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Autore: DanieleRu    05/02/2014    1 recensioni
La breve storia di tre ragazzi, ambientata in un ipotetico paesino del sud, mossi da strane motivazioni.
Genere: Generale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il lavoro era durato fin troppo tempo, sebbene non fosse stato difficoltoso. Il risultato era soddisfacente. Giovanni guardava con orgoglio la sua opera, ottenuta col sudore della fronte e un paio di spellature ai palmi delle mani. Impugnava ancora una piccola pialla, quella con cui aveva fatto la maggior parte del lavoro.
«Ma cosa sono?» chiese Luigi, indicando i due oggetti per terra.
«Sembrano due normali bastoni» disse Giuseppe, con la sua solita aria smarrita.
Alcuni compaesani pensavano che al ragazzo mancasse qualche rotella, altri ne erano più che certi. Ai suoi amici, invece, non importava ciò che la gente pensava. Come tutti i giovani, godevano nel contravvenire alle raccomandazioni e agli ordini degli adulti. O forse era perché loro due erano ancor più pazzi di quanto non lo fosse Giuseppe. Per di più avevano entrambi i capelli color carota, il che non deponeva certo a loro favore, viste le tante superstizioni che associavano quella chioma al diavolo.
«Ma che, devi andare a pascolare le capre?» disse Luigi. Era il più divertente della compagnia, sempre pronto a buttar giù una battuta.
«Amici miei» disse Giovanni, poggiando le mani sulle spalle dei due,con complicità, «ecco i migliori trampoli che abbiate mai visto in vita vostra!»
Giuseppe fischiò per la meraviglia, mentre Luigi restò ammutolito, senza una battuta pronta.
«A me sembrano comunque due bastoni!» continuò Giuseppe, imperterrito. Ne afferrò uno con le sue mani tozze e cominciò a menar fendenti in aria, come un Don Chisciotte che combatte contro i mulini a vento. Luigi dovette fare un salto all'indietro per evitare il colpo di bastone: la punta gli passò a meno di due centimetri dal petto.
«Dammi qua!» gridò Giovanni, strappando il trampolo dalle mani dell'amico. Non era arrabbiato con lui, ormai lo conosceva così bene da accettarne tutti i difetti. E non erano nemmeno pochi.
I tre si conoscevano da sempre, fin dalla nascita. Erano cresciuti insieme, e insieme avevano trascorso i momenti migliori e peggiori, compiuto le più belle marachelle e subito i più brutti castighi. Poco più che undicenni, frequentavano ancora la quarta elementare della scuola del paese, dopo essere stati (ingiustamente, a loro dire) rimandati. E forse era vero, non era nemmeno colpa loro.
«Venite con me» disse Giovanni. Seguito dai due, si diresse a una staccionata in legno distante una ventina di metri. Si trovavano in aperta campagna, su un terreno lasciato parzialmente incolto secondo la tecnica della rotazione delle colture.
Giunti alla staccionata, Giovanni lasciò i trampoli e con le mani fece forza sulla barra di legno dello steccato, per assicurarsi che potesse reggere il suo peso. Appena se ne convinse, facendo forza sulle braccia allargate per stare in equilibrio, vi montò sopra.
«Datemi una mano» disse ai suoi amici. «Portate qui i trampoli.»
I due ragazzi, dubbiosi sulle intenzioni dell'amico, non ebbero però nulla da ridire, e gli avvicinarono i due bastoni.
«Ma che vuoi fare?» chiese Luigi. «Guarda che finisci con la faccia a terra.»
Giovanni si appese ai due trampoli, così da non doversi mantenere in equilibrio, mentre i due amici li tenevano fermi. Quindi mise i piedi sulle staffe, due pezzi di cuoio attaccati al legno, a forma di anello, larghi abbastanza per infilarvi i piccoli piedi, nelle loro scarpe dalla suola ormai consumata.
