?»
«Fiorella è con me. Mia madre e mia sorella sono perite nell’incendio» rispose con tono grave.
«Che il Misericordioso ne abbia cura» bisbigliò con voce soffocata «entrate dentro, entrate! Ho molte cose da dirvi.»
«Sì Zia, tante» rincarò Marcello. Claudicante, si appoggiò su una poltrona e si sciolse contro la comodità dello schienale. Saverio poggiò Fiorella sul divano e premette gentilmente una mano contro le sue ossicina.
«La bambina sta bene, è stanca, ma non sembra avere nulla di rotto» concluse «voi, messer Marcello, sembrate stare molto peggio.»
«Non è importante adesso!» ringhiò contro i due «ditemi cosa accade! Perché è stato appiccato l’incendio alla mia casa? Cosa ci fanno tutti questi mercenari del Sacro Romano Impero? Chi cerca i documenti di Ezio?»
Claudia sospirò, poi con lentezza si sedette.
«Ti dirò tutto, Marcello. Abbi solo pazienza. Prima di tutto, tu ormai non sei più Marcello Auditore.»
Marcello boccheggiò: «Cosa?»
«Il nome Auditore ti porterà soltanto sventure, d’ora in poi» spiegò Claudia «e il Medici ti hanno dichiarato morto assieme alla tua famiglia. Tu non esisti, per loro.»
«Sarò il fantasma che tormenterà i loro incubi, allora!» dichiarò Marcello, animato da collera ed odio folle.
«Non siate precipitoso, c’è ancora tanto da dire. Il Duca non è nient’altro che un fantoccio nelle mani dei Templari» s’intromise Saverio «avrete di certo notato le guardie spagnole in città.»
«Ovviamente. Perché Carlo V manda le sue truppe in Italia? Capisco l’alleanza sua e del Moro, ma Firenze non è stata così tranquilla dai tempi del Magnifico!» sbottò Marcello, livido di rabbia e dolore.
«Carlo V è il capo dell’Ordine Templare riformato» affermò Claudia «i Compagni francesi hanno ritenuto necessario informarci di ciò.»
«E questo cosa vorrebbe significare?» Marcello si stava scaldando.
«Che il sovrano sul cui regno non tramonta mai il sole vuole i tesori di tuo padre, e non si fermerà fin quando non saranno suoi!» Claudia si alzò in piedi con un movimento repentino.
«Per adesso, non è lui il vostro problema, Marcello, ma il suo mastino: Jacques, detto il Caino o L’Espagnol» soffiò sprezzante Saverio «un fanatico religioso che uccide, distrugge e marchia innocenti in nome di Cristo. Come se non fosse risaputa la sua pazzia!»
«Pazzo oppure no, questo Jacques è un avversario temibile quanto i Borgia» mediò Claudia, tornando comoda «e sta cercando i documenti di Ezio. Ora che sono nelle sue mani, gli Assassini subiranno un grande ridimensionamento dei propri poteri.»
«Perché? Cosa c’è nei suoi documenti?» domandò esasperato Marcello.
«Ezio scoprì, a suo tempo, l’ubicazione di un’altra Mela, che poteva essere utilizzata soltanto da un Eletto della Prima Civilizzazione, una persona che lui chiamava Abele» disse la vecchia signora, che guardava fisso Marcello negli occhi «loro vogliono cercare e distruggere quella Mela per impedire ad Abele di utilizzarla.»
«Mela? Prima Civilizzazione? Di cosa state parlando?» a Marcello stava scoppiando la testa.
«Ezio, dopo essersi ritirato dalla carriera di Assassino, scrisse un diario, che chiamò Codice del Profeta» esplicò «ed è estremamente prezioso sia per noi Assassini che per i Templari, poiché contiene i segreti del suo incontro con gli antenati della Prima Civilizzazione.»
«Ferma! Chi ha parlato di noi Assassini?» Marcello era sulla difensiva «noi chi, se posso chiedere?»
«Non vuoi entrare nell’Ordine?» Claudia era scioccata.
«L’ORDINE È IL MOTIVO PER CUI LA MIA FAMIGLIA È MORTA!» gridò Marcello. Scattò all’impiedi ma fu costretto a sedersi: non riusciva a stare alzato, la caviglia gli faceva troppo male.
«Sono stati i Templari ad uccidere la tua famiglia, Marcello» rispose gelida «Caino ha appiccato l’incendio.»
«Come fai a saperlo?»
«Perché Jacques fu cacciato di casa a diciotto anni appunto per averle dato fuoco. Il fuoco è la sua firma.»
«Allora ucciderò questo Jacques» latrò Marcello «e vendicherò la morte di Sofia e Flavia.»
«Auguri» disse sarcastica «è da quando è entrato nell’Ordine dei Templari che ci stiamo provando. Ha ucciso persino Ludovico. E se pure tu fossi convinto della tua scelta, come credi di fare? Non hai intenzione di unirti a noi, a quanto hai detto.»