Le famiglie a cui i tre giovani appartenevano non si potevano definire benestanti. Due erano figli di contadini, mentre il padre di Giovanni era falegname. Nonostante riuscissero a mandare i figli a scuola non potevano permettersi il lusso di comprare nuovi vestiti e scarpe ogni volta che si consumavano.
Issato sui trampoli, Giovanni cercò di mantenere l'equilibrio, mentre i suoi amici tenevano ancora ferme le due aste.
«Lasciatemi» disse a un certo punto Giovanni, sicuro di riuscire a tenersi in piedi. Libero di muoversi, cominciò subito a cadere in avanti. Alzò il trampolo destro, portandolo in avanti, recuperando così l'equilibrio. Poi fece lo stesso con il trampolo sinistro.
Ma c'era un problema, un grosso guaio. Non sapeva come fermarsi! Continuò a mettere un trampolo dietro l'altro, mentre la velocità continuava ad aumentare e si inclinava sempre più in avanti. Alla fine non resse più. Lasciò andare i trampoli e allungò le mani, pronto allo schianto.
Il dolore arrivò subito, prima ai palmi, poi alle ginocchia. Per fortuna il terreno era soffice e la caduta non troppo grave. In ogni caso, la predizione di Luigi si era avverata.
I due amici corsero verso il ragazzo a terra. Si inginocchiarono accanto a lui.
«Ti sei fatto male?» chiese Giuseppe. Giovanni lo fissò. Era stupito da quanto fosse stupida quella domanda, una domanda da un milione di dollari, avrebbe voluto dirgli, ma non parlò.
Luigi, invece, stava ridendo sommessamente. Poi, quando Giovanni scoppiò improvvisa-mente a ridere, anche Luigi esplose. Giuseppe non capì più nulla, ma senza accorgersene cominciò a ridere anche lui. Smisero di ridere tutti e tre solo quando ebbero le lacrime agli occhi.
Aiutarono Giovanni ad alzarsi, quindi si avvicinarono nuovamente alla staccionata. Giovanni si voltò, osservando il sole con gli occhi socchiusi. La sfera infuocata era ormai prossima a scomparire dietro la cresta della montagna che sovrastava il paesino. Era ora di tornare a casa. Non potevano portare con loro i due trampoli. Giovanni era certo che il padre glieli avrebbe sequestrati per ricavarvi due gambe di tavolo.
Non c'era molto posto dove nasconderli, ma visto che l'indomani sarebbe tornati a usarli, Giovanni pensò che lasciarli ai piedi della staccionata, coperti con un po' di terra, li avrebbe nascosti alle persone che di lì a poco sarebbero passate vicino allo steccato, tornando al paese dopo una dura giornata di lavoro tra i campi.
I tre ragazzi scavarono un solco, vi misero i due trampoli e li ricoprirono con un po' di terra, pestandola poi con i piedi così che non si notasse troppo che era stata smossa, Poi si avviarono, scherzando e giocando, sulla via di casa. Prima di partire Giovanni verificò che la pialla che aveva preso in prestito dal padre fosse al sicuro nella propria cartella, fatta di legno.
Il paesino contava un centinaio di basse casupole, più qualche altra costruzione nettamente più alta e robusta, indicativa della sfera sociale più elevata dei suoi residenti.
I tre ragazzi, entrati nel paese, stavano passando davanti a una di queste case, un'abitazione di due piani in muratura con un tetto a spiovere in tegole di terracotta, quando la porta in legno si aprì, lasciando uscire una donna sulla cinquantina, ingobbita dal tempo, seguito da una fanciulla che, a detta dei ragazzi, sembrava discesa dal cielo.
Era la figlia sedicenne di don Vincenzo, il podestà del paese da ormai molti anni. La ragazza ricorreva molto spesso nei sogni e nelle fantasie dei giovani, che poco conoscevano del sesso e del corpo femminile, ma che molto riuscivano a immaginare. Per dirla tutta, proprio questo era il motivo che aveva spinto Giovanni, qualche giorno prima, a inventarsi l'idea dei trampoli.
La giovane donna, molto timida, passò davanti ai ragazzi, che si scambiarono delle occhiate cariche di allusioni. Giovanni la salutò con un "ciao", leggermente intimidito, come mai gli capitava, mentre gli altri fecero un gran fischio, meravigliati. La madre della ragazza, indispettita, si frappose tra la figlia e gli sguardi dei ragazzi, anche se ancora troppo giovani per rappresentare un problema. Appena si furono allontanati abbastanza da non essere sentiti, Luigi e Giuseppe cominciarono a scherzare, e dopo qualche esitazione si unì a loro anche Giovanni.
«È proprio bella!» esclamò Giuseppe.
«Già, hai proprio ragione. Ma tu non la guardare» rispose Giovanni, ingelosito. Luigi scoppiò a ridere.
Dopo una mezzora, quando ormai era quasi buio, i tre giunsero a casa. Abitavano nella stessa viuzza, nella zona alta del paese, quella più decrepita. Malgrado ciò, le loro casupole erano tenute in buono stato, soprattutto grazie alle attenzioni costanti del padre di Giovanni. I tre si salutarono con delle pacche sulle spalle, quindi rientrarono nelle rispettive abitazioni.
«Sono a casa» disse Giovanni ad alta voce. La madre si girò a salutare il figlio. Aveva un'espressione dura, come sempre, ma dopotutto teneva moltissimo al ragazzo. Il padre, invece, non era ancora rientrato dal lavoro, sebbene fosse ormai buio.
«Tuo padre è andato da mastro Pietro, il ferraio, per la seghe e le lime nuove» disse la madre al figlio. Gli attrezzi che il padre di Giovanni usava si erano ormai da tempo consumati e non erano più utilizzabili per il lavoro. Il padre li aveva adoperati finché possibile, poi era stato costretto a richiederne altri al ferraio, che, con un prezzo di favore e qualche pezzo di legno in omaggio, avrebbe costruito per il falegname degli ottimi utensili. «Va' da lui! Potrebbe avere bisogno d'aiuto» concluse la donna, ormai prossima ai quarant'anni.
«Sì, madre. Vado» rispose Giovanni.
La bottega del fabbro ferraio si trovava nella parte bassa del paese, lontano dalla maggior parte delle case, per ridurre al minimo il fumo e la polvere di ferro che necessariamente andava a finire in esse, procurando malanni a uomini e animali. Giovanni procedette velocemente lungo le strade del paesino, ancora piene di gente, su cui si affacciavano casupole risplendenti del bagliore di mille candele e piene degli odori provenienti dai grossi pentoloni messi a bollire. Nel tempo che una pagnotta di pane impiega per cuocere, Giovanni fu davanti alla pesante porta di legno e ferro del fabbro, dalla quale, ancora aperta, proveniva aria calda, che andava a mescolarsi con quella di un già caldo principio d'estate. La fucina, la parte principale della bottega, era ancora attiva. Il calore era ottenuto dalla combustione del carbone, come d'altra parte avveniva per la gran parte delle stufe e dei bracieri presenti nelle case, le prime in quelle dei ricchi, gli altri fra le famiglie più povere.
Il ragazzo non entrò subito, ma rimase qualche minuto fuori, a contemplare un cane spelacchiato che passava da quelle parti. Era uno dei tanti cani randagi del paese, ma questo era molto mansueto. Lo fece avvicinare e lo accarezzò, incurante del rischio di prendere zecche e pidocchi. Quando il rumore del martello sull'incudine si fermò, Giovanni si rialzò, avviandosi all'ingresso della bottega. Il cagnolino, tutto pelle e ossa, lo seguì fino alla porta, ma non entrò con il ragazzo.