«Non condivido il vostro Credo, ma condivido il vostro obiettivo» affermò con voce fonda «ritenetemi un vostro non-nemico, fin quando i nostri obiettivi saranno comuni.»
«E sia, allora» Claudia accettò con un sorriso «messer…?»
«Francesco. D’ora in poi, chiamatemi Francesco.»
«Va bene, Francesco, per questa notte potete restare da me. Lascia pure Fiorella qui da me, domattina scendi in piazza e fatti un’idea della situazione» gli consigliò Claudia.
«Vi ringrazio, madonna Auditore. Ah, e già che ci siamo, ci terrei ad informare gli Assassini che i documenti di Ezio Auditore sono ancora in mano loro» Marcello sorrise «li ho nascosti prima che i Templari facessero irruzione.»
«Oh, che Iddio ti abbia in gloria, dirittone di uno! Come diavolo ti è venuto in mente?» Claudia annaspò, una mano sul petto.
Marcello spiegò tutti gli accaduti della sera precedente alla zia: la sua fuga attraverso Fonte Santa, l’attacco dei mercenari spagnoli, il suo tentativo di nascondere la cassa e poi l’esodo attraverso l’inferno di fuoco. Tacque, invece, i misteri riguardo la cassa.
«Grazie a Dio siete lungimirante, Francesco» disse Saverio alla conclusione del suo racconto «l’Ordine è salvo, grazie a voi.»
«Ora devi dormire» ordinò Claudia, imperiosa «ti fascerò le ferite e poi andrai filato a letto.»
«Pensiamo noi a recuperare i manoscritti» aggiunse Saverio, accomiatandosi dall’ufficio «voi pensate a riposare.»
 
Una notte sul materasso di Claudia e Marcello si sentì rinascere.
Non avvertiva più dolori alla schiena, la caviglia era molto meno gonfia e riusciva a compiere i minimi movimenti con la mano sinistra.
«Mi sembri molto più in forma» lo salutò la zia in soggiorno, e lui annuì mozzo. Fremeva dalla voglia di uscire a fare qualcosa, non sopportava l’idea di stare chiuso in casa. Sul lungo tavolo da pranzo era poggiato il suo bracciale da polso e un pugnale.
«Ho oleato la tua Lama Celata -sì, è così che si chiama-, ora dovrebbe funzionare meglio. E porta con te anche quel pugnale, non si sa mai» si raccomandò Claudia, osservandolo nella sua interezza.
«Cosa ti tormenta, nipote?» mormorò a Marcello che le dava le spalle, intento ad osservare dalla finestra Firenze inondata di sole.
«Quella donna» disse Marcello «anche lei è un’Assassina?»
«Sì» rispose Claudia.
«Come si chiama?»
«Chantal, Chantal Foncé.»
«È molto forte.»
«Ha un grado molto alto nell’Ordine Francese.»
«Anche lei ha provato ad uccidere Caino?»
«Sì e no.»
Marcello si voltò verso la zia: «Che intendi?»
«Chantal è una donna molto complicata, Francesco. Per quanto insopportabile, è un peccato affermare che non sia grande» rispose Claudia. «Ha lottato contro Caino, ma non è mai riuscita ad ucciderlo. Se è per questo, però, è ancora viva, il che è un grande risultato.»
Marcello rimase in silenzio. Lei, una donna, aveva lottato contro quel mostro di Caino, un mostro che aveva distrutto le fondamenta della sua vita; era prova di un coraggio immenso, un coraggio che lui non sentiva di possedere. Si sentiva molto meno sicuro e rabbioso della notte precedente: il ricordo di aver perso le due donne della sua vita era ancora impresso in lui, però sapeva di non essere abbastanza per poter arrivare ad uccidere Caino. Aveva bisogno di diventare più forte, ma sprovveduto com’era, l’avrebbero ucciso non appena avesse messo piede fuori di casa. Aveva bisogno di qualcuno che lo guidasse, di un maestro.
«Anche tu lo sei» disse Claudia dolcemente. Marcello si voltò verso di lei, confuso.
«Anche tu sei vivo dopo aver lottato contro Caino; è simbolo di grandezza.»
Marcello sorrise.
«Spero un giorno di potergli rendere pan per focaccia» disse.
«Lo vedo già, nipote mio. Vedo già quel giorno.»
Dieci minuti più tardi, Marcello uscì di casa. La zia gli aveva detto di recarsi a Piazza della Signoria per ottenere alcune informazioni da un suo collaboratore -presentandosi sotto le mentite spoglie di Francesco-, quindi si affrettò verso il punto d’incontro. In strada c’era più gente del solito, si creavano ingorghi come se nulla fosse, e Marcello si chiese cosa ci fosse di così importante da vedere.