Il locale, grande poco più dell'unica stanza che componeva la casa dell'undicenne, era occupato da tre uomini. Uno, vicino alla fucina, era mastro Pietro, un omaccione dalle spalle larghe e la pelle nerastra, bruciata dall'aver vissuto da sempre vicino alla forgia. Il secondo, vicino al mastro, era poco più che un ragazzo. Giovanni non l'aveva mai visto in paese, ma con buona approssimazione doveva essere il nuovo aiutante, proveniente da qualche paese vicino, che veniva a sostituire il precedente apprendista, partito per la carriera militare. Il terzo uomo non aveva bisogno di essere riconosciuto dal figlio. Questi, come accadeva ogni volta che vedeva suo padre, provò un misto di orgoglio, rispetto e paura. Era abbastanza alto, quasi quanto mastro Pietro, e si potevano notare fin da lontano le callosità delle sue mani.
«Buonasera padre» disse il ragazzo. Salutò poi rispettosamente anche il fabbro e il suo giovane aiutante.
«Oh, Giovanni, figlio mio, che hai combinato oggi?» chiese il padre. Giovanni non aveva fatto nulla, o almeno pensava di non averlo fatto. L'uomo che aveva davanti a sé si era abituato così tanto da chiederlo ogni volta che vedeva il figlio, nonostante da qualche tempo il ragazzo non fosse più così monello. Ma il padre non si rassicurava, sospettando piuttosto che ci fosse qualcosa sotto.
Giovanni guardò il padre negli occhi, assicurandogli d'aver fatto il bravo, poi intimorito abbassò lo sguardo.
«Sta' attento a non farne una delle tue solite, altrimenti sai come va a finire poi a casa» lo mise in guardia il padre. Giovanni sapeva bene di quali punizioni si trattava. Nulla di esagerato, dopotutto l'uomo era troppo buono per essere violento, ma poteva ben costringere il figlio ad aiutarlo nella bottega, impedendogli di stare con gli altri ragazzi nel pomeriggio. Senza contare che il figlio sarebbe dovuto andare a letto senza cena. A pensarci, lo stomaco del ragazzo brontolò: aveva una gran fame!
«Dammi una mano con questi attrezzi» disse il genitore. Il tavolo era ingombro di oggetti da lavoro, alcuni di grandi dimensioni, altri abbastanza piccoli da poter essere racchiusi nel palmo della mano. Giovanni con attenzione prese alcune delle lime e un saracco, una grossa lama libera e flessibile, con l'impugnatura in legno da una parte. Stava per ripartire con i nuovi attrezzi in direzione della bottega del padre, quando entrò un altro uomo, particolarmente conosciuto in tutto il paese.
«Buonasera don Vincenzo» fu il saluto unanime delle persone presenti. Il podestà rispose cordialmente. Giovanni lasciò che i grandi parlassero da soli, e si avviò. L'ultimo incontro aveva subito spostato l'attenzione del giovane su Lucia, la figlia di don Vincenzo, di cui decisamente si era invaghito. Pensava spesso a lei e, nonostante l'età non ancora matura, non riusciva a togliersela dalla testa. Non aveva mai provato qualcosa del genere, non capiva di cosa si trattasse, ma aveva paura a parlarne con altri che non fossero i suoi migliori amici.
Lasciati i nuovi attrezzi e la pialla nella bottega del padre, Giovanni tornò a casa. Dopo qualche tempo tornò anche il padre. Dieci persone erano radunate attorno al focolare per la cena. Oltre a Giovanni e ai suoi genitori, c'erano gli altri tre figli, due maschi e una femmina, più grandi del ragazzo, i nonni materni e quelli paterni.
La cena consisteva in una zuppa di vari legumi secchi e qualche tozzo di pane raffermo. Era ormai dall'ultima Pasqua che Giovanni non mangiava più carne, e a meno di eventi eccezionali non ne avrebbe mangiata altra per tutta l'estate, tranne forse qualche poco nel mese d'agosto.
Mangiarono tutti in fretta, quindi rimasero svegli per qualche poco ad ascoltare i racconti avventurosi dei due nonni, uno dei quali era andato in guerra, mentre l'altro era andato come colono in Africa in cerca di fortuna. Infine andarono tutti a dormire.
L'indomani mattina Giovanni si svegliò all'alba per andare a scuola. Insieme con i suoi due inseparabili amici si diresse verso l'edificio, una costruzione in pietra su due piani, nella parte bassa del paese. Era l'unica scuola elementare del paese, e di tutte le campagne circostanti, per cui era strapiena di ragazzi e ragazze, con aule di almeno cinquanta alunni. La classe dei tre amici, composta da quarantotto alunni, era costituita solo da maschi, come era consuetudine ormai radicata. Giovanni vedeva sempre molte ragazzine per strada, alcune più grandicelle, altre già sposate, ma nessuna di queste era bella come Lucia. Il ragazzo non l'aveva mai vista a scuola. Del resto non c'era da sorprendersene: la gente ricca, come lo ero il padre della ragazza, potevano permettersi istruttori e maestri privati.
Non poteva farci nulla, non riusciva a distogliere il pensiero da lei. La cosa che rendeva più inquieto l'animo puerile di Giovanni era che non provava per la ragazza un sentimento d'affetto, come quello che la madre sente per il proprio figlio e che lui stesso provava nei confronti dei genitori. No, si trattava piuttosto di una sorta di attrazione, come di una mano che attirava con tutte le proprie forze l'attenzione del ragazzo sul corpo della sedicenne. Non aveva mai provato nulla di simile nella sua breve vita e non riusciva a capacitarsi. Ai suoi amici riusciva solo a paragonare tali sentimenti all'attrazione irrefrenabile verso i dolcetti e gli scherzi, che accomunava tutti e tre. Allo stesso modo, lui era attratto dal corpo di lei.
Giovanni notò che non tutti gli alunni erano in classe. Alcuni avevano abbandonato momentaneamente la scuola per aiutare la famiglia nella semina del grano e nel trapianto a pieno campo di ortaggi, come melanzane, pomodori e peperoni.
Quando il maestro entrò nell'aula, gli alunni erano tutti in piedi dietro i banchi di legno, mostrando rispetto, o forse paura, nei confronti dell'uomo. Camminava impettito, osten-tando una superiorità che di certo aveva in quel momento.
I tre ragazzi uscirono dalla scuola quando il sole era alla sua massima altezza nel cielo. Fecero una colazione al sacco con un tozzo di pane e una fetta di formaggio ciascuno, portati da casa. Normalmente dopo aver mangiato sarebbero dovuti andare a lavorare nei campi, aiutando i familiari. In quei giorni, invece, ne erano stati dispensati: dopotutto erano ancora solo poco più che bambini, e meritavano di poter giocare ogni tanto. Così, appena ebbero finito di mangiare, andarono sul campo a maggese dove avevano lasciato i trampoli il giorno prima. Trascorsero tutto il pomeriggio provandoli, a turno. Giuseppe non aveva per niente il senso dell'equilibrio e non riusciva che a fare un passo prima di cadere. Luigi, al contrario, riusciva bene a reggersi sui trampoli, ma tendeva a muoversi a scatti, senza alcuna armonia, e alla fine anche lui si ritrovava a faccia in giù sul terreno.
Giovanni, invece, era il migliore. Aveva un ottimo senso dell'equilibrio, buona destrezza, ma soprattutto aveva uno scopo preciso, che lo costringeva a impegnarsi di più. Anche nei giorni successivi i ragazzi si divertirono a camminare sui trampoli. Giovanni era divenuto molto capace, riusciva a percorrere tutto il campo senza cadere. Pian piano, inoltre, cominciò a spostare le staffe di cuoio più in alto, finché non raggiunse con la testa un'altezza, vertiginosa per un ragazzino, di quattro metri. Quando riuscì a salire con i trampoli su un dislivello del terreno particolarmente accentuato, comprese: era giunta l'ora, finalmente.