Se lo spiegò due minuti più tardi, quando una folla di persone era riunita attorno ad una piattaforma di legno che svettava sopra le teste degli spettatori. Quattro uomini stavano su di essa: uno era un agente del Duca, Messere Ferdinando di Altamura, l’altro era un boia, ed un terzo stava in ombra con un cappuccio sulla testa. Questi si rigirava nella mano inguantata un rosario prezioso, di argento ed ossidiana.
«CITTADINI DI FIRENZE!» gridò Ferdinando, a cui rispose un boato assordante «SIAMO QUI PER ESPRIMERE LA NOSTRA INDIGNAZIONE NEI CONFRONTI DI QUESTO VILE CANE!»
Puntò il dito contro un uomo dagli occhi verdi, sul suo corpo erano visibili i segni di una tortura atroce.
Con un sussulto, Marcello riconobbe Giacomo Beccaccia, suo cognato, il padre di Fiorella.
«COLUI CHE HA BRUCIATO PARTE DEL NOSTRO AMATO BOSCO DI FONTE SANTA VERRÀ OGGI PUBBLICAMENTE GIUSTIZIATO, CON L’ACCUSA DI INFEDELTÀ AL DUCATO DI FIRENZE!» il popolo rispose con urla belluine.
Il boia trascinò avanti Giacomo, tirandolo per i capelli.
Dalla folle saliva il grido ”a morte il traditore”, Marcello lo sentiva echeggiare dappertutto, e per quanto spintonasse la calca non riusciva a liberarsi dalla morsa in cui era costretto.
Avrebbe voluto chiamare Giacomo, dirgli che anche lui era vivo, che avrebbero lottato insieme, ma non riusciva ad andare avanti.
Mentre il boia stava legando il cappio attorno al collo di Beccaccia, cadde con il viso sul pavimento, rivelando un coltello conficcato nella schiena.
I tre uomini si girarono verso Palazzo della Signoria, dove una figura spettrale ammantata teneva fra le mani una sottile lama sprovvista di manico. Alcuni uomini la braccavano, così quella lanciò l’arma contro uno dei suoi inseguitori che rotolò sul tetto e prese a correre. Nonostante fosse velocissima, gli inseguitori guadagnavano terreno ed uno di essi allungò la mano per afferrare il suo manto bianco di tessuto. Essa con un solo movimento aprì i bottoni della toga e si rivelò in una divisa dai colori bianchi e rossi, corta, con una calzamaglia dai rinforzi in ferro. Sprovvista del suo mantello, era la cosa più veloce che Marcello avesse mai visto, correva come una pantera sul tetto di tegole.
Arrivò alla sporgenza ultima del tetto, una strettissima passatoia di legno.
«Victoire aux Assassin!» gridò, prima di lanciarsi nel vuoto a braccia aperte.


ladie’s a gentleman! (author’s corner):
Seimilaquattrocentosessantasei.
Non ho mai scritto neanche una ONESHOT così lunga in tutta la mia vita! Mio Dio, il fandom di Assassin’s Creed mi rende logorroica! E menomale che avevo detto che non avrei scritto cose lunghe come quelle del primo capitolo! Scusatemi tantissimo per la lunghezza eccessiva, prometto che dalla prossima volta cercherò di contenermi ç___ç
Ok, signori, questo è quanto. Vediamo entrare in scena anche il Templare, il misterioso Jacques/Caino, un avversario temibile per il nostro Marcello -o meglio, Francesco. A proposito: il nome Francesco è un gioco di parole con il soprannome di Caino (L’Espagnol, che in francese significa Lo Spagnolo) perché Francesco significa “proveniente dalla Francia”, e come sappiamo molto bene la Francia e la Spagna erano in conflitto, proprio come Caino e Francesco.
Allego alcune foto che avevo promesso dal capitolo precedente e ne approfitto per far notare a tutti i lettori il tag INCEST che mi ero scordata di mettere quando ho pubblicato la storia; sì, fra parecchio la storia scoprirà risvolti incestuosi (non fra Marcello e Fiorella, potete stare tranquilli su questo) che caratterizzano il background di Chantal, non avranno influenze sul presente vissuto dai personaggi, però a qualcuno potrebbe dare fastidio la cosa.
Prestavolto di Chantal, interpretata da Kate Beckinsale in Underworld, cosa non è quella donna.
La collana di Caino, che a mio parere è fighissima.
La divisa di Chantal, quella che porta sotto la toga. Ovviamente non ha le gambe nude ma -come descritto sopra- porta una calzamaglia rossa rinforzata da placche di metallo. Quando ho visto questo cosplay, il mio corpo mi ha presentato la necessità fisica di darlo ad un personaggio femminile, quindi arrangiatevi se la realisticità va bellamente a farsi fottere, ma è troppo bello, TROPPO.
Ringrazio Bianca per l’aiuto con il francese e Stefania per l’aiuto con lo spagnolo!
Ora Ladie deve studiare per il compito di greco di domani, assolutamente, oppure è fregata.
Kiss,
la vostra disperatissima per il compito prossimo e felicissima per aver concluso il secondo capitolo Ladie.
   
 
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