Giovanni aveva un buon piano in mente. Lo mise in atto nel giorno del Signore, qualche ora dopo la fine della messa domenicale, cui partecipavano tutti coloro che erano abbastanza in forze da recarsi in chiesa. Si comportavano come se stessero per rubare qualcosa: si muovevano circospetti, controllavano che non ci fosse nessuno in giro e stavano in profondo silenzio. Gran parte delle donne erano già in casa, a preparare la colazione domenicale. Tutti gli uomini, invece, si trovavano ancora sul cortile di fronte alla chiesa, ad ascoltare una sorta di comizio del podestà. In realtà stava soltanto informando il popolo sulle novità in fatto di leggi, tasse e guerre. Il regime fascista era duro, a volte, ma il paese era così piccolo, e l'interesse che poteva suscitare così scarso, che non c'era rischio che il comportamento del podestà potesse destare clamore. In questo modo, l'uomo otteneva facilmente il favore dell'intera popolazione del paese.
Le strade erano quindi per lo più deserte, tranne che per tutti i bambini che giocavano allegramente. Questi ultimi rimasero esterrefatti alla vista dei tre ragazzi che, con accortezza, si muovevano tra le strade del paese, reggendo i due trampoli. In poco tempo una piccola processione di bambini, anch'essi in silenzio, si era formata dietro i tre giovani. Luigi verificava a ogni angolo che la via fosse libera. Infine giunsero nella piazza principale del paese. Poggiarono i trampoli a terra, accostandoli alla parete di una casa in modo che fossero poco visibili. I bambini si accalcavano dietro i tre ragazzi. Stavano ricominciando a far baccano, il che avrebbe potuto rovinare tutto il piano. Giovanni fece in modo che stessero in silenzio. Alcuni se ne andarono, molti altri rimasero ad aspettare. Giovanni sbirciò da dietro l'angolo della strada che dava sulla piazza. Quest'ultima si trovava sulla destra, mentre sulla sinistra correva un lungo muro di pietra, che racchiudeva il largo cortile interno del convento francescano. Giovanni vi era entrato qualche volta, notando come i frati riuscissero a coltivare con maestria ogni tipo di ortaggio. Non allevavano, invece, alcun tipo di bestiame.
Giovanni concentrò la propria attenzione su una casa di pietra a due piani, posta all'estrema destra della piazza. La costruzione era rivolta a est, con il monte alle sue spalle. Al mattino era investita dalla luce del sole, che la rendeva sempre più calda rispetto alle altre case. Era l'abitazione del podestà, nonché della figlia Lucia.
I bambini aspettavano speranzosi che accadesse qualcosa di divertente: tutti in paese conoscevano Giovanni e i suoi due amici, e ben sapevano di cosa fossero capaci.
Giovanni, che possedeva una vista acuta, fu il primo ad accorgersi delle due donne quando esse entrarono in piazza. Andarono spedite verso l'abitazione del podestà: erano proprio Lucia e la madre. Evidentemente stavano tornando a casa prima che fosse finito il comizio: proprio quello che sperava Giovanni!
Alla vista della ragazza, il giovane rimase un attimo come ipnotizzato. Era attratto da lei come mai lo era stato per nient'altro e nessun altro. Continuò a osservarla mentre si accingeva a entrare in casa. Giovanni era certo che la ragazza non lo facesse apposta, ma i suoi movimenti erano sempre seguiti da tutti i ragazzi nelle vicinanze. Alta ben più della madre, Lucia aveva lunghi capelli castano scuro, leggermente arricciati, occhi castani e la pelle del viso con un accenno di lentiggini, che risultavano comunque piacevoli. Il tutto era accompagnato da un sorriso che non mostrava spesso, a causa della timidezza, ma che riusciva ad ammaliare tutti coloro che avevano visto quei denti perfettamente bianchi. Dopotutto, teneva molto alla cura del suo corpo. Indossava un vestito raffinato, costituito da una lunga gonna grigia ricamata, e una camicia bianca merlettata.
Lucia entrò nella casa, scomparendo alla vista insieme alla madre. Le case vicine dovevano essere anch'esse già popolate, lo si capiva dal fumo che usciva dai comignoli, ma ancor più dal profumino che proveniva da tutti i calderoni sul fuoco.
Accertatosi che nessuno fosse in vista, Giovanni raccolse i trampoli da terra e li mise in verticale, assicurandosi che Giuseppe e Luigi li tenessero ben fermi. Quindi, con l'aiuto anche di alcuni blocchi di pietra che si trovavano lì per terra, riuscì a salire sui trampoli, raggiungendo l'altezza di quattro metri. Con il mento riusciva ad appoggiarsi al tetto della vicina casupola, tanto era alto.
Appena fu sicuro di riuscire a mantenere l'equilibrio, avvertì i suoi amici di lasciarlo andare. Subito cominciò a cadere in avanti, ma muovendosi riuscì a riprendersi. Un passo dopo l'altro si avvicinò alla casa del podestà, mentre tutti i bambini lo seguivano in silenzio.
Giovanni teneva gli occhi fissi su una finestra in particolare, al primo piano della casa, all'estrema destra. Era aperta, nonostante l'interno fosse oscurato da una tenda bianca. Sapeva bene che si trattava della camera privata (un lusso che pochi potevano permettersi) di Lucia. I trampoli facevano un po' di rumore quando strisciavano contro qualche sasso, ma nessuno dalle case vicine si accorse di nulla. Infine Giovanni raggiunse la finestra, quindi si appoggio al davanzale. Scostò di quel tanto che bastava la tenda.
E fu così che riuscì a vederla.
Lei era lì, seduta su un letto evidentemente molto più comodo e caldo di quelli di pagliericcio che usavano i più disagiati. La ragazza si era tolta la camicia bianca, che adesso si trovava ripiegata con cura sopra il letto, rimanendo solo con il corpetto ricamato di pizzo, mentre indossava ancora la lunga gonna. Come Giovanni aveva previsto, la ragazza si stava cambiando d'abito, per evitare che i vestiti buoni si rovinassero in fretta.
Giovanni rimase aggrappato al davanzale, imbambolato di fronte a quella vista quasi angelica. Lucia stava per togliersi anche il corpetto: era proprio ciò che il ragazzo voleva.
Quando finalmente riuscì a vederli, Giovanni ebbe un brivido. La bocca era spalancata e il cuore in tumulto, mentre osservava i seni prosperosi della ragazza. Mai ne aveva visti davvero, il giovane, e comunque mai così da vicino e per così tanto tempo.
Lucia si girò di scatto, incontrando lo sguardo di Giovanni. Era esterrefatta: le risultava inimmaginabile che un ragazzo potesse guardarla dalla finestra. D'istinto prese a gridare con tutta la voce che aveva in corpo, spaventata.
Con la stessa velocità di un fulmine che tocca terra, la madre spalancò la porta della camera, preoccupata dalle grida. Quando vide il ragazzo aggrappato alla finestra prese a gridare anche lei, lanciando improperi e inveendo nei confronti di Giovanni. Questi si allontanò subito, prima che la donna potesse beccarlo, e cominciò a correre con i trampoli, che gli impedivano qualunque movimento veloce.
La madre continuò a gridare, affacciata alla finestra, additandolo con la mano, mentre molte altre madri erano uscite dalle case e osservavano stupefatte la situazione. Tutti i bambini sghignazzavano felici, come anche le bambine: erano ancora troppo piccole per schierarsi a difesa di Lucia.
Giovanni stava perdendo l'equilibrio. La corsa l'aveva fatto inclinare troppo in avanti, e non c'era modo di riprendersi. Alla fine cadde a terra, facendo una capriola in avanti. Si sbucciò le ginocchia, ma si rialzò e continuò a correre. Poco dopo gli si accostarono i suoi due amici, anche loro correndo e ridendo, mentre i bambini si erano ormai dispersi. Si portarono fino al confine del paese e si nascosero.
Presto o tardi sarebbero tornati a casa, avrebbero ricevuto molti rimproveri e parecchie punizioni, ma Giovanni era felice. La sua bramosia era ora soddisfatta: l'aveva finalmente vista, e per un bel po' di tempo avrebbe avuto di che raccontare ai suoi coetanei.
  
